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Se l’uomo avesse solo orecchi, il mondo sarebbe soltanto suon

N IETZSCHE : I SUOI INTERPRETI , LE LORO RAGION

4. M H EIDEGGER , 1961; W K AUFMANN , 1950.

2.3. The Treasure-House: il neokantismo

2.3.2. Se l’uomo avesse solo orecchi, il mondo sarebbe soltanto suon

La preoccupazione per il significato e la funzione del concetto limite kan- tiano fu dunque una costante della ricerca di Nietzsche, anche se egli non si limitò a porne in luce la portata problematica, piuttosto cercò continuamente di elaborare queste questioni in una direzione positiva – in questo senso, se non la soluzione, almeno le tracce dell’analogo tentativo schopenhaueriano, sono del tutto evidenti, soprattutto per quel che concerne la prima riflessione nietz- schiana. In questo suo tentativo di soluzione del noumeno di Kant (posizione che poi convergerà nell’idea nietzschiana di verità), un ruolo importante è gio- cato dalle riflessioni sullo stesso tema di buona parte degli autori neokantiani in generale e di Friedrich Albert Lange in particolare.

Il primo diretto contatto di Nietzsche con tematiche strettamente neokantia- ne avvenne attraverso il Kant di Kuno Fischer138(1868); dato questo signifi-

cativo almeno per una duplice serie di ragioni: in primo luogo, perché il testo di Fischer rappresentò la mediazione fondamentale tra Nietzsche e la Critica

della ragion pura, poi perché il Kant tratta e affronta, in modo del tutto parti-

colare, una serie di problemi tipicamente neokantiani.

Il lavoro di Fischer, partendo da un’attenta considerazione del periodo pre- critico, segue l’articolazione del percorso kantiano individuando il nucleo teo- rico fondamentale della propria ricerca nell’indagine sulle possibilità della logica, della matematica e della conoscenza reale come conoscenza delle cose139. Fischer aveva sviluppato l’opposizione tra conoscenza logica da un

lato e conoscenza matematica e reale dall’altro; sostenendo che mentre la logi- ca si limita a lavorare sull’analisi e sulla comparazione dei concetti, l’altro tipo di conoscenza, operando attraverso la sintesi dei concetti, produrrebbe cono- scenza effettiva140. Si tratta evidentemente del problema del conoscere sinteti-

co (accrescitivo), contrapposto a quello analitico (puramente conservativo), e, d’altro canto, parallelamente si affaccia il problema della deduzione.

A giudizio di Fischer la questione della deduzione era particolarmente evi- dente nella necessità di superare la frattura apparente tra esperienza e intellet- to puro, soggettività e oggettività; ovvero dinanzi alla necessità di definire la validità oggettiva dei concetti dell’intelletto puro nell’ambito dell’esperienza. Kant – rileva Fischer – supera questo problema attraverso l’istituzione di un parallelismo strettissimo tra estetica e analitica trascendentale: oltre alle intui- zioni pure (spazio e tempo) sono i concetti puri dell’intelletto (categorie) a ren- dere possibile, in linea generale, l’esperienza. Quindi: non è l’esperienza a fon- dare i concetti puri, piuttosto sono questi ultimi a fondare l’esperienza141.

L’intero sforzo kantiano starebbe perciò nel tentativo di mostrare come i feno- meni si possano ridurre a rappresentazioni soggettive e, ancora, come di fatto non possa esistere nulla di oggettivo, eccezion fatta per la coscienza pura e le funzioni connettive142. In questi termini, Fischer sostiene una posizione persi-

no più radicale di quella espressa dal rappresentazionalismo schopenhaueriano. Ne deriva, piuttosto evidentemente, una dissoluzione dell’oggetto, indi, del mondo, almeno rispetto alla sua persistenza estetica.

La mediazione fischeriana piuttosto che offrire a Nietzsche la soluzione dei problemi già tipicamente neokantiani incontrati in Schopenhauer (ad esempio, rappresentazione e cosa in sé), contribuisce ad allargare il campo dell’interro- gazione nella direzione dell’idealismo (in Fischer il binomio soggetto-oggetto è già giocato in un senso decisamente soggettivo). In questo quadro si spiega bene il progetto nietzschiano (che non giunse mai a conclusione probabilmen- te perché ancora troppo problematico nella sua pars construens) di lavorare a una dissertazione di dottorato sui limiti della conoscenza, secondo una direzio- ne tipicamente kantiana.

