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Un occhio che vede un Sole e una mano che sente il contatto di una terra

N IETZSCHE : I SUOI INTERPRETI , LE LORO RAGION

4. M H EIDEGGER , 1961; W K AUFMANN , 1950.

2.2. Schopenhauer come “educatore”

2.2.2. Un occhio che vede un Sole e una mano che sente il contatto di una terra

Com’è noto, il punto di partenza di Schopenhauer è tutto nella Critica della

ragion pura, anche se egli non concordò del tutto con le ricerche kantiane. «Il

più grande merito di Kant – scrive Schopenhauer nell’appendice de Il mondo

come volontà e rappresentazione – è la distinzione del fenomeno e della cosa

in sé – sul fondamento della dimostrazione che fra le cose e noi stessi c’è ancor sempre l’intelletto, per cui esse non possono essere conosciute secondo quello che possono essere in sé»93.

Il merito fondamentale di Kant sarebbe perciò nell’elaborazione della distin- zione tra fenomeno e cosa in sé; mentre, il limite più importante delle sue ricer- che avrebbe a che fare con l’evidente incapacità di risolvere positivamente il problema della cosa in sé. In sostanza, Kant non ci dice (ed è questo il punto da cui Schopenhauer prenderà le distanze) cos’è il noumeno, ma si limita a darne una elaborazione negativa94. Pur all’interno di questa evidente limitazione,

Schopenhauer concorda nella sostanza con Kant nel sostenere che il mondo fenomenico è a tal punto condizionato dalla dicotomia soggetto/oggetto, che le forme universali della realtà sensibile possono essere tematizzate solamente gra- zie all’analisi separata della conformazione del soggetto e dell’oggetto, ivi com- preso il loro reciproco rapporto. Sebbene non abbia mai fatto coincidere espli- citamente cosa in sé e volontà, Kant avrebbe comunque aperto a quest’esito allorché non mancò di sottolineare il valore essenzialmente etico della condotta

umana (in quanto tale completamente e intrinsecamente indipendente dal mondo fenomenico), riportandola perciò stesso alla volontà del soggetto.

Inoltre, e si tratta del terzo punto, Kant avrebbe operato una destrutturazione sistematica della filosofia scolastica, dimostrando l’impossibilità di attuare una teologia speculativa (in questo senso andrebbe letta l’impossibilità di provare tanto l’esistenza di Dio, quanto l’immortalità dell’anima); impossibilità che Schopenhauer risolve, non mancando, com’è per molti versi ovvio, di esasperar- la ulteriormente, nella distruzione del realismo kantiano e nel conseguente, implicito, avallo dell’idealismo. L’accettazione schopenhaueriana dell’idealismo deriva dalla radicalizzazione del binomio soggetto-oggetto, con una chiara presa di posizione a favore del soggetto. Perciò, se prendiamo come risposta alla domanda «che cos’è il mondo?», il titolo della principale opera di Schopenhauer, «il mondo è volontà e rappresentazione», in prima battuta verrà naturale pensare che gli oggetti esterni al soggetto sono sue (del soggetto) rappresentazioni (dun- que apparenza); e che tali rappresentazioni (che abbiamo visto coincidere con l’apparenza) si risolvono, di fatto, nella volontà (appunto la cosa in sé).

Ma vediamo di scindere il binomio schopenhaueriano, domandandoci in primo luogo che cos’è la rappresentazione. Innanzitutto, nella versione scho- penhaueriana, la rappresentazione ha a che fare con la percezione, come risul- ta evidente dall’apertura de Il mondo come volontà e rappresentazione: «“il mondo è una mia rappresentazione”: ecco una verità valida per ogni essere vivente e pensante, benché l’uomo possa soltanto venirne a coscienza astratta e riflessa. […] Allora, egli sa con chiara certezza di non conoscere né il Sole né la terra, ma soltanto un occhio che vede un Sole, e una mano che sente il contatto di una terra; egli sa che il mondo circostante non esiste se non come rappresentazione, cioè sempre e soltanto in relazione con un altro essere, con il percipiente, con lui medesimo. […] Nessuna verità è dunque più certa, più assoluta, più lampante di questa: tutto ciò che esiste per la conoscenza, e cioè il mondo intero, non è altro che l’oggetto in rapporto al soggetto, e non esiste che per il soggetto. Il mondo è rappresentazione»95.

Tutto questo significa che, intorno ai fenomeni, la spiegazione etiologica abbozzata dalle scienze della natura può dirci ben poco. Qualsiasi indagine etiologica può tutt’al più risolversi in un catalogo anche molto completo delle varie forze che regolano i fenomeni naturali, tuttavia, di fatto, non può che dimostrarsi carente sul piano dell’indagine delle essenze. A Schopenhauer – e lo si capisce bene – interessa ciò che sta dietro alle rappresentazioni, e alla loro connessione sulla base del principio di ragione96.

