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Atomismo: storia di un modello non solo rappresentativo

I POTESI PER UN SISTEMA

3.3. Il mondo e le sue legg

3.3.1. Atomismo: storia di un modello non solo rappresentativo

L’atomismo è certamente una delle più antiche teorie della storia dell’uma- nità: già nota presso i filosofi greci, acquisterà una rilevanza fondamentale nel- l’ambito della fisica e della chimica tra Sette e Ottocento. Atomi e vuoto, con- cetti variamente accostati e reinterpretati, hanno lungamente monopolizzato l’attenzione degli scienziati.

Originariamente, per esempio con Democrito, si riteneva che l’atomo dispo- nesse di una natura fisica (per quanto le sue dimensioni fossero infinitesimali) piuttosto che rappresentativa. Ne deriva che il concetto di atomo, nell’antichità, assolveva a due funzioni fondamentali: veniva utilizzato come concetto limite rispetto alla tendenza tipica dell’intelletto umano a regredire (o, all’inverso, a progredire) indefinitamente30; e nello stesso tempo facilitava una raffigurazio-

ne concreta (in qualche modo anche antropologicamente determinata) del limi- te estremo della materia. In questo quadro, si trattava perciò di comprendere in quale modo gli atomi costituissero le cose, all’interno di una prospettiva che, fino a tutto il medioevo, rimaneva orientata in senso fortemente metafisico.

La prima svolta sostanziale – secondo la ricostruzione abbastanza precisa di Lange, la stessa, ricordiamolo, a cui fa costante riferimento anche Nietzsche – dovette avvenire con le ricerche di Robert Boyle. Il chimico inglese, che si stabilisce a Oxford nel 1654 all’epoca dello scoppio della pole- mica tra Cartesio e Gassendi, elabora un’idea di atomismo ancora simile per molti versi a quella di Epicuro: gli atomi sarebbero composti di forme diffe- renti che condizionerebbero tanti la diversità quanto la stabilità delle combi- nazioni degli elementi. Movimenti violenti tenderebbero poi a variare la com- posizione degli atomi che, anche in ragione di questa diversità di composizio- ne (alcuni avrebbero superfici lisce, altre scabre e così via), muterebbero spes- so e in modo radicale le loro aggregazioni.

Vediamo, nelle linee essenziali, come Boyle ricostruisce il movimento delle particelle atomiche. Allorché si verifica un mutamento nella composizione fisi- ca di due corpi combinati, può accadere che tra le molecole di partenza si inse- riscano gli atomi di un terzo, nuovo elemento, alterandone, come è ovvio, la composizione originaria. I nuovi atomi sono perciò in grado di unirsi alle mole- cole degli altri corpi (in forza della conformazione fisica che li contraddistin- gue) meglio di quanto gli elementi del corpo originario non risultino uniti tra loro; mentre il movimento vorticoso tipico degli atomi allontanerà gli elemen- ti che non sono entrati a far parte della nuova composizione. L’atomistica di Boyle differisce da quella degli antichi in un solo punto, che tuttavia è centra- le: egli ammetteva (insieme a Cartesio) un frazionamento della materia dovu- to al movimento degli atomi, e attribuiva tale movimento all’intervento imme- diato di Dio o a una qualche altra causa sconosciuta (e ovviamente esterna).

Gli studi di Newton (in particolare le sue idee sulla gravitazione) introdus- sero anche in campo atomico novità interessanti: soprattutto, l’idea dell’attra- zione esercitata dalle particelle più piccole di materia rese del tutto superflua l’ipotesi delle superfici. Per variare le conformazioni atomiche (e, a un secon- do livello, la struttura delle cose) non era più necessario supporre il contatto; l’attrazione, per sua stessa natura, agisce a distanza, e con l’attrazione entra in gioco un’altra ipotesi fondamentale, quella delle forze repulsive.