In una lettera a Deussen di fine aprile, principio di maggio, del 1868 Nietzsche scrive: «chi tenga presente il corso delle ricerche in questo campo, soprattutto quelle fisiologiche, da Kant in poi, non avrà dubbi sul fatto che quei limiti sono stati accertati con tale sicurezza e infallibilità che, tranne i teologi, alcuni professori di filosofia e il vulgus, nessuno può più farsi illusioni in meri- to. Il regno della metafisica, e con esso l’area della verità “assoluta” è stato inne- gabilmente inserito in un’unica categoria insieme con la religione e la poesia. Chi vuole conoscere qualcosa, si limita ora a una conoscenza della cui relativi- tà egli stesso è consapevole, come per esempio tutti i famosi studiosi di scienze naturali. Per alcuni la metafisica appartiene dunque alla sfera dei bisogni dell’a- nimo, è essenzialmente edificante. Per altro verso essa è arte, quella cioè della poesia concettuale. Una cosa è certa però: la metafisica, sia come religione che come arte non ha nulla a che vedere con il cosiddetto “vero o essere in sé”»143.

Come si vede, siamo di fronte a una quantità di problemi (e di temi) che Nietzsche si trova ad affrontare tanto nella loro posizione, quanto nel primo e fati- coso tentativo di risoluzione (che inevitabilmente non potrà non rifarsi al percorso kantiano) – mi riferisco soprattutto alla necessità di definire 1) i limiti e le possibi- lità della conoscenza razionale e degli apriori, nonché 2) il senso del trascendenta- le, e comunque della «svolta» copernicana di Kant, 3) il significato della funzione (non ancora della possibilità) del soggetto e, da ultimo, 4) la possibilità del sapere scientifico. Ora, mentre Fischer, del resto insieme a Schopenhauer, aiuta Nietzsche nell’elaborazione di una gamma di questioni teoricamente già definite, altri autori (ancora orientati in una direzione speculativa marcatamente neokantiana), gli sug- geriscono il senso e la direzione positiva delle ricerche da intraprendere.

È questo evidentemente il caso di Lange. L’importanza della Geschichte per Nietzsche va compresa almeno a un duplice livello: da un lato (e prima di tutto) il testo di Lange offre una notevole quantità di informazioni circa il quadro pro- blematico e tematico del dibattito filosofico-scientifico della Germania nell’ar- co di tempo che va dal 1850-1860; poi (e si tratta del secondo e più importan- te livello), la prospettiva indicata da Lange per una prima possibile soluzione

del complesso problema del noumeno è senz’altro originale, giocandosi su di un piano – quello della fisiologia degli organi di senso – destinato a lasciare un segno indelebile nell’economia della costruzione nietzschiana144. Cerchiamo

ora di analizzare separatamente questi due momenti.

Nel corso degli anni settanta, Lange poteva prendere atto di due elementi fondamentali: in primo luogo, l’esistenza di una nuova scuola di kantiani (oltre a Liebmann, vi annoverava Hermann Cohen e Jürgen Bona Meyer) che non disdegnava un certo interesse oltre che, naturalmente, per Kant, anche per le ricerche schopenhaueriane; inoltre (e contemporaneamente), metteva in rilievo con decisione come gli scienziati, delusi per vari motivi dalle posizio- ni materialiste, avessero finito per sviluppare prospettive che, nelle linee fon- damentali, mostravano più di un punto di contatto con le strutture portanti della riflessione kantiana.

Dopo i primi anni di studio a During, Lange completa la formazione ginna- siale a Zurigo, dove prende a interessarsi di teologia e filologia, e, sempre a Zurigo, inizia a occuparsi anche di filosofia, sotto la guida di Eduard Borick. Passa poi a Bonn dove continua gli studi di filologia (con Ritschl, Welcker, Löbell), diventando membro di una società archeologica (con Overbeck) e, sempre nello stesso giro d’anni, prende anche ad interessarsi di matematica145.

Nietzsche dovette essere colpito dalla capacità – che per molti versi distinse Lange – di affiancare all’attività filosofica un’intensa vita pubblica e politica. E sempre a questa particolare disposizione doveva probabilmente appartenere l’abilità (cara, almeno nelle intenzioni, allo stesso Nietzsche) di mediare la spe- culazione astratta con le esigenze di un’etica applicata.