L’impianto gnoseologico è chiaro: fintanto che si parte dall’esterno (dunque dal mondo) non saremo mai in grado di comprendere i meccanismi della cono- scenza, indi di arrivare all’essenza di ciò che c’è. È significativo il richiamo, che Schopenhauer riporta nelle prime pagine del Mondo, alla filosofia Vedanta nella formulazione di W. Jones: «il dogma essenziale della scuola Vedanta consisteva

non nel negare l’esistenza della materia, cioè della solidità, dell’impenetrabilità, dell’estensione (negare tutto questo sarebbe invero una pazzia), bensì nel correg- gere in proposito la concezione volgare, sostenendo cioè che la materia non pos- siede un’esistenza indipendente dalla percezione mentale, poiché esistenza e per- cettibilità sono termini equivalenti»97. Ne consegue che la percezione è connota-

ta in senso fortemente mentalistico, nel senso che attiene al soggetto (volontà) nel suo rapportarsi con l’oggetto (mondo) attraverso il medium della corporeità.

Ontologicamente, cioè, la materia è dotata di una sua consistenza, e sembra piuttosto inverosimile pensare di negargliela; tuttavia, tale esistenza (rigorosamen- te percepibile) ha a che fare più che con la percezione corporea, con quella men- tale. Piuttosto che costruire, utilizzando per questo fine gli elementi portati dalla sensibilità, la mente si incarica dunque di percepire. A grandi linee si tratta dell’im- pianto kantiano, ma con una marcata correzione nel senso del soggetto – tanto che non sembra affatto un caso il parallelismo, che Schopenhauer traccia nell’Appendice, tra la posizione kantiana e quella platonica98. Il problema è anco-

ra quello della cosa in sé; nel senso che il fenomeno è inteso come tramite verso il noumeno e il piano dell’essere è un tramito verso l’apparenza.

Tale costruzione, oltre ad anticipare alcuni sviluppi del prospettivismo nietz- schiano, fonda l’argomentazione schopenhaueriana su di un punto essenziale: non è possibile conoscere alcun oggetto, né percettivamente, né intuitivamente; tutto ciò di cui possiamo fare esperienza (dunque, in seconda battuta, tutto ciò che pos- siamo conoscere) sono i nostri organi di senso (ad esempio, gli occhi o le mani), per giunta anch’essi ritenuti funzionali alla volontà che, in pratica, coinciderebbe con il noumeno kantiano finalmente svelato nella sua autentica essenza.

Nel discorso di Schopenhauer queste annotazioni assumono almeno altre due sfumature differenti: 1) il soggetto non conosce l’organo in sé, ma più propria- mente i mutamenti che lo riguardano; 2) il soggetto conosce gli oggetti percepiti (ad esempio il tavolo che ho davanti, il Sole che mi sta di fronte ecc.) in un senso del tutto delimitato e individuale. Seguendo i presupposti schopenhaueriani, tutto ciò che conosciamo direttamente sono i mutamenti a cui vengono sottoposti gli organi di senso quando sono investiti dagli oggetti. E tali mutamenti non possono che riguardare fondamentalmente la corporeità99: il corpo è dunque l’unità di rife-

rimento per la percezione delle variazioni degli organi di senso. Allorché i cam- biamenti che riguardano il corpo vengono percepiti, si sviluppa la sensazione: tut- tavia, non si tratta ancora di una rappresentazione; perché questa intervenga, biso- gna che l’intero processo sia portato a consapevolezza100, ovvero, appercepito.

Il problema, a questo punto, è di determinare la natura dell’oggetto che pro- voca i mutamenti di cui si è detto, e, nello stesso tempo, la natura della mente (e, a un secondo livello, della conoscenza) che percepisce tali variazioni. Per cominciare, va sottolineato che non c’è, secondo Schopenhauer, alcuna relazio- ne causale tra l’oggetto fenomenico (incluso il corpo) e la cosa in sé; e, dun- que, non vi è nemmeno correlazione tra gli oggetti percepiti e le cose in sé.

Ma allora, se gli oggetti esterni non sono assimilabili alla cosa in sé, e nem- meno agli oggetti in sé, che cos’altro possono essere? Noi conosciamo le cose solamente come ci appaiono, non come realmente sono. Le cose, d’altro canto, si presentano dotate di qualità primarie ben definite (per esempio, spazio, tempo e causalità), e questo accade in virtù della mente che percepisce e che opera utilizzando appunto forme standardizzate che, ovviamente, non consen- tono la conoscenza della realtà ultima del mondo. Per questo Schopenhauer può sostenere che, di fatto, a percepire è proprio la mente.

