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Un mondo senza cause

I POTESI PER UN SISTEMA

3.3. Il mondo e le sue legg

3.3.6. Un mondo senza cause

Il problema del mondo (o della realtà) ridotto a interpretazione non è il proble- ma essenziale del pensiero nietzschiano, né, tanto meno, il suo esito principale – come invece tanta ermeneutica parrebbe concludere. Casomai – ipotesi che comunque verificherò ancora in seguito – le conclusioni, prevalentemente erme- neutiche, che tendono a fare di Nietzsche il filosofo dell’indifferenza interpretati- va mi paiono, nella sostanza, largamente insostenibili. Nell’economia complessi- va del sistema nietzschiano la componente interpretativa è in qualche modo mini- ma e derivata dalle riflessioni neokantiane sulla cosa in sé108; e, soprattutto, il

mondo, fin nella sua struttura materiale, e le cose non si riducono a oggetti di inter- pretazione. Solo il confronto con la cosa in sé introduce un elemento di interpre- tazione, dovuto per altro alla sostanziale determinatezza dei nostri organi di senso.

Queste osservazioni obbligano a tener conto di due elementi: in primo luogo che Nietzsche opterà per l’eliminazione della cosa in sé, categoria concettuale che ritie- ne non soltanto discutibile, ma, più radicalmente, fuorviante; in secondo luogo sarà poi utile focalizzare l’attenzione sull’utilizzo nietzschiano del termine interpreta-

zione, là dove Nietzsche prevalentemente l’associa a una precisa modalità gnoseo-

logica, riassumibile grosso modo in questi termini: date la nostra struttura fisiolo- gica e le nostre abilità cognitive, se volessimo conoscere la realtà ultima delle cose, saremmo costretti a concludere che questa è infinitamente interpretabile.

Bene inteso, Nietzsche è dell’idea che sia del tutto inutile tentare di risolve- re il problema della cosa in sé: potremmo dire che ha senso parlare di interpre- tazione solamente se pensiamo a un ipotetico secondo livello di realtà quello che, se esistessero le condizioni, vorremmo confrontare con i criteri della cono- scenza assoluta. All’interno di quest’orizzonte il «tutto è interpretazione» ha certamente un significato preciso che però è meno debole di quanto può sem- brare a prima vista: le cose nel mondo di tutti i giorni, quello che è dato ai sensi e all’intelletto, sono ben poco il risultato di semplici interpretazioni; casomai

ci stanno lì davanti intrecciando relazioni che Nietzsche cerca abbastanza pazientemente di districare, secondo un’idea (e una metafisica) ben precise.

Un’utile chiave di lettura per affrontare l’idea del mondo nietzschiana, mi pare essere il concetto di causa su cui il filosofo tedesco lavora costantemente e a più riprese. Si tratta di uno degli accorgimenti euristici adottati Nietzsche per disarticolare l’idea del mondo (dunque delle cose in genere, ma anche del soggetto) tipica del senso comune.

La critica al tradizionale concetto di causa, lo sappiamo, ha origini lontane, e trova una delle sue prime articolazioni teoriche soddisfacenti e complete nei lavo- ri di David Hume, e, in particolare, nelle Ricerche sull’intelletto umano e sui prin-

cipi della morale. Per varie ragioni (in primis, il ruolo centrale che il pensiero

humeano ha assunto nella speculazione kantiana) sappiamo che Nietzsche cono- sceva, almeno sommariamente, i termini delle questioni così come le poneva Hume. E sappiamo, per quel che si è detto sin qui, che l’obiettivo epistemologico nietzschiano è chiaro: destrutturare le categorie del giudizio così come normal- mente le conosciamo e le utilizziamo. Il tutto attraverso una strategia argomenta- tiva bipartita: sottolinearne, da un lato, l’utilità trascurabile e, dall’altro, avvertire come il loro utilizzo conduca spesso a esiti fuorvianti o addirittura falsi. Il tema della nozione della causalità rientrerebbe appunto in quest’ultimo caso.

Il problema, anche da una prospettiva storica, è quello del rapporto soggetto- mondo da un lato, e delle possibilità conoscitive del soggetto dall’altro – in pra- tica, Hume anticipa nella formulazione il senso del problema epistemologico kantiano. Soprattutto, è interessante sottolineare come le osservazioni di Hume siano nel complesso senz’altro più avvertite dal punto di vista della conoscenza sensibile (dunque dell’estetica) rispetto alle conclusioni kantiane; per questo pare abbastanza scontato il senso complessivo dell’interesse nietzschiano.

