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Le teorie del conflitto non marxiste La vittima nella teorizzazione di R Quinney

Le teorie del conflitto

6.2. Le teorie del conflitto non marxiste La vittima nella teorizzazione di R Quinney

L.A. Coser (1967) afferma che la teoria del conflitto trova le sue radici nella mutata posizione del sociologo nel contesto della società americana, ed in particolare nel rapporto con gli ambienti governativi e con le élites decisionali. Assume una posizione più distante che consente di guardare al conflitto come una componente essenziale della dinamica sociale e non più come un fattore di turbamento dell‟ordine, spiegabile con riferimento alle

disfunzioni psicologiche presenti a volte nei comportamenti individuali o al massimo, all‟esistenza di zone di “patologie sociale”. All‟interno delle società occidentali prevalgono elementi di differenziazione interna piuttosto che elementi di omogeneità, che determinano movimenti di opposizione ed in cui si palesano divergenze di opinione e di interessi sul piano politico e culturale. È necessario uscire dall‟utopia di una società pensata come insieme integrato intorno a valori e interessi comuni ai suoi componenti, per riconoscere il conflitto come elemento normale e universale di ogni società (Dahrendorf 1985). Il conflitto è valorizzato per il contributo che dà alle dinamiche dell‟insieme dei rapporti sociali esistenti. Oggetto di studio sono le dinamiche dei e tra i gruppi sociali in lotta per la distribuzione del potere e dell‟autorità.

Il modello conflittuale spiega la devianza riconducendo il fenomeno a una teoria più generale della società, che vede il conflitto come norma e non come fatto eccezionale e la lotta tra gruppi portatori di interessi diversi come la fonte di produzione dei contenuti del sistema giuridico, contenuti che definiscono il problema tra ciò che è lecito e ciò che non lo è. Questa prospettiva teorica quindi applicata alla criminalità e alla devianza evidenzia elementi come il conflitto di interessi, la lotta per il potere, la legge come espressione della volontà di chi in quel momento prevale, e la criminalizzazione dei comportamenti considerati inaccettabili dai gruppi vincenti.

Coser (1967) distingue conflitti realistici, insiti in ogni sistema sociale in cui le persone sollevano contrastanti rivendicazioni per conseguire posizioni sociali, potere, risorse etc. e conflitti non realistici, dovuti a rinunce e frustrazioni inerenti il processo di integrazione sociale, che si manifesterebbero come sfogo di tensione attraverso agiti aggressivi contro soggetti intercambiabili e che sono caratteristici dell‟emarginazione e della criminalità. L‟Autore introduce inoltre la figura del “nemico interno” che ogni gruppo può auto determinare e che, reale o presunto, aiuta il gruppo a ritrovare solidarietà interna nel conflitto con esso40. Le tensioni accumulate nei confronti di un oggetto-scopo non raggiungibile vengono scaricate su un oggetto diverso, senza che la persona si renda conto della sostituzione e del suo significato. Quindi il gruppo dominante “sposta” il conflitto da sé ad altro e ne incoraggia l‟aggressione (De Grada, 1972). I comportamenti criminali possono servire per rafforzare l‟identità ideologica delle persone conformiste e per dirottare l‟aggressività sui membri devianti come “nemici interni”. Inoltre Coser (1967) sottolinea il rapporto tra conflitto e creazione o modificazione di norme di diritto

40 In psicologia il richiamo è al “capro espiatorio”, che è prevalentemente un meccanismo di difesa

perché il conflitto è stimolo alla produzione di norme, regole e alla creazione di nuove istituzioni e agisce come forza socializzatrice tra le parti contendenti, intensificando la partecipazione alla vita sociale, e facilitando il processo di adattamento alle nuove condizioni che si sono create.

In campo criminologico la teoria conflittuale viene sviluppata soprattutto da George B. Vold (1958), A.T. Turk (1966,1969) e Quinney (1970).