Com’è evidente, su questi temi Schopenhauer è arrivato a formulare conclu- sioni abbastanza simili a quelle del trascendentalismo kantiano: 1) l’intelletto assomiglierebbe a una sorta di griglia, che «filtra» i dati della conoscenza sensi- bile, in modo tale che la conoscenza è sempre conoscenza di dati uniformati dal- l’intelletto per il tramite di una serie di apriori (appunto: apriori della sensibilità e dell’intelletto); 2) le cose, nella loro natura non percettiva (alias: non rielabo- rata attraverso il filtro di sensibilità e intelletto) ci rimangono estranee101.

Per Kant, così come sarà per Schopenhauer, ogni cosa, nel suo essere prima percepita e poi rappresentata, viene occultata, nella sua reale natura proprio dalle stesse facoltà conoscitive. Come si vede, questa impostazione lascia com- pletamente aperto il problema della cosa in sé, almeno nel senso – soprattutto dalla prospettiva di Kant – di fare della cosa in sé un mero concetto limite. Il ragionamento schopenhaueriano invece va nella direzione di introdurre un rap- porto strettissimo tra sensi (che forniscono il «materiale» della conoscenza) e intelletto, che, per quel che lo concerne, opera in una direzione decisamente costruttivistica. Perciò, per Schopenhauer, dire che il mondo è una «mia rap- presentazione» significa essenzialmente dire che corrisponde a una mia costru- zione, il che è un po’ come avallare un idealismo di tipo trascendentale.

In pratica, Schopenhauer combina due modelli epistemologici distinti: il primo si fonda sulla passività del nostro apparato percettivo, in base al quale gli elementi sensoriali verrebbero apprestati appunto dall’esterno; il secondo, invece, ha grossomodo le caratteristiche di un modello di tipo costruttivistico, in cui è direttamente l’intelletto a farsi carico della determinazione della natu- ra degli oggetti sensibili (indi delle nostre percezioni). La sensibilità finisce dunque per essere in qualche modo ambigua: gli elementi (sensibili) di cui gli organi di senso dispongono sono, contemporaneamente, le condizioni di possi- bilità e i risultati del lavoro dei sensi102: «da un lato, il tavolo di fronte a me è

la causa della sensazione “in me”, e, dall’altro, è la costruzione della mia cono- scenza fuori da quelle sensazioni. La prima idea presuppone che il tavolo esi- sta prima delle sensazioni, dunque prima che io lo veda, mentre la seconda sug- gerisce che il tavolo (costruito e percepito) esiste solo dopo che sono sorte le mie sensazioni»103. Dunque un modello tipicamente ibrido.

Vorrei suggerire in pratica che in Schopenhauer il problema della rappresen- tazione (con tutta la sua complessa articolazione) rimanda, più o meno mediata-

mente, a quello della cosa in sé; e anzi, che la questione della cosa in sé, per altro in relazione strettissima con il problema delle forze naturali, deriva in prima bat- tuta proprio dall’idea schopenhaueriana di percezione. Ora, il tema della rappre- sentazione è chiaramente metafisico, dal momento che apre tutta una serie di que- stioni su quella che può essere la natura del mondo dietro (o al di là) della rap- presentazione percettiva. In altre parole, possiamo riformulare il nodo problema- tico in questi termini: tutto ciò che esiste è (o ha a che fare con) la rappresenta- zione, con la conseguenza che il mondo si esaurisce nella realtà dei soggetti cono- scenti, nonché dei loro, reciproci, rapporti? Per dirla forse con più efficacia: tutto ciò che esiste è solamente l’io come soggetto che conosce, e che crea delle rap- presentazioni che, a loro volta, coincidono poi con gli oggetti esterni conosciuti?

In sintesi, possiamo forse abbozzare una prima risposta di questo tipo: quan- titativamente esiste un mondo (la materia ci è data in modo, per così dire, pri- mario; la qual cosa, lo abbiamo già detto, Schopenhauer non intende minima- mente discutere), ma, per significare qualcosa, tale materia necessita appunto di un soggetto che (se) la rappresenti.

Volendo riassumere fin qui la posizione schopenhaueriana, possiamo provare a tracciare alcune conclusioni parziali: 1) la rappresentazione (che ha carattere percettivo) è condizionata in maniera determinante dal soggetto conoscente, 2) si struttura secondo tre forme tipiche (spazio, tempo, e causalità) che, in un movi- mento di retroversione, standardizzano la realtà, 3) soggetto e oggetto esistono in correlazione reciproca, 4) il contenuto della rappresentazione concettuale è dato dalla rappresentazione percettiva. Ciò significa che ogni concetto astratto (o anche ogni rappresentazione astratta) si basa sul percetto104: per esempio, il con-

cetto di cane si fonda sul percetto del cane, e così via. Quindi, posto che il conte- nuto della rappresentazione astratta sia la rappresentazione percettiva, rimane da stabilire qual è il contenuto della rappresentazione percettiva – che è poi il proble- ma che apre il secondo libro de Il mondo come volontà e rappresentazione (§ 17).