Sul piano ontologico, in Hume la distinzione fondamentale rimanda allo iato tra le impressioni (le nostre impressioni più vivide, che ci derivano dall’udito, dalla vista, oppure dai desideri, dalle passioni e così via) e le idee, che il filoso- fo scozzese legge come impressioni di natura meno vivida. Dicevamo che il problema fondamentale all’interno di questa determinazione epistemologica è quello dei limiti conoscitivi (indi delle possibilità) del nostro intelletto, esatta- mente come in Kant. Vediamo direttamente Hume: «nulla, a prima vista, può sembrare più illimitato del pensiero dell’uomo, il quale non soltanto sfugge ad ogni potere ed autorità umana, ma non è nemmeno trattenuto entro i limiti della natura e della realtà. Il formare mostri ed il congiungere incongrue forme ed apparenze sono cose che non costano all’immaginazione maggior fatica del con- cepire gli oggetti più naturali e famigliari. E mentre il corpo è confinato ad un solo pianeta, sul quale striscia con pena e difficoltà, il pensiero può in un istan- te trasportarci nelle regioni più lontane dell’universo, ed anche al di là dell’uni- verso, nel caos illimitato […]. Ma sebbene il nostro pensiero sembri possedere questa illimitata libertà, troveremo, con un esame più stringente, che esso è real-

mente confinato entro limiti molto ristretti e che tutto questo potere creativo della mente si riduce a niente di più che alla facoltà di comporre, trasporre, aumentare o diminuire i materiali fornitici dai sensi e dall’esperienza»109.

Per servirci del bell’esempio di Hume potremmo allora dire così: allorché pen- siamo a una montagna d’oro, non facciamo altro che associare due concetti di cui già disponiamo (e ne disponiamo in quanto li abbiamo precedentemente tratti dal- l’esperienza, vale a dire abbiamo visto sia montagne sia oro). Nulla vieta, almeno in astratto, di formulare associazioni in via di principio non riscontrabili nell’espe- rienza (cavalli alati, piuttosto che montagne d’oro o orsi parlanti e così via).

L’intuizione che guida Hume, a quest’altezza, ha a che fare con la convinzio- ne che le nostre idee composte o complesse derivino necessariamente dall’unio- ne di diverse (numericamente e qualitativamente) idee semplici che, a loro volta, sarebbero copie di precedenti sensazioni o sentimenti; le idee derivereb- bero perciò dalle sensazioni secondo un rapporto di necessità. Poniamo il caso di un uomo a cui, per ipotesi, non funzioni la vista110; se si tratta di un cieco

dalla nascita, dunque di un soggetto che non ha mai avuto percezioni visive, si può supporre che questi avrà una concetto molto problematico di cos’è, ponia- mo, un colore. Ripristinata la funzionalità alterata, si svilupperanno gradual- mente anche le idee delle sensazioni corrispondenti. Il caso è grossomodo simi- le se a fare problema non è l’organo di senso, bensì l’oggetto della nostra per- cezione. Si può per esempio supporre una situazione in cui l’oggetto che provo- ca una determinata sensazione non sia mai venuto a contatto con l’organo di senso in grado di percepirlo; ne deriverà una latenza della sensazione in questio- ne che, per ciò stesso, rimarrà del tutto sconosciuta al nostro ipotetico soggetto, il che ovviamente non porterà a concludere che tale sensazione non esiste.

Come si vede, il discorso humeano è singolarmente tangente alla posizione di Nietzsche, là dove il filosofo tedesco sostiene che il procedimento costruttivo da cui deriva in termini generali la conoscenza, in quanto nostra conoscenza, dipen- de necessariamente dai nostri (nel senso di umani) organi di senso. È evidente che in questo caso Nietzsche non pensa solamente alla conoscenza tipicamente umana o, per dirla in altro modo, all’individuo come soggetto di conoscenza. Che è come dire: gli uomini conoscono il mondo (e le cose) e, almeno a un livello primario, su di esso si accordano, magari utilizzando stratagemmi e inganni vari; tuttavia, non possiamo sapere con assoluta certezza se ci sia qualcuno o qualcosa che cono- sce (e che si comporta) in maniera differente da noi: per esempio – e come del resto accade di frequente Nietzsche utilizza a questo proposito le sue strategie argomentative paradossali – non possiamo escludere che la zanzara conosca un mondo ontologicamente diverso dal nostro111, semplicemente perché, nei fatti, è