Ora, il ritorno a Kant esprimeva bene questo duplice interesse langeano (teo- rico e pratico appunto), dal momento che la riformulazione (che non era sempli- cemente una riproposta, ma, più profondamente, anche una correzione) di alcu- ne tematiche kantiane, avrebbe potuto agevolare, dal suo punto di vista, impor- tanti assunzioni sia in ambito etico, sia in ambito più tipicamente scientifico.

Lange sottolinea con particolare forza e chiarezza il carattere non ortodosso del kantismo della nuova generazione di filosofi e scienziati. Questo fatto, che per il filosofo tedesco equivaleva a una vera e propria degenerazione del kan- tismo, aveva certamente portato a stornare l’attenzione dal ramo del kantismo più tipico, favorendo lo sviluppo delle questioni di filosofia pratica, e facendo del criticismo, in buona sostanza, il più classico dei dogmatismi146.

In breve, si trattava (anche) di depurare Kant dall’accessorio, riportando al centro dell’interesse filosofico l’elemento che, a giudizio di Lange, formereb- be l’ossatura del kantismo: in pratica, l’epistemologia. Più nel dettaglio, Lange traccia un chiaro parallelismo tra la gnoseologia kantiana e la fisiologia degli organi di senso (il tutto nell’ambito della complessa cornice concettuale offer- ta dal materialismo), anticipando nettamente molte delle successive conclusio- ni di Nietzsche:

fin dall’inizio della nostra opera, abbiamo incontrato questo principio, quando vedemmo Protagora andare più in là di Democrito. In seguito, nell’ultimo periodo di cui abbiamo parlato, troviamo due uomini di nazione diversa […] che tuttavia abbandonano entrambi nel medesimo punto il terreno del materialismo: il vescovo Berkeley e il matematico d’Alembert. Il primo ravvisava nell’intero mondo dei fenomeni una grande illusione dei sensi: il secondo dubitava che fuori di noi esistes- se qualche cosa che rispondesse a ciò che noi crediamo di vedere. […] Esiste nello studio esatto della natura un problema che impedisce ai materialisti odierni di respingere sdegnosamente il dubbio che colpisce la realtà del mondo dei fenomeni: ed è quello della fisiologia degli organi dei sensi. […] Quando sarà dimostrato che la qualità delle nostre percezioni sensibili dipende completamente dalla struttura dei nostri organi, non si potrà più eliminare come “inconfutabile ma assurda” l’ipotesi che perfino il complesso del sistema in cui facciamo entrare le nostre percezioni sensibili, in una parola tutta la nostra esperienza, sia sottoposta alla nostra organiz- zazione intellettuale, la quale ci sforza a sperimentare così come pensiamo, mentre i medesimi oggetti possono sembrare del tutto diversi ad un’altra organizzazione, e che la cosa in sé non possa essere compresa da nessuna creatura mortale147.

Il primo consistente contributo kantiano alla gnoseologia, che per altro – secondo ciò che rileva Lange – riceverà conferme decisive sul piano della fisio- logia degli organi di senso, è l’aver messo in rilievo come esista un carattere generale dei nostri processi conoscitivi che ci porta a fare esperienza appunto

nel modo in cui facciamo esperienza; ovvero secondo modalità derivate dal

funzionamento dei nostri organi, e dalla capacità riorganizzativa dell’intelletto. Perciò, Lange può dire che la fisiologia degli organi di senso altro non è che il kantismo sviluppato e giustificato.

È sempre tenendo presente l’idea guida kantiana di un’esperienza intesa come esperienza scientifica, sorretta e guidata da strutture concettuali definite, che Lange passa a confrontarsi con il problema dell’analiticità e della sintetici- tà dei concetti e, per la precisione, con quella sinteticità apriori che Kant attri- buisce alle proposizioni matematiche. Sulla linea della convergenza (che Lange accetta e rafforza) tra gnoseologia kantiana e ricerca fisiologica, il filo- sofo tedesco sostiene che le conoscenze apriori si sviluppano nell’uomo dalla sua natura e secondo leggi, allo stesso modo in cui si sviluppano le conoscen- ze che derivano dall’esperienza, con la differenza che le prime (le conoscenze apriori) sono, per così dire, garantite dalla coscienza della generalità e della necessità, risultando, in tema di validità, indipendenti dall’esperienza.