Vold descrive la società come un complesso di gruppi tenuti insieme da un mutevole e dinamico equilibrio di interessi e sforzi in reciproca opposizione. Il diritto nasce dall‟impegno dei diversi gruppi in conflitto a far prevalere i propri punti di vista e rappresenta lo strumento attraverso il quale chi vince attua la criminalizzazione dei gruppi avversari. Si parla in questo caso di criminalizzazione primaria41. L‟Autore concentra la sua attenzione a forme di criminalità determinanti guerre, lotte sindacali, proteste a contenuto politico, che è considerato il modo naturale delle persone di agire per mantenere in vita il sistema in cui sono coinvolte. Il comportamento criminale è quindi necessario per i gruppi che proteggono e difendono i propri interessi da altri gruppi. È visto come un evento che si colloca nel solco dell‟azione richiesta al gruppo per mantenere le proprie posizioni di lotta con gli altri gruppi (Vold 1958). Non vi è spiegazione per gli agiti criminali d‟impeto o irrazionali ma solo un modello di criminalità come azione di gruppi conflittuali.

L‟Autore considera la società come una struttura in gruppi in competizione tra loro, che entrano in conflitto quando i differenti interessi e scopi vengono a sovrapporsi. La crescita dei contrasti rafforza la solidarietà all‟interno di ogni gruppo fino al punto da farlo lottare, anche con la forza, per difendere i propri interessi. Poiché le minoranze non sono in grado di influenzare il processo normativo ne consegue la criminalizzazione dei loro comportamenti da parte delle leggi. La criminalità perciò è la conseguenza dell‟azione di gruppi conflittuali che agiscono con la stessa logica di minoranze politiche e culturali, per ottenere reciproci aggiustamenti al fine di consolidare i propri interessi.

Turk all‟interno di questo quadro sviluppa considerazioni che riguardano il conflitto culturale alla base della devianza giovanile, alla qualificazione della criminalità in termini di status sociale attribuito attraverso il potere di definizione, alla considerazione dell‟insieme degli elementi che concorrono al processo di criminalizzazione (non solo il

41 La “criminalizzazione primaria” è il processo di individuazione da parte del legislatore delle

momento legislativo ma anche e soprattutto l‟attività degli organismi di controllo42

), alla diversa probabilità di criminalizzazione a seconda della forza relativa dei gruppi che si confrontano (quello dei controllori e quello dei violatori di norme) e del “grado” di realismo nelle mosse usate nel conflitto (con conseguente accentuazione della criminalizzazione in direzione dei gruppi sociali più svantaggiati), alla distinzione tra processi di criminalizzazione operati dai settori istituzionali e processi di stigmatizzazione che avvengono nel contesto sociale allargato. L‟assegnazione dello status di criminale da parte delle istanze ufficiali è solo parzialmente collegata all‟effettivo comportamento criminale che è solo una delle variabili che incidono sulla probabilità di criminalizzazione. Questa è seguente al processo di stigmatizzazione sociale e all‟interesse delle strutture politiche detentrici del potere e dell‟autorità di definire il conflitto rappresentato da quel comportamento in termini di violazione delle norme legali. La scelta di definire alcuni comportamenti in questo modo e di applicare lo status di criminale a chi li mette in atto avviene in un contesto generalmente politico, staccato da altri livelli del sociale, primo fra tutti la collocazione di classe dei protagonisti.

Turk sostiene la necessità di analizzare la criminalità in relazione all‟ordine legale, dal momento che viene definito dalle élites detentrici del potere per il controllo della società e dei tempi di vita. La criminalità ha origine dal conflitto tra i gruppi dominanti, che creano le regole, e quelli dominati, che rifiutano di ottemperare ad esse. Peraltro è la stessa lotta degli attori sociali più deboli per controllare le proprie vite che spesso sfocia in violazione delle norme, così come i detentori del potere sfruttano la loro condizione sociale per criminalizzare i membri delle classi inferiori che non si piegano alle loro regole. Con il concetto di sophistication, l‟Autore definisce il livello di raffinatezza con cui il gruppo si può opporre alle norme senza arrivare ad una forma di ostilità aperta e questo è possibile conoscendo a fondo i modelli di comportamento altrui, in modo da poterne approfittare (Balloni, 1983). Ne consegue che il conflitto con l‟autorità diviene più significativo se i gruppi sono organizzati e sofisticati e si possono così determinare futuri mutamenti sociali.