dotata di diversi apparati sensori e percettivi e di altre categorie concettuali. Comunque, fatta salva questa considerazione epistemologica di fondo – che cioè non siamo in grado di pronunciarci sulla realtà ultima delle cose, vuoi per- ché non disponiamo di un elementare criterio di completezza (come facciamo a

essere sicuri di aver sperimentato tutte le impressioni possibili, e, da qui, tutte le idee semplici e poi complesse possibili?), vuoi per la determinatezza dei nostri apparati sensoriali – Hume nota una sostanziale regolarità tra le procedure attra- verso cui, in genere, connettiamo le idee semplici o articoliamo le complesse. Il filosofo scozzese individua tre principi di connessione tra le idee: somiglianza, contiguità e la relazione causa-effetto. Ora, soprattutto la relazione causa-effetto è, a ben guardare, l’elemento su cui si fondano tutti i ragionamenti relativi a materie di fatto – e cioè quei ragionamenti che hanno a che fare con l’esperien- za empirica piuttosto che con affermazioni la cui certezza è data a livello intuiti- vo o dimostrativo, come accade nell’algebra, nella geometria e nell’aritmetica.

Riguardo alle materie di fatto, consuetudine vuole che la relazione causa-effet- to sia adoperata per por termine alla catena dei rimandi oltre la presenza sensibi- le o il supporto fornito dalla memoria. Che significa? Per esempio – per seguire il riferimento, come al solito molto chiaro, che ci fornisce Hume – possiamo doman- dare a qualcuno per quale ragione sa che una persona assente si trova in un deter- minato luogo (poniamo per esempio di parlare con un interlocutore che dice di sapere che un amico comune è, in quel momento, in un determinano paese stra- niero). L’interrogato probabilmente risponderà adducendo una qualche ragione a motivo della sua certezza (per esempio, il contenuto di una lettera in cui si danno notizie dello spostamento dell’amico) che, evidentemente, sarà un nuovo fatto. E i ragionamenti che si basano sui fatti, conclude Hume, sono tutti della stessa natu- ra: si sostanziano del rimando reciproco, ovvero, in tutti i casi si suppone che ci sia una connessione tra il fatto presente (nel nostro esempio, l’assenza della per- sona) e un fatto antecedente (la lettera appunto, in cui si spiegano le ragioni del- l’assenza, o, magari, una decisione precedente che causa appunto l’assenza in que- stione, e così via). Se non vi fosse nulla che lega le due cose, l’inferenza, per altro tipica di questo genere di ragionamenti, sarebbe del tutto ingiustificata. In questo senso, se si vuole far chiarezza sul tipo di evidenza che ci assicura dei fatti empi- rici, è necessario cercare di comprendere la natura del rapporto di causalità.

È appena il caso di sottolineare come, a giudizio di Hume, la relazione causa- le non si può definire mediante l’utilizzo di un argomento (o di un ragionamen- to) apriori; è necessario piuttosto rimettersi completamente all’esperienza: «pre- sentiamo un oggetto ad una persona di capacità ed abilità razionali forti quanto si voglia; se quell’oggetto le è del tutto nuovo, essa non riuscirà con l’esame più accurato delle qualità sensibili di esso, a scoprire qualcuna delle sue cause o dei suoi effetti. Adamo, anche se si supponga che le sue qualità razionali fossero, fin dall’inizio, assolutamente perfette, non avrebbe potuto inferire dalla fluidità e tra- sparenza dell’acqua che questa lo poteva soffocare, o dalla luce e dal calore del fuoco che questo poteva ridurlo in cenere. Nessun oggetto manifesta, per mezzo delle qualità che appaiono ai sensi, né le cause che lo hanno prodotto, né gli effet- ti che sorgeranno da esso; né la ragione può mai, senza l’aiuto dell’esperienza trarre alcuna inferenza riguardante esistenze reali e materia di fatto»112.

