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Devianza come costruzione sociale: l’Interazionismo Simbolico

3.6. Identità e vittimità

La vittima spesso acquisisce una identità negativa soprattutto se ha subito violenze legate all‟aggressività affettiva caratterizzata da reati come le violenze domestiche (psicologiche, fisiche ed economiche), dai reati sessuali o dallo stalking. Il legame traumatico con il proprio carnefice, che spesso dura per anni, rende di fatto la vittima incapace di mantenere una identità credibile, per la natura patologica della relazione intima.

Nella nostra società la legittimazione e il riconoscimento dello status di vittima, che comporta di fatto l‟apertura di scenari di restituzione e risarcimento del danno, è legato alla modificazione dello stile di vita della vittima, cioè dalla sua capacità di interrompere il legame patologico. Se le vittime non riescono a farlo vengono etichettate come incapaci e la loro identità viene socialmente costruita con valenza negativa. Di fatto la reazione sociale di riconoscimento e aiuto spesso è attivata dall‟identità della vittima ideale, pura, che perdona e che ha assunto un ruolo passivo nel proprio processo di vittimizzazione. La

vittima ideale per i sistemi di giustizia e di assistenza deve essere vittima di un crimine perseguibile e di conseguenza normativamente definito, deve essere credibile e deve avere bisogno dei servizi (se da sola si prende cura del proprio dolore non è vittima) con uno stato di bisogno paradossalmente misurabile con indicatori certi, nella realtà non individuabili. Ciò determina all‟interno delle popolazioni di vittime fragili (donne, minori e disabilità come gli anziani, i portatori di handicap o i malati psichiatrici) categorizzazioni errate e condizionate dalla presenza di risorse interne (equilibrio, capacità elaborative, strategie di coping, canalizzazione delle emozioni etc.) ed esterne (reti significative, possibilità economiche, etc.).

Best (1997) sostiene come l‟ideologia negativa della vittima porti le stesse, nel sistema giudiziario, a scoraggiare le azioni penali o ad autoincolparsi della propria vittimizzazione, o a sentire il peso dell‟ambiguità relazionale nel legame con il loro carnefice. Questo determina, come conseguenza, una reazione di scetticismo e non credibilità verso la vittima che mette in discussione la legittimità delle loro richieste. Spesso il loro sentire è affine al ruolo dell‟imputato per la forte valenza del giudizio implicito. Così, ad esempio, le donne vittime, nel sistema giudiziale, vengono ritenute “disfunzionali” (Mahoney, 1991) perché incapaci di resistere efficacemente alla propria vittimizzazione e di uscire dalla relazione patologica.

Holstein e Miller (1997) descrivono un processo di etichettamento della vittima nel percorso giudiziario per cui lo status di vittima deve essere necessariamente sempre negoziato, viene spesso contestato o imposto.

Il riconoscimento dell‟identità di vittima è un processo di interazione complesso tra la vittima stessa e gli attori sociali, che valutano anche la dimensione morale. Vi è quindi una contingenza dell‟identità vittimale che cambia a seconda della reazione degli attori sociali, del contesto e del tempo, in cui l‟interazione si svolge, e che può determinare anche una colpevolizzazione della vittima perché non rispondente all‟idea della vittima ideale.

Le vittime, per la società, devono rispondere a stereotipi culturali (Satnko 1981) e devono dimostrare, con un costo personale e sociale altissimo, la loro irresponsabilità nella criminogenesi e nella criminodinamica del reato. Il costo dell‟identità di vittima ideale è molto alto. La gestione delle emozioni, ad esempio nelle aule di tribunale (Konradi, 1999), comporta per la vittima un allineamento alla norma, tale da renderne adeguata la sua credibilità. Altrimenti la vittima non viene tenuta in alcuna considerazione. La gestione delle emozioni è strettamente correlata ad una identità credibile, perché

l‟incapacità di canalizzarle e di gestirle rende un‟immagine non irresponsabile nell‟escalation aggressiva con l‟altro carnefice, che dovrebbe essere in realtà il solo portatore del rifiuto sociale.