Quinney43 ritiene che l‟unica soluzione per il crimine risieda nella costruzione di una società basata sui principi socialisti piuttosto che su quelli capitalistici (Quinney, 1974,1975). La sua “teoria della realtà sociale del crimine”, analizzando le relazioni tra società, potere e criminalità si fonda su 6 preposizioni (Quinney, 1970):

42 Si parla di “criminalizzazione secondaria”

1. definizione del crimine: il crimine è una definizione della condotta stabilita da attori autorizzati in una società politicamente organizzata,

2. formulazione delle definizioni penali: le definizioni penali descrivono quei comportamenti che confliggono con gli interessi dei settori della società che hanno il potere di decidere la politica pubblica,

3. applicazione delle definizioni penali: le definizioni penali sono applicate da quei settori della società che hanno il potere di decidere la politica pubblica,

4. sviluppo dei modelli comportamentali in relazione alle definizioni penali: i modelli di comportamento si strutturano nella società organizzata in classi in relazione alle definizioni penali e, in tale contesto, le persone commettono azioni che hanno una relativa probabilità di essere definite criminali,

5. costruzione dei concetti di crimine: i concetti di crimine sono costruiti e diffusi nelle diverse parti sociali dai mezzi di comunicazione di massa,

6. la realtà sociale del crimine: la realtà sociale del crimine è costruita per mezzo della formulazione e applicazione delle definizioni penali e alla costruzione dei relativi concetti.

La teorizzazione di Quinney pone l‟accento su una ideologia del crimine determinata dalla classe dominante e basata su alcuni assunti: la microcriminalità rappresenta la forma peggiore di delinquenza; i crimini sono commessi prevalentemente dalle classi inferiori o dalle minoranze; esiste un delinquente-tipo; le classi medio alte sono prevalentemente non criminali. Quindi gli appartenenti alle classi disagiate vengono più facilmente perseguiti penalmente, arrestati ed etichettati come delinquenti, vengono trattati dal sistema penale e dalla giustizia in termini più severi, mentre le attività criminali dei ceti medi- superiori finiscono per non essere rilevate o, se scoperte, rimangono impunite44.

Relativamente alla figura della vittima, l‟Autore si interroga sulla funzione di quest‟ultima, nel sistema criminale, proprio perché la definizione di chi si debba considerare “una vittima” cambia a seconda dei modelli culturali delle classi dominanti, che orientano il modo di pensare delle classi subordinate. La vittima dimostra, con la sua sola presenza nel sistema, quale minaccia sia stata inferta all‟ordine sociale e quindi giustificando e rendendo giusto l‟intervento della forza e di misure repressive per il ripristino dell‟ordine violato. È quindi funzionale al mantenimento dello status quo ed è il

44 E’ forte l’influenza di Sutherland

pretesto per esercitare il controllo sociale da parte di chi esercita la forza e detiene il potere punitivo.

L‟Autore afferma che il concetto di vittima è relativo, assumendo nel corso del tempo, in relazione al sistema dominante, connotazione differente a seconda delle condotte che vengono definite come “giuste” o “sbagliate” (l‟ingiustizia è quindi orientata ideologicamente) (Vezzadini, 2012). Esiste quindi una possibile strumentalizzazione politica delle vittime. Se è vero infatti che in una società divisa in classi il potere di fare e di applicare la legge implica la criminalizzazione di alcune condotte e la tolleranza verso altre, e quindi la qualificazione di alcuni soggetti come devianti e di altri come vittime predestinate, allo scopo di tollerare privilegi e interessi delle classi dominanti, esiste anche la possibilità di una strumentalizzazione delle vittime attraverso veri e propri businnes.