Quel che Hume intende escludere – come del resto pare abbastanza chiaro dalle premesse – è la possibilità di inferire dal puro ragionamento logico una consequen- zialità di qualsivoglia tipo. Per esempio, possiamo abbozzare un esperimento men- tale di questo tipo: immaginiamo di essere trasportati per la prima volta su di un pianeta sconosciuto, che però è regolato da leggi fisiche molto simili a quelle che vigono nel nostro mondo, anche se noi, al nostro arrivo, non abbiamo modo di saperlo. Ebbene, in una situazione di questo tipo, come faremmo ad inferire aprio- ri che, per esempio, una palla è in grado imprimere ad un’altra un movimento tra- mite impulso? Possiamo giustificare l’inferenza solo attraverso l’esperienza; nel nostro caso: solo dopo aver visto da qualche parte, nel nuovo mondo, una palla che, dopo essere stata mossa in qualche modo, finisce per urtare un’altra palla facendo- la muovere. Questo in concreto vuol dire essenzialmente che, nel caso del nostro esperimento mentale sugli esiti del contatto delle due palline, saremmo per forza costretti all’indecisione (cioè a non prendere posizione sull’esito del contatto) fin tanto che tale contatto non si sia, per l’appunto, verificato. All’atto dell’urto avre- mo modo di annotare che il movimento della seconda palla è del tutto distinto da quello della prima; inoltre, nel momento in cui vedo una palla da biliardo che si muove in linea retta verso un altro oggetto, posso certamente immaginare il movi- mento della seconda palla come conseguenza dell’urto, tuttavia – e qui sta il fatto importante – posso anche immaginare opzioni differenti, cioè diversi altri fatti che conseguono dalla causa urto. Per esempio, entrambe le palline (il che, è ovvio, vale se ragioniamo prescindendo dall’esperienza) potrebbero arrestarsi; oppure una delle due potrebbe fermarsi e l’altra accelerare il suo movimento e così via.

Al di fuori dell’esperienza non siamo in grado di optare per nessuna solu- zione, dato che almeno in via teorica – e cioè senza il soccorso dell’esperienza che ci fornisce non solo la possibilità di ragionare per analogia, ma anche una serie di dati empirici (misurazioni, calcoli, rilevazioni) su cui riflettere – tutte queste soluzioni rimangono egualmente possibili.

Per riassumere i termini della questione, come passa da Hume a Nietzsche, possiamo dire così: 1) a un primo livello è necessario chiedersi qual è il fonda- mento di tutti i ragionamenti riguardanti materie di fatto. Piuttosto ovviamente si può ipotizzare che tali ragionamenti si fondino sulla relazione causa-effetto. 2) Questa relazione fa però sorgere altre difficoltà, ovvero costringe, per esem- pio, a domandarsi quale sia il fondamento della relazione causale113. Su questo

punto, la risposta maggiormente plausibile rimanda comunemente all’esperien- za. Il che però non è ancora tutto dato che 3) analoga domanda può essere rivol- ta ai fondamenti dell’esperienza. E così la questione decisiva finisce per essere ancora una volta questa: su cosa si fonda l’esperienza? Non solo sui ragiona- menti e comunque, di certo, non sui ragionamenti apriori, e questo è chiaro.

Una via percorribile per trovare una risposta a questa domanda ha a che fare con la possibilità di capire come trattiamo le nostre esperienze dato che, per esempio, non ripetiamo sempre le stesse azioni per verificarne i risultati – non

abbiamo cioè necessità di ripetere n volte l’esperienza delle due palle che si urtano per sapere che, se una palla ne tocca un’altra, presumibilmente (se cioè è stata impressa una forza sufficiente e ci troviamo in un mondo in cui vigono le leggi di Newton) la seconda palla subirà un movimento dovuto al contatto con la prima. In qualche modo cioè, ci fidiamo (ammettiamo dunque la vero- simiglianza degli effetti ottenuti una o più volte nel compiere una data azione), generalizzando le nostre esperienze mediante la formulazione di inferenze attraverso il supporto della memoria. La memoria da un lato, e le inferenze dal- l’altro, ci garantirebbero del fatto che, a differenza di quel che pensava il vesco- vo Berkeley, il mondo esterno continua a esistere anche a prescindere dalle nostre percezioni e qualunque sia il modo in cui noi ci comportiamo.