Per comprendere la portata dei cambiamenti nel lasso di tempo che da Hobbes arriva fino alla sistematizzazione teorica di Dalton (1766-1844), si può far riferimento alle idee sviluppate dai fisici e dai filosofi inglesi. Hobbes, ad esempio, considerava l’atomo come un’ipotesi teorica assolutamente relativa. Nella prospettiva del filosofo inglese esisterebbero differenti ordini di atomi, un po’ come il matematico distingue diversi ordini di infinitamente piccoli. Ne deriva la possibilità di atomi imponderabili posizionati negli intervalli della materia gravitante. Se ci si limita a ricerche di meccanica dell’urto, si può age- volmente sostenere che possono proprio essere questi atomi secondari a produr- re, grazie al loro movimento, fenomeni come la luce e la gravitazione degli atomi di prim’ordine. Ma con l’introduzione dell’azione a distanza anche gli atomi imponderabili mutano di consistenza ontologica: la forza repulsiva, nel nuovo modello teorico, veniva infatti sostituita all’urto fisico diretto. Da questi assunti, alle conclusioni di Dalton, il passo è abbastanza breve: «queste osser- vazioni hanno condotto indirettamente ad una conclusione che sembra general- mente ammessa […] che tutti i corpi di grandezza notevole, liquidi o solidi, si compongono di un grandissimo numero di molecole estremamente piccole o di atomi di materia riuniti dalle forze d’attrazione, forza la cui intensità varia secondo le circostanze, e che in quanto si oppone alla separazione delle mole- cole disperse (per esempio quelle del vapore acqueo per convertirle in acqua) si chiama “attrazione di aggregazione” o più semplicemente “affinità” […]. Oltre alla forza d’attrazione che, in una forma o nell’altra, appartiene generalmente ai

corpi ponderabili, troviamo un’altra forza che è pure generale […] ed è la forza di repulsione. Oggi la si attribuisce generalmente e, credo, con ragione, all’azio- ne del calore. Un’atmosfera di questo fluido sottile circonda costantemente gli atomi di tutti i corpi e impedisce loro di venire in contatto immediato»31.

La genialità dell’idea di Dalton32fu nella semplice deduzione di ciò che già

aveva implicitamente ipotizzato Newton: visto che l’azione a distanza elimina la necessità del contatto diretto tra gli atomi, diventa superflua qualsiasi ipotesi sulla forma delle particelle atomiche. Si vede chiaramente come, a quest’altezza, alcu- ne concezioni fondamentali della meccanica (per esempio la gravitazione univer- sale) e della chimica (l’idea del peso degli atomi), cominciassero a modellare con molta precisione le nuove idee sulla materia. Analogamente a quanto aveva già intravisto Jeremias Richter33, Dalton arrivò a concludere che le combinazioni

chimiche dovevano verificarsi in forza di rapporti numerici assai semplici. Ma se Richter assumeva che tutti i fenomeni della natura sono dominati dalla misura, dal numero e dal peso, Dalton, per parte sua, si sforzava di ottenere una rappre- sentazione sensibile dei principi delle combinazioni chimiche in oggetto.

In breve, una buona spiegazione dei fenomeni fisici doveva fondarsi sulle conoscenze dei principi dell’atomistica. Se l’atomistica è vera – è sempre la linea di Dalton – possiamo rappresentarci questa regolarità di combinazioni solamente attraverso il corrispondente raggruppamento di atomi. Le successive ricerche di Gay-Lussac (1808) e Avogadro (1811) apportano ulteriori e importanti modifi- che, soprattutto con l’introduzione da parte di Avogadro, di una sofisticata teoria molecolare: egli trovò che non è possibile spiegare l’uniformità di comportamen- to dei gas sottoposti a identica pressione e temperatura, ma a differenti condizio- ni chimiche a meno di non ammettere che il numero delle parti più piccole, in un volume uguale di gas diversi, è il medesimo a temperatura e pressione uguali. Per legittimare tale ipotesi, Avogadro dovette da un lato supporre, per i gas combina- ti, la riunione di molti atomi nelle più piccole porzioni della massa e, dall’altro, considerare le porzioni infinitamente piccole dei gas come gruppi di atomi34.

Percorso per molti versi analogo, ma non del tutto coincidente, era quello delle indagini fisiche sulla materia di questi stessi anni. La fisica moderna si era fondata anch’essa, per larga parte, sulla teoria atomica; e fisica era la concezione che del- l’universo avevano avuto Gassendi, Cartesio, Hobbes e Newton, mentre, sia Boyle sia Dalton, avevano optato per sviluppare contemporaneamente le loro ricerche in campo fisico e chimico. Dalton aveva da poco reso nota la sua teoria atomica, quando in ottica si sviluppò e si diffuse (seppure a fatica) la teoria delle ondulazio- ni. La conseguenza immediata fu che la teoria della luce diventò sempre più aper- tamente una meccanica dell’etere, mentre le ipotesi atomiche, per adattarsi ai nuovi assunti della fisica teorica, dovettero accogliere le variazioni imposte dai nuovi cal- coli. La novità di maggior rilievo, che per altro corrispondeva bene a una radicaliz- zazione delle conseguenze già prevedibili attraverso l’introduzione della gravita- zione universale, fu nella negazione dell’estensione. In altre parole: ci si era spinti

