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Devianza come costruzione sociale: l’Interazionismo Simbolico

3.5. E Goffman Lo stigma e il biasimo

La parola “stigma” indica la situazione in cui l‟individuo è escluso dalla piena accettazione sociale. La società suddividendo in categoria le persone, opera attraverso strumenti predefiniti e definisce quelle che sono gli attributi da considerare naturali nel processo di appartenenza a una precisa categoria. Il soggetto da persona completa subisce un declassamento e diviene segnato, stigmatizzato. Lo stigma è discredito, è una mancanza, un handicap, una limitazione che determina una frattura tra l‟identità sociale che il soggetto dovrebbe avere e quella che gli viene assegnata. Goffman pone in antitesi l‟identità “virtuale” con l‟identità “reale” e lo stigma è quell‟attributo che suscita negli altri dubbi sull‟identità. Le stigmatizzazioni possono derivare da malformazioni fisiche, o da aspetti del carattere criticabili (mancanza di volontà, passioni sfrenate o innaturali o disonestà), o da stigmi legati alla razza, alla nazionalità, alla religione (Goffman, 2008). La persona portatrice di uno stigma perde delle caratteristiche umane, è non normale, perché segnata. Lo stigma identifica quindi una “mancanza” che ne determina la diversità, l‟inferiorità. Nell‟interazione lo stigma può diventare “stereotipo”. Ogni volta che un individuo è sorpreso a compiere un atto deviante produce una reazione sociale che gli addebita un‟etichetta, che a sua volta è causa di devianza. La persona etichettata interiorizza l‟etichetta di deviante e si autodefinisce come tale, dando corso ad una carriera deviante per la quale poi sarà difficile tornare a conformarsi. La devianza esiste se chi l‟osserva, il gruppo dominante, la fa esistere come tale, attraverso una reazione sociale per cui quell‟atto commesso viene ritenuto non conforme alle norme.

Il soggetto che esperisce caratteristiche di stigmatizzazione è quindi diverso dal contesto sociale, composto da persone che non hanno tale attributo, e diverso rispetto a sé, quando lo stigma è l‟esito di un mutamento dell‟esistenza (Vezzadini, 2012). La persona stigmatizzata trova nel suo quotidiano “diniego sociale” non “accettazione” perché coloro che interagiscono con lei non gli accordano il rispetto e la considerazione che la sua

identità sociale prevede e che si aspetta: lo stigma ha modificato le sue caratteristiche richiamando il biasimo altrui. Spesso l‟isolamento o il tentativo di modificare la propria condizione di stigmatizzato sono strategie di risposta al biasimo sociale.

Il peso dello stigma non è molto diverso dal peso determinato da un processo di vittimizzazione: cambiano i rapporti intrattenuti dal soggetto con il contesto sociale ed incontra ugualmente difficoltà nella gestione del quotidiano e nelle relazioni. La vittima è connotata, suo malgrado, da diversità e la società reagisce spesso a tale condizione con inappropriatezza.

La vittima viene spesso allontanata, discriminata ed esclusa anche quando i sentimenti della società sono contradditori. In particolar modo quando il soggetto non ha facilitato o provocato in alcun modo la sua vittimizzazione, quando cioè è vittima involontaria per cause esterne, dal soggetto non volute e ricercate, porta con se comunque la supposizione degli altri di essere precipitata o di aver facilitato quanto le è accaduto. Imbarazzo, disagio, pietà, commiserazione ma anche biasimo sociale, perché la vittima, per difesa della società stessa, per paura o per carenze di risposte, deve rimanere altro da noi.

Per Ryan (1971) il biasimo, di cui la vittima è spesso oggetto, rinvia al concetto di colpevolizzazione della stessa. È uno sguardo della società funzionale a mantenere l‟ordine sociale, l‟equilibrio interno che permette al cittadino “per bene” di sentirsi non colpevole davanti alle ingiustizie sociali. La colpevolizzazione della vittima è un meccanismo distorsivo della realtà per giustificarsi ed autoassolversi dai drammi sociali. È spesso cornice implicita supporre che nelle vittime ci sia “qualcosa che non va perché “diverse” da coloro che non hanno mai subito processi di vittimizzazione, che questa diversità rende più comprensibile, e giustifichi, il loro essere vittimizzate, perché se fossero uguali agli altri non sarebbe capitato loro nulla, ma soprattutto che le vittime solo cambiando i loro atteggiamenti e comportamenti potranno non essere più vittimizzate.

Per Goffman (2008) lo stigmatizzato deve aderire al ruolo costruito dalla società, che si aspetta che egli “reciti e mantenga” quel ruolo senza modificarlo. Sarà così più facile provare sentimenti di pietà o compassione invece del biasimo.

Afferma Goffman (2008) che nell‟interazione con lo stigmatizzato (vittima) non è raro “non essere a proprio agio” tanto da modificare il nostro comportamento (si enfatizza, si sottovaluta, si è compulsivi o salvatori) in modo innaturale. Allo stesso modo lo stigmatizzato (vittima) può percepire la non accettazione del contesto, fino a ritenerla a volte comprensibile (non rari i sensi di colpa della vittima) riscontrando in sé l‟assenza di

quei tratti che altrimenti la renderebbero normale, accettabile agli altri. Sono infatti le sue cornici implicite, fatte di criteri sociali interiorizzati, con cui anch‟egli si confronta. Inoltre il rischio di una seconda vittimizzazione, le cui radici sono profondissime nelle nostre società, è alto: la ricerca del riconoscimento pubblico delle cause che hanno stigmatizzato il soggetto o vittimizzato la vittima è spesso manipolato da persone prive di scrupoli o gruppi sociali che ne possono trarre vantaggio. La persona accetta allora di sfidare il biasimo sociale superando la vergogna e l‟imbarazzo che la pubblicizzazione della proprio situazione comporta, a volte illudendosi di ricevere riconoscimento e rispetto (Vezzadini, 2012).

Ancora più frequentemente l‟isolamento è la risposta con cui si affronta il dolore, così come probabili sono le reazioni di ostilità, rabbia e perdita di fiducia negli altri.

Il rapporto tra stigmatizzato e società (si legga vittima e società) è sempre mediato da gruppi portatori del medesimo stigma, dai “portavoce” il cui compito è di rappresentare quei gruppi, e dai “saggi” che con la loro funzione (operatori del servizio sociale, volontari, operatori di professionalità diverse del pubblico e del terzo settore che si occupano a vario titolo dei processi di vittimizzazione) e che, permettendo al soggetto di essere se stesso, in assenza di scenari diversi e di capacità di rimuovere gli ostacoli ai processi di “normalizzazione”, ne rinforzano la condizione di esclusione e marginalità.