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Z Bauman: La vittimizzazione collettiva dell’Olocausto.

Globalizzazione e vittime collettive

7.2. Z Bauman: La vittimizzazione collettiva dell’Olocausto.

Si parla di vittimizzazione collettiva quando la sofferenza e il danno colpiscono un gruppo o una aggregazione di individui il cui legame, il nesso che li unisce e che li riconosce come tale, è costituito da interessi condivisi, fattori o circostanze che li possano rendere bersaglio od oggetto di vittimizzazione. La “vittima collettiva” è una vittima reale, materialmente colpita da un danno altrettanto reale, solo che la lesione all‟integrità fisica, psicologica, patrimoniale, è inflitta e colpisce un gruppo sociale indiscriminato, oppure specifiche persone selezionate in base all‟appartenenza ad una categoria (Bandini, 2004).

La vittimizzazione collettiva può dipendere da un atto criminale o dalla violazione dei diritti fondamentali, dalla violazione dei diritti umani. Possono quindi esservi due forme del fenomeno. Nella prima, l‟effetto dannoso si produce e deriva dalla somma di più atti individuali di vittimizzazione per la loro organizzata sistematicità, come un effetto “alone” di vittimizzazione ripetuta e reiterata nel tempo. L‟esempio pragmatico è il genocidio. Gli Ebrei, sopravvissuti all‟Olocausto nazista o ad esso sfuggiti, hanno subito l‟impatto violento della persecuzione a livello psicologico nel tempo. L‟effetto “alone” determinato da una sistematica, indiscriminata e reiterata nel tempo vittimizzazione nei confronti di una determinata e ben identificata minoranza razziale, religiosa, etnica, produce una lesione del benessere psicologico e sociale di tutti gli appartenenti al gruppo. La seconda forma di vittimizzazione collettiva è rappresentata dal danno e dall‟effetto indiretto prodotto dal singolo atto criminale, come avviene per crimini d‟odio (hate crime). Quando un crimine anche se isolato e non sistematizzato, è determinato da motivi etnici, razziali, religiosi o discriminatori ed ostilità nei confronti di una determinata categoria individuata in base ad elementi come l‟orientamento sessuale (omosessuali), una condizione sociale o giuridica (immigrati) un particolare stile di vita (prostitute) etc., genera un effetto secondario su tutti gli appartenenti alla medesima categoria. Le vittime

internazionalizzazione della criminalità economica risponde generalmente a due orientamenti: la massificazione delle opportunità e la minimizzazione del rischio”.

indirette son quelle che, sebbene non rappresentino un bersaglio primario dell‟atto criminale, ne soffrono gli effetti (Gullotta 1985). Simbolicamente il bersaglio è l‟intero gruppo o categoria che si incarna, agli occhi dell‟aggressore, nel singolo individuo (McDavitt, Balloni 2003).

Di origine ebraica, Bauman, sensibile ai temi dell‟emarginazione e della disuguaglianza, osservò da vicino l‟aggressività nazista ai danni della popolazione ebraica. Secondo l‟Autore le vittime prescelte furono gli ebrei perché non si “omologavano” alle strutture sociali del tempo né potevano essere ricondotti a categorie prestabilite. Come popolo senza una terra erano stranieri in patria e diversi dagli altri stranieri, percepiti fuori dei sistemi politici e statali. Nella società moderna, successiva alla caduta dei regimi totalitari, vi è la ricerca del controllo e dell‟ordine, che metaforicamente l‟Autore descrive attraverso il lavoro del “giardiniere” (lo Stato) che ha il compito di tenere in ordine il suo giardino estirpando le erbacce e facendo crescere le piante in modo regolamentato. Così lo Stato moderno sostiene una realtà che si sviluppa nelle forme previste da un progetto ben definito in modo da garantire agli uomini la sicurezza dell‟ordine (Capuano, 2006). Ecco che gli Ebrei erano le piante da estirpare, con l‟allontanamento o lo sterminio, perché la loro “diversità” minacciava il mantenimento dell‟ordine sociale. Il progetto era infatti quello di garantire la sopravvivenza e l‟affermazione di un gruppo ritenuto migliore e perfetto, attraverso un processo organizzato e metodico (Bauman 2000). L‟Olocausto per l‟Autore è una conseguenza di quella modernità senza un efficace controllo sociale, che slega l‟uomo dall‟umanità. Nel sistema burocratico moderno, infatti, chi agisce non dovrà fare i conti con le conseguenze prodotte. Ciò che rimane è la cancellazione dell‟umanità, attraverso un processo che Bauman definisce “adiaforizzzazione”, che si compone ogni azione sociale che è giudicata “indifferente” dal punto di vista morale. La burocrazia razionale-strumentale non genera risposte di ordine morale ma “di vuoto morale” all‟interno del quale conta solo svolgere le mansioni affidate. Così, in un sistema strumentale coloro che agivano la “violenza” si sentivano esonerati da qualsiasi responsabilità morale in virtù dell‟obbedienza ad un ordine superiore.

Inoltre l‟Autore descrive come un‟altra caratteristica dell‟Olocausto sia stata la collaborazione da parte delle vittime (Bauman, 2000), che a causa della barbarie e dei soprusi continui e protratti nel tempo, dell‟aggressività che portò allo sterminio, hanno cristallizzato e interiorizzato un‟immagine negativa di sé, anche a livello collettivo e non solo individuale, per poter giustificare la propria vulnerabilità e ciò che stavano subendo, quasi lo meritassero. Vi è quasi un adeguamento agli stereotipi dei vittimizzatori.