George Berkeley si serve della critica alle idee astratte (la stessa poi ripresa e accettata anche da Hume) per sostenere un immaterialismo che finisce per togliere spessore e concretezza alla realtà esterna. Stando a Berkeley, infatti, l’i- dea generale non prescinde dai contenuti particolari (il che è, se vogliamo, ovvio: non possiamo in alcun modo pensare a un triangolo che non sia né equi- latero, né isoscele, né scaleno); piuttosto, l’idea è generale solamente in rappor- to ai contenuti che rappresenta. Il che significa che un’idea (o anche un nome) tutt’al più può «stare per», indi rappresentare una quantità di percezioni partico- lari. In tale quadro, Berkeley utilizza la critica alle idee astratte per tracciare una teoria della conoscenza in cui tutto ciò di cui disponiamo sono le percezioni e il loro reciproco rapporto (da cui derivano sia le idee semplici sia le complesse); mentre gli oggetti, nella sostanza, ci rimarrebbero totalmente estranei. Superfluo allora dire che l’esperienza perde qui di qualsiasi valore effettivo, diventando inutile. L’essere si riduce alla percezione e questa, a sua volta, viene interamen- te rimessa al soggetto, indi, in un passaggio successivo, direttamente a Dio.

Ora Hume, pur concordando nel merito con la critica delle idee astratte (non è pensabile una idea generale di triangolo, tutto ciò che esiste è una generaliz- zazione della idea particolare), si discosta nettamente dalle conclusioni che Berkeley trae a proposito della realtà, nonché del valore e del significato del- l’esperienza. Nello specifico, Hume non mette in discussione la permanenza materiale degli oggetti, piuttosto è la funzionalità stessa dell’esperienza a fare problema. Per intenderci: se tutti gli argomenti riguardanti l’esistenza sono fondati sulla relazione di causa-effetto, e la conoscenza di questa relazione deriva direttamente dall’esperienza, ne consegue, piuttosto ovviamente, che passato e futuro, in questo quadro, si suppone conservino una struttura analo- ga. Da qui poi a concludere che fatti o eventi simili tendono a ripetersi, il passo è breve. Il che però – nell’ottica humeana – non è affatto consequenziale.

Prendiamo il caso di oggetti simili, ma numericamente distinti, come due uova o, per rifarci ad un noto esempio nietzschiano, due foglie magari dello stesso tipo di pianta (ma non della stessa pianta). Ora, per inferire da queste similitudini l’i- dea di uguaglianza è necessario effettuare una serie di operazioni di natura non

solo mentale: per esempio, possiamo assaggiare molte uova o guardare con atten- zione molte foglie della stessa pianta. Il problema, a quest’altezza, deriva dal fatto che non possiamo mangiare tutte le uova che esistono o che esisteranno o, tanto meno, che sono esistite, né guardare tutte le foglie di uno stesso tipo di pianta. Questo per dire che l’inferenza su cui si basa il giudizio di uguaglianza non trova giustificazione né sul piano logico, né, ovviamente, su quello empirico.

L’inferenza in questione poi non è né intuitiva, né dimostrativa: poniamo infatti di non aver mai visto nella nostra vita delle uova. Certamente non pos- siamo dedurre apriori che, per esempio, tutte le uova dispongono delle mede- sime qualità nutritive, e neppure possiamo trarre qualche conclusione di que- sto tipo limitandoci a guardarle. Il problema non è aggirabile nemmeno attra- verso l’esperienza dato che, comunque, ogni inferenza basata su acquisizioni sperimentali suppone l’uniformità dell’esperienza stessa: suppone, in pratica, che le esperienze presenti siano largamente uniformi alle analoghe compiute nel passato o a quelle che si faranno in futuro.

Con tutta evidenza si fa uso di un postulato largamente implicito, che consiste nel supporre che la natura funzionerà grosso modo sempre alla stessa maniera, regolata cioè dalle medesime leggi e da un funzionamento per lo più omogeneo. Il problema è che quest’argomento si fonda non sull’esperienza, ma, come oramai dovrebbe risultare chiaro da ciò che si è detto sin qui, sull’abitudine. In questo modo si intuisce anche la ragione per cui, generalmente, una sola esperienza non basta a consolidare il rapporto causa-effetto – non basta aver mangiato un uovo,