tanto in là (soprattutto con Rudiger Boscovich) da negare qualsiasi estensione agli atomi. «Egli [Boscovich] trovò nella teoria dell’urto degli atomi certe contraddizio- ni, che non potevano sparire se non facendo provenire dalle forze repulsive gli effetti che ordinariamente si attribuiscono al rimbalzamento reciproco di molecole materiali; e queste forze emanano da punti determinati nello spazio, ma privi di estensione. Questi punti sono considerati come le porzioni elementari della mate- ria. I fisici, partigiani di questa teoria, li designano come “atomi semplici”»35.

Ora, senza entrare nello specifico della teorizzazione boscovichiana – su cui per altro mi soffermerò più diffusamente tra breve (infra, 3.3.2) – è interessan- te esaminare per un momento le conclusioni di Lange sul rapporto atomo/mate- ria: «nonostante l’ingegno con cui Boscovich espose questa teoria, essa non trovò eco prima del XIX secolo; essa fu adottata soprattutto dai fisici francesi che si sono occupati della dinamica degli atomi. Difatti, lo spirito […] degli investigatori francesi dovette ben presto scoprire che nel mondo della meccani- ca moderna l’atomo sostiene una parte molto superflua come particella della materia avente un’estensione. Quando gli atomi ebbero cessato, come in Gassendi e Boyle, di agire immediatamente gli uni sugli altri con la loro massa corporea, ma obbedirono alle forze di attrazione e repulsione che si stendono attraverso il vuoto e tra le stelle, l’atomo diventò egli stesso un semplice agen- te di queste forze; esso non aveva – eccettuata la sua nuda sostanzialità – nulla di essenziale che non trovasse anche nelle forze la sua perfetta espressione»36.

Come già si può intuire, il passo che da queste posizioni di Lange porta agli assunti nietzschiani che troviamo, per esempio, in Al di là del bene e del male, è estremamente breve. A quest’altezza, nella prospettiva langeana, l’atomo diventa per lo più un portato della tradizione, il residuo di un rappresentazionalismo che ha funzionato benissimo per secoli, ma che a seguito delle ultime indagini chimico- fisiche diventa del tutto superfluo. Come dire che il piano si sposta dalla sensibili- tà immediata (toccare, sentire, afferrare), alla mediazione di forze non percepibili. Dunque, parlare ancora di atomo alla vecchia maniera (quella che lo considera grosso modo come il sostrato della sostanza) risponderebbe all’esigenza di fornire una sorta di appoggio fisico alla forza dato che, per il nostro intelletto, pensare a una forza senza materia è praticamente impossibile.

Stessa cosa accade per i sensi: non sarebbe la massa corporea degli oggetti a pro- vocare le variazioni percepite dai nostri organi di senso, ma, ancora una volta, quel- l’azione della forza che la rappresentazione, attraverso un meccanismo secondario, trasporrebbe, del tutto artificiosamente, alla materia. Come si vede, la ricostruzio- ne di Lange – ma che non è solo di Lange, nel senso che il filosofo tedesco si appoggia piuttosto evidentemente ai risultati acquisiti a tutto l’Ottocento dalle ricerche fisico-chimiche – propende per l’assunzione di due punti centrali: in primo luogo l’idea che l’universo, nella sua realtà ultima, sia forza piuttosto che materia (così aveva già concluso Boscovich, e nella stessa direzione andranno le ricerche di Faraday37); in secondo luogo – nodo teorico che in qualche modo per Nietzsche,

come vedremo, si rivelerà fondamentale – l’assunto (altrettanto forte e radicale) che la filosofia non possa esistere al di fuori di un rapporto profondo con le scienze (in particolare Lange pensava alla fisica)38. In qualche misura, la filosofia dovrebbe

allora procedere di pari passo con le ricerche della fisica, per liberarsi dalle insicu- rezze rappresentative legate alla gnoseologia umana; in altre parole: «non ci si può liberare abbastanza dalla rappresentazione sensibile di corpi composti e compatti in apparenza, quali ci fanno conoscere il nostro tatto e i nostri occhi»39.