Bauman conclude le sue riflessioni affermando che il fatto che l‟Olocausto ci sia già stato, in quella forma e con quei metodi, non esclude che possa ripetersi, perché continuano ad esistere gli stessi standard di vita “moderni” di quel tempo. Non siamo quindi immuni dal pericolo di divenire vittime collettive o carnefici amorali esistendo combinazioni sociali, politiche, economiche e storiche simili a quelle che caratterizzarono il tempo dell‟Olocausto.

Parte II

Vittimologia

Premessa

Nel dibattito criminologico del nostro tempo molte sono le teorie, e gli approcci sociologici, medici o psicologici, che descrivono e cercano di dare una spiegazione e una valenza scientifica alle cause dell‟agito violento dell‟uomo. Questa impostazione determina spesso la convinzione che per prevenire i processi di vittimizzazione basti studiare il carnefice e capire le cause che ne hanno determinato l‟atto violento.

Il senso comune della collettività è spesso “buon senso” che percepisce, anche con molta semplicità e immediatezza, come vi sia in massima parte una relazione tra carnefice e vittima e come su quel processo relazionale, spesso caratterizzato da un‟escalation aggressiva, corra una comunicazione distorta, patologica.

È un tempo, il nostro, dove la violenza riempie le cronache e dove lo stupore della gente comune si confonde con una certa tolleranza all‟aggressività. Niente sconvolge più, anche se un‟aggressione viene percepita da chiunque come un‟azione diretta contro una persona con l‟intento di farle del male e la consapevolezza da parte dell‟aggressore del danno che intende provocare. Ad aggravare la complessità relazionale tra vittima e carnefice vi sono anche dinamiche “altre”, per le quali non sempre la distinzione tra “buono e cattivo” è cosi riconoscibile.

La comune tolleranza all‟aggressività infatti è spiegabile, in parte, se ci soffermiamo a leggere i confini sempre più labili tra chi è il carnefice e chi è la vittima, perché di fatto la vittima ideale non esiste. La vittima ideale (Bouris, 2007), colei che rappresental‟innocenza, la purezza, la superiorità morale, l‟assenza di responsabilità e che perdona, si scontra con i tratti umani della vittima come persona complessa e contraddittoria in quanto umana. Come tale la vittima deve essere riconosciuta.

Ecco che la persona oggetto di vittimizzazione può facilmente ed erroneamente essere ritenuta colpevole e responsabile quanto il suo aggressore. L‟immaginario collettivo è costellato da giudizi e pregiudizi che sfalsano il piano di realtà e rendono difficile la comprensione delle responsabilità sui singoli “casi” e della programmazione, a livello di sistema, dei possibili processi di aiuto e sostegno.

Il biasimo, infatti, dipende da cornici implicite culturali e di profonda ignoranza che possono condizionare non solo gli agiti dei singoli e dei gruppi sociali, si pensi alle radici profonde che la vittimizzazione secondaria ha nelle nostre pratiche istituzionali, ma anche le scelte della collettività in termini di politiche sociali non mirate ed appropriate.

La possibile colpevolizzazione della vittima può, infatti, avere effetto ed influenzare le politiche di controllo sociale, i processi di definizione legale e formale dei crimini, le politiche di aiuto, assistenza, indennizzo delle vittime di reato.

Ancora oggi, nel nostro tempo, il sistema culturale reocentrico è l‟unico sistema di riferimento, basti pensare a come la vittima sia dimenticata nei nostri codici, e non sia soggetto di diritto, o come il nostro sistema giudiziario e dell‟esecuzione penale trascuri nei percorsi di responsabilizzazione e reinseimento dei detenuti la sua figura.

La vittima deve rimanere lontana dai nostri occhi perché il suo patimento richiama il nostro dolore, vissuto o possibile. È necessario tenere lontano lo sguardo dalla vittima per non richiamare il dolore. Questo è uno dei modi con cui l‟essere umano difende il suo “Se”, perchè la violenza richiama costantemente il sentire della vittima, perché fa risuonare in noi, consciamente o inconsciamente, gli agiti che umiliano, degradano, o danneggiano il benessere e la dignità di una persona.

Che la violenza sia premeditata, intenzionale, pianificata o che sia spontanea e improvvisa, ha sempre una dimensione sociale, perché ogni episodio che coinvolge la vittima non può essere isolato dal contesto sociale e valoriale nel quale avviene, assumendo così significato diverso a seconda del tempo e dello spazio in cui accade. Né può essere dimenticata la sua dimensione simbolica perché ognuno di noi, in qualsiasi momento e circostanza, indipendentemente dal ruolo, dall‟età, dal sesso e dalla condizione economica e sociale può diventare vittima. È la natura della relazione che ci lega al nostro carnefice e la valenza del trauma che subiamo che fa la differenza.

È necessario dare voce alle vittime, anche attraverso l‟interpretazione soggettiva della vittima stessa. Il dato oggettivo deve essere sempre rivisitato alla luce di quello soggettivo cioè del significato che la vittima e il contesto conferiscono al fatto-reato.

Come non chiedersi quale sia la causa di quel gesto violento e dell‟aggressività come fenomeno sociale? Come non chiedersi cosa ne sia stato o ne sarà della vittima?

Capitolo 8

Vittimologia