Molto spesso le vittime ancora oggi sono ritenute responsabili perchè facilitanti o provocatrici la loro vittimizzazione. Conformarsi al sistema giuridico- processuale gestendo la propria vittimità con una identità adeguata al contesto è di fatto una strategia, non meno importante della costruzione di un‟identità totalmente remissiva o di un‟identità aggressivamente proattiva nella richiesta del riconoscimento dei propri diritti. Una rappresentazione di Sé proattiva contrasta con l‟aspettativa di “purezza” della vittima ideale, soprattutto perché spesso non è allineata o compiacente con chi controlla i sistemi giudiziari e dell‟assistenza. Una reazione cosi forte delle vittime spesso si ha nel momento in cui le indagini non procedono o non vanno nella direzione del riconoscimento del patimento e del danno della vittima.

Le strategie di coping che le donne ad esempio attivano durante la relazione affettiva con il proprio aggressore, spesso per periodi anche lunghi di mesi o anni, non consente loro di rappresentare e mantenere l‟identità di vittima ideale e di conseguenza di legittimarsi come tali (Dunn, 2001). Così l‟identità di vittima deve essere negoziata costantemente a seconda della dimensione processuale e dell‟assistenza che la coinvolge. Nell‟esperienza di molte vittime l‟esasperazione del proprio dolore comporta un etichettamento come ”borderline” o come “sante”, “credibili”, “non credibili”, “innocenti”, “colpevoli”. Rimane il fatto che l‟aspettativa nei sistemi giudiziari e dell‟assistenza è che la stessa sia innocente cioè non abbia responsabilità alcuna nella propria vittimizzazione e che abbia agito ogni strategia possibile per difendere la propria incolumità. Così le vittime imparano ad essere e a comportarsi come ci si aspetta modificando la propria identità e arrivando anche ad essere non cooperative, strutturando difese di fronte all‟indifferenza reale o percepita o di fronte all‟intrusività nel proprio privato, che invade la storia e il quotidiano, dove il presupposto valutativo è il giudizio morale e il pregiudizio. Così per non affrontare l‟ulteriore dolore di una troppo facile vittimizzazione secondaria attivano processi di modificazione per far aderire la propria identità alle aspettative sociali (Goffman,1963) cercando di dissipare una possibile stigmatizzzaione.

Spesso le vittime si sentono “sopravvissute” oltre che vittimizzate e si rendono pienamente conto che il loro status vittimale ha per i sistemi giudiziari e dell‟assistenza connotazione negativa. Sentono che non sono ritenute meritevoli di ascolto, sguardi attenti e rispettosi, attenzione. Si attivano quindi per contare solo su se stesse piuttosto che

affidarsi a quei sistemi, sviluppando un proprio empowerment, semplicemente per superare il proprio status vittimale e liberarsi dello stigma. In realtà sono proprio i sistemi giudiziari e dell‟assistenza che rinforzano lo status vittimale con i processi di vittimizzazione secondaria, mentre la vittima ha bisogno, strategicamente e a volte in maniera proattiva, di riprendere il controllo sulla propria vita. A volte fino ad esasperare questa proattività tanto da diventare esse stesse “devianti” rispetto alla norma.

Per quanto l‟identità vittimale sia propria per un periodo della vita e per quanto sia caratterizzata da elementi soggettivi e quindi parziali per il sistema organizzativo e il contesto socio-culturale di riferimento, gli effetti e l‟esito della vittimizzazione sono spesso devastanti a lungo termine, perché discredito e scarsità di sguardi determinano un non riconoscimento dei diritti e della propria credibilità. L‟identità viene negoziata costantemente in base alla risposta del contesto e questo accentua la fragilità soggettiva che facilita la radicalizzazione interiore della vittimizzazione secondaria.