L’osservazione appena riportata pare fondamentale almeno a due livelli: in primo luogo, perché Lange apertamente dichiara di propendere per un’idea orga- nica della forza, che intende sostituire all’idea tradizionale della materia, nella sua ottica puramente stereotipata e funzionale. Poi perché proprio a quest’altezza Lange fa la prima concessione alla sua gnoseologia: in altre parole, se da un lato ci dice che non conosciamo nulla della cosa in sé perché il nostro approccio cogni- tivo è intrinsecamente limitato (e orientato) dalla costituzione dei nostri organi di senso, dall’altro finisce poi di fatto – anche se il punto per ovvie ragioni non è mai esplicitato – per favorire in qualche modo l’idea che la materia venga rappresen- tata adeguatamente soltanto allorché la si risolve in forza40. E questo generalmen-

te accade perché la nostra «tendenza alla personificazione» ci impone, come già aveva suggerito Kant, di pensare attraverso il filtro della grammatica:

ne segue che la materia è sempre ciò che noi non possiamo o non vogliamo più risolvere in forze. La nostra “tendenza alla personificazione” o, se vogliamo servir- ci delle parole di Kant […], la categoria della sostanza ci costringe sempre a conce- pire l’una di queste idee come soggetto, e l’altra come attributo. Quando noi dissol- viamo un oggetto, grado a grado, il resto non ancora disciolto, la materia, resta sem- pre per noi il vero rappresentante della cosa. […]. Così si rivela la grande verità: “non c’è materia senza forza, non c’è forza senza materia”, come una semplice con- seguenza della proposizione: “non c’è soggetto senza attributo, non c’è attributo senza soggetto”; in altri termini: noi non possiamo vedere altrimenti che come il nostro occhio permette, né parlare altrimenti che come la conformazione della nostra bocca ci permette di parlare; non possiamo comprendere altrimenti che come ce lo concedono le idee fondamentali del nostro intelletto41.

Perciò, la prospettiva di riferimento di Lange sembra essere più o meno questa: dal punto di vista rappresentativo la forza risponde all’esigenza di descrivere la realtà fisica a un livello di astrazione massima, tuttavia ci è impossibile sciogliere il riserbo su quelle realtà ultime degli elementi che chiamiamo materia e forza, dal momento che «nessuno deve aver la pretesa di vedere la sua propria rètina!»42.

Già a questa altezza, ma lo vedremo meglio in seguito, è facile intuire come Nietzsche faccia con Lange esattamente come Schopenhauer aveva fatto con Kant: risolve il noumeno in un concetto positivo; tuttavia mentre Schopenhauer ne dà una rappresentazione per molti versi antropomorfa (Wille), Nietzsche si mantiene in un ambito dichiaratamente scientifico (di qui anche la scelta di leg- gere Boscovich), anche perché sta lavorando alla costruzione di un’ontologia

che si accordi il più possibile con la fisica oltre che, in generale, con le scien- ze ottocentesche.

Lo scarto di Nietzsche è netto: anziché accettare la posizione di quelli che, come Lange e Du Bois-Reymond, si fermano programmaticamente all’evidenza dei sensi, decide in qualche maniera di andare oltre, formulando l’ipotesi di una volontà come pura forza, e di una materia coincidente con questa stessa forza. Ovviamente il fatto che Nietzsche utilizzi il termine volontà per descrivere questo processo apre più di un problema; primo fra tutti quello dell’eccessiva antropo- morfizzazione, che sembra essere il portato più evidente dell’utilizzo di questa parola. Il Wille era un termine carico di un passato filosofico importante: il suo uti- lizzo non poteva non richiamare alcune implicazioni della speculazione schopen- haueriana, facendo quasi inevitabilmente deviare gli interpreti dall’ambito di filo- sofia della scienza intorno a cui Nietzsche sta lavorando.

Ancora a questo livello possiamo annotare le ragioni di un altro elemento significativo: com’è noto, Nietzsche critica costantemente l’approccio metodo- logico della ricerca scientifica (soprattutto la fisica) imputandole, il più delle volte, di procedere come se fosse in grado di disporre della conoscenza della realtà ultima delle cose. In altre parole, Nietzsche rimprovera alla scienza di voler sciogliere il riserbo kantiano sulla cosa in sé; esattamente ciò che fa lui stesso allorché ci propone come modello ontologico definitivo (cioè sostanzia- le oltre che rappresentativo), la forza intesa grosso modo come energia fisica.