È a questo proposito che Lange affronta direttamente le critiche mosse all’i- dea kantiana della struttura apriori della matematica, e della formalità pura delle strutture logiche; critiche che erano state avanzate soprattutto da Friedrich Über- weg che, attraverso una serie di fraintendimenti sostanziali delle tesi kantiane, aveva proseguito la linea argomentativa per altro già tentata da John Stuart Mill148. In questa direzione Lange – rinvenendo un valido supporto teorico nella

di Mill non sia stata in grado di individuare il senso e la portata effettiva dell’a- priori kantiano. Ed è proprio attraverso il confronto con il nucleo concettuale dell’empirismo milliano che prende a delinearsi la posizione di Lange: egli tende a separare nettamente la genesi dell’esperienza dal processo che ci per- mette di ampliare e organizzare il complesso delle nostre conoscenze:

la cosa a cui gli empirici esclusivi non fanno attenzione è questa, che l’esperienza non è una porta aperta, per la quale gli oggetti esterni, quali essi sono, possono intro- dursi in noi, ma un processo in grazia del quale l’apparizione delle cose si produce in noi. Pretendere che in questo processo tutte le proprietà di queste “cose” vengano dal di fuori, e che l’uomo che le riceve non vi aggiunga nulla, è un contraddire qual- siasi analogia della natura nella produzione di una qualunque cosa nuova mediante il concorso di altre due. […] Le nostre cose differiscono dalle cose prese in se stes- se, come può dimostrare la semplice dissomiglianza fra un tono e le vibrazioni delle corde che lo producono. […] Ciò che fa in noi dal punto di vista, sia fisiologico, sia psicologico, che le vibrazioni della corda diventino un tono, è l’apriori in questo fenomeno dell’esperienza. Se noi non avessimo altro senso che l’udito, tutta l’espe- rienza si comporrebbe di toni; e sebbene tutte le nostre altre conoscenze possano in seguito risultare dall’esperienza, la natura di questa esperienza sarebbe tuttavia carat- terizzata completamente dalla natura del nostro udito, e si potrebbe dire […] che tutti i fenomeni devono essere sonori. […] Il fatto che in generale noi possiamo appren- dere per mezzo dell’esperienza dipende sicuramente dalla nostra organizzazione intellettuale; e quest’organizzazione esiste anteriormente all’esperienza. Quest’or- ganizzazione ci conduce a distinguere caratteri particolari nelle cose, ed a concepire successivamente ciò che è fuso inseparabilmente e simultaneamente nella natura, poi a fissare questa concezione in giudizi che hanno soggetto e attributo150.

In questi termini, il problema essenziale in cui si imbatte il criticismo sembre- rebbe essere l’esigenza di formulare una spiegazione per l’origine e la formazio- ne degli apriori. Si tratta del nucleo problematico della speculazione kantiana; quello in cui andrà cercata la causa principale di molti degli equivoci interpreta- tivi e teorici posteriori – tali erano ad esempio, per Lange, l’impostazione psico- logica di Fries e quella metafisica di Fichte. In buona sostanza, Lange rimprove- ra Kant di eccessiva ortodossia nell’aderire alla logica metafisica (formale)151;

ortodossia che lo avrebbe condotto ad elaborare un metodo funzionale alla dedu- zione dell’apriori e coincidente, nei fatti, con l’induzione. Ovviamente, la posi- zione di Lange finiva per ridimensionare concretamente la portata dell’apriori, e soprattutto, su questo fronte, lasciava intravedere una nuova prospettiva:

torniamo ora alla questione decisiva per Kant: come sono possibili giudizi sintetici apriori? La risposta è questa: in ogni conoscenza si incontra un elemento provenien- te non dall’influenza esterna, ma dall’essenza del soggetto che conosce; per questo motivo, tale elemento non è accidentale, come le influenze esterne, ma necessario e si troverà costantemente in tutte le nostre conoscenze. Si tratta ora di trovare questo elemento, e Kant crede di poter raggiungere il suo scopo studiando una ad una le principali funzioni dello spirito nell’atto del conoscere, senza curarsi della loro con-

nessione psicologica, per vedere quali elementi apriori vi si incontrino. Egli ammet- te dunque due fonti principali della conoscenza umana: il senso e l’intelletto. Il suo acuto sguardo crede di vedere che entrambe provengano forse da un’origine comu- ne, che ci è sconosciuta. Oggi si può considerare questa congettura come giustifica- ta non dalla psicologia di Herbart, né dalla fenomenologia dello spirito di Hegel, ma da certe esperienze della fisiologia degli organi dei sensi, provanti in modo irrefuta- bile che, perfino alle impressioni dei sensi che sembrano tutt’affatto immediate, par- tecipano fatti che, se si scartano o suppliscono certi intermediari logici, rispondono in modo sorprendente alle conclusioni, vere o false, del pensiero cosciente152.