La questione che realmente faceva problema in atomistica (e ovviamente nelle ricerche di fisica applicata) riguardava proprio la struttura della materia; e si risolveva in una domanda di questo tipo: che cos’è, in ultima analisi, la materia? Un composto di molecole che a loro volta sono ulteriormente scomponibili in atomi? – ma allora l’interrogazione si sposterà semplicemente di livello, dal momento che, assecondando questa nuova formulazione, bisognerà chiarire qual è la natura degli atomi. La risposta di Lange tiene ferma la funzione rappresen- tativa dell’atomo: «si può affermare che l’ “atomistica” è dimostrata, se in essa si vede soltanto una spiegazione scientifica della Natura che presuppone realmente particelle di discrete masse, particelle che si muovono in uno spazio vuoto, alme- no comparativamente. Ma in questa concezione tutte le questioni filosofiche sulla costituzione della materia sono, non risolte, ma semplicemente scartate»43.

Dunque, la fisica non può da sola (ed era anche, lo ricordiamo, la posizione che aveva espresso Schopenhauer) risolvere il problema filosofico della costituzione della materia; può invece lavorare alla costruzione di modelli operativamente effi- caci. Ma in che modo – visto che il problema sembra essere di natura filosofica – può intervenire la filosofia? Schopenhauer (e, come vedremo, anche Nietzsche) risponde indicando la funzione metateorica della filosofia: se la scienza non può risolvere la questione perché si auto-propone come un sapere regionalistico, per questo può, anzi deve, intervenire la filosofia che, in pratica, fornisce l’organizza- zione concettuale utilizzata dalle singole scienze. Lange invece ritiene che alla

filosofia spetti esclusivamente il compito di operare revisionisticamente nei con- fronti della nostra attività conoscitiva: vale a dire, non si tratta tanto (o soltanto) di sciogliere l’ignorabimus di Du Bois-Raymond e di Kant sulla realtà ontologica della materia, quanto piuttosto di riformulare costantemente le linee portanti della gnoseologia umana, in modo tale che le sia possibile articolarsi sulla base dei risultati sperimentali ottenuti dalle scienze esatte: «se mai, come crede possibile il fisico Mach, dall’ipotesi di uno spazio avente più di tre dimensioni dovesse risul- tare una spiegazione chiara e decisiva di un fenomeno reale, o, se, con Zoellner, dalla oscurità del cielo e da altri fenomeni debitamente constatati si dovesse con- cludere che il nostro spazio è non euclideo, sarebbe assolutamente necessario sot- tomettere ad una revisione completa tutta la teoria della conoscenza. Finora, non ci fu nessun motivo obbligatorio per procedere a questa revisione; ma la teoria della conoscenza non può nemmeno essa stessa diventare dogmatica»44.

A quest’altezza, Nietzsche si allontana da Lange optando per una soluzione non rappresentativa del problema della materia e, sempre a quest’altezza, la let- tura di Boscovich diventa decisiva per la risoluzione del rappresentazionalismo lengeano in senso energetico. In breve, se Lange considera l’atomo (e la materia) il risultato conclusivo della nostra capacità astrattiva (e insieme lo strumento che ci consente di evitare il regresso all’infinito in cui incapperemmo se non postu- lassimo un elemento ultimo), Nietzsche opta per una (ri)soluzione ontologica che sostituisce la forza alla materia (giudicata un’idea grossolana e volgare) e che gli permette di risolvere le «cose» nelle relazioni di forze che le formano. Più o meno consapevolmente, Nietzsche viene così a trovarsi in una situazione teorica apertamente contraddittoria: da un lato – così come era stato per Schopenhauer e per Lange – assume che non si può fare filosofia prescindendo da un rapporto di collaborazione dialettica con le scienze; dall’altro, piuttosto curiosamente (spe- cie se pensiamo al suo prospettivismo), secondo una linea che forse semplice- mente risponde a quella che era stata la vocazione teorica più profonda già espressa dalla riflessione di Schopenhauer, opta di fatto per una definizione uni- voca della struttura ontologica del reale.

In fondo, il rifiuto teorico, prima che pratico, della materia può essere letto proprio come garanzia di un prospettivismo in verità speculativamente proble- matico proprio perché si risolve nel suo opposto: il rifiuto della materia corri-