Dunque, le indagine fisiologiche costituirebbero l’immediata verifica empirica del kantismo e, allo stesso tempo, indicherebbero come i limiti della critica kan- tiana sono realmente insormontabili. Attraverso queste premesse, Lange intende- va prima di tutto palesare l’inefficacia di un certo materialismo (quello degli anni quaranta-cinquanta) nel sostenere il confronto con i risultati prodotti dall’indagi- ne scientifica di quegli anni. A questo materialismo il filosofo tedesco opponeva il criticismo kantiano, filtrato dai risultati della fisiologia degli organi di senso. In vista del conseguimento di questi risultati Lange non trascura di operare nella dire- zione di una profonda revisione del kantismo, soprattutto al fine di evitare la distinzione piuttosto artificiale, ancora presente in Kant, tra sensibilità e intelletto. Su questa base Lange conclude che i risultati delle ricerche fisiologiche (che indicavano nella organizzazione psicofisica la condizione di ogni indagine conoscitiva) tendono a concordare sul fatto che non è possibile in alcun modo isolare i termini operativi della sensibilità; dal che se ne deriva l’importanza fon- damentale della misurazione (propriamente quantitativa) dei rapporti stimolo- sensazione prospettata dalla fisica di Fechner, e ulteriormente approfondita dalla psicologia fisiologica di Wundt – il tutto, naturalmente, in vista della ridefini- zione della struttura spazio-temporale così come era stata prefigurata da Kant. Discorso analogo varrebbe per la causalità: in primo luogo Lange fa propria l’idea kantiana secondo cui la causalità occuperebbe un posto originario all’in- terno dell’esperienza. Le conclusioni che Lange può trarre da queste premesse gli consentono di equiparare la funzionalità della sensibilità a quella delle categorie.

Ma è proprio perché dirige il suo discorso nel senso (e nella direzione) della costruzione di un parallelismo tra fisiologia e kantismo che Lange non può trala- sciare di esaminare i termini dell’altra questione fondamentale per tutto il neo- kantismo, e cioè (e piuttosto ovviamente) il problema della cosa in sé. Se da un lato, nell’affrontare questo tema Lange aveva subito l’importante influsso di Cohen, dall’altro non gli era estraneo nemmeno l’apporto dell’argomentazione schopenhaueriana153: in pratica, di fronte alla necessità di determinare positiva-

mente il fondamento ultimo delle cose (e, nel caso kantiano, anche il loro con- cetto), Lange sosteneva che questa attività di definizione era la più diretta conse- guenza di una operazione (costruttiva) tipicamente antropomorfa e antropocen- trica, il cui limite, di fatto, si sovrapporrebbe alle possibilità euristiche umane.

In buona sostanza possiamo pensare a uno schema di questo genere: cono- scenza = rappresentazione154; ovvero il soggetto conosce allorché è in grado di

rappresentarsi un oggetto. Ora, nel caso di Schopenhauer, all’interno di una tra- dizione che sostanzialmente alleggerisce il peso euristico della sensibilità, la rappresentazione (almeno in una prospettiva di secondo grado come quella filosofica) ha a che fare più che con il mondo esterno (che comunque rimane, nella sua materialità, profondamente opaco) con la volontà (cosa in sé). Come dire: il mondo c’è, ma rimane materia inerte se un soggetto (poniamo con i tra- scendentali tipici della razza umana, ma se le zanzare ne avessero di propri non potremmo non pensare che non disporrebbero della capacità di costruirsi un loro mondo) non si fa carico della sua costruzione: «quando un verme, uno sca- rabeo, un uomo e un angelo guardano un albero, ci sono forse cinque alberi? Vi sono quattro rappresentazioni di un albero, probabilmente molto differenti le une dalle altre; ma si riferiscono ad un solo e medesimo oggetto, di cui cia- scun essere preso a parte non può sapere come esso sia conformato in sé, per- ché ne conosce unicamente la rappresentazione individuale ch’egli ne ha. L’uomo non ha se non un solo vantaggio, quello di poter paragonare i suoi organi a quelli del mondo animale e di giungere, mediante ricerche fisiologi- che, a considerare la sua rappresentazione come altrettanto incompleta e par- ziale quanto quella delle diverse classi di animali»155.

L’impianto langeano è simile a quello del filosofo di Danzica nella parte generale, ma differisce in un punto importante: il mondo, almeno per quanto