Una delle risposte ipotizzabili potrebbe avere a che fare con la sensazione; intendendo con ciò che il contenuto della rappresentazione percettiva potrebbe essere assimilato alla sensazione, o comunque al gruppo di sensazioni su cui si basa la formulazione del concetto. Sempre su questa linea, Schopenhauer avrebbe potuto aggiungere che la forma della rappresentazione percettiva deri- va direttamente dal soggetto conoscente (esistono cioè oggetti e questi oggetti a loro volta dipendono dalla determinazione di spazio, tempo e causalità), men- tre il contenuto delle rappresentazioni percettive si potrebbe pensare legato alle sensazioni (semplici o complesse) che vengono a costituirle. Una volta poi che l’elemento formale si unisce a quello materiale, dovrebbero risultarne le cose stesse, si tratti di cani, tavoli o quant’altro.

Tuttavia, Schopenhauer non segue questa strada; cerca piuttosto di stabilire quale sia l’aspetto materiale della rappresentazione (non quello formale che, per altro, dovrebbe essere noto apriori); e un’indagine di questo tipo rappresen-

ta il punto di svolta fondamentale che, nell’ottica schopenhaueriana, consente il passaggio alla filosofia, indi alla metafisica: la percezione – ovvero la costru- zione degli oggetti che deriva dalla sensazione, e che la conoscenza considera come un cambiamento verificatosi nel mondo naturale – presuppone l’esisten- za di forze naturali (che operano seguendo una direzione causale) negli ogget- ti; ma nessuna determinazione della percezione ci informa su quale sia la natu- ra di queste forze, ciascuna delle quali prima o poi si manifesta a determinare la rappresentazione: senza queste forze non ci sarebbe perciò né apparenza, né rappresentazione, né percezione105.

Stando a Schopenhauer, le spiegazioni naturalistiche o più francamente scientifiche (articolate cioè attraverso un modello tipicamente causale), lasce- rebbero del tutto ingiustificata sia la sostanza delle forze naturali, sia la stessa legge di causalità. Perciò, là dove terminano le scienze naturali (che, come si è visto, per loro stessa natura non sembrano poter arrivare all’origine delle cose), comincerebbe la speculazione filosofica, che, nell’intenzione di Schopenhauer, non deve dare nulla per ovvio o per scontato: né i fenomeni, né le relazioni tra fenomeni, e neppure il principio di ragion sufficiente, che è e rimane il presup- posto ineliminabile di ogni indagine scientifica.

Come si vede, dal punto di vista di Schopenhauer il legame tra scienza e filosofia è strettissimo e per nulla accessorio: la scienza nella sua globalità for- nisce solamente la materia del vero sapere, mentre la forma è data (o, più vero- similmente, dovrebbe essere data) dalla metafisica; ogni conoscenza scientifi- ca si arresta difatti innanzi a una causa che non è a sua volta ulteriormente spie- gabile o determinabile. E in questo senso le cose inspiegabili, stando sempre al giudizio di Schopenhauer, sono almeno due: inesplicabile è il principio di ragion sufficiente che, sul modello dei principi aristotelici, non può essere a sua volta spiegato, ma soltanto difeso; e inspiegabile è poi ovviamente la cosa in sé, che forma il contenuto ultimo di ogni fenomeno, e che sfugge anche al prin- cipio di ragion sufficiente. Perciò, là dove terminano le possibilità esplicative delle scienze iniziano quelle del pensiero filosofico106.

Ora è abbastanza ovvio concludere che il vasto apparato concettuale scho- penhaueriano dovette influenzare profondamente la formazione di Nietzsche, e questo non tanto (o non soltanto) a un livello generalmente estetico, ma (e mi sembra il punto di vero interesse), soprattutto nell’individuazione di quelle tematiche di ricerca che per Nietzsche diventeranno imprescindibili107. Gli

aspetti fondamentali della filosofia di Schopenhauer che entrano stabilmente nel tessuto della speculazione nietzschiana (secondo quel procedimento di assun- zione sotterranea e mascherata che contraddistingue tanta parte del rapporto di Nietzsche con le sue fonti), sono soprattutto tre: 1) in primo luogo, il significa- to e la funzionalità della conoscenza scientifica all’interno di una prospettiva filosofica che deve, per sua natura, assumere il carattere della globalità, 2) la possibilità di definire positivamente la cosa in sé, intendendola non più come un

concetto limite, ma come l’origine ontologicamente determinata delle cose, 3) l’impianto epistemologico neokantiano che Nietzsche, come avremo modo di vedere fra poco, si ingegnerà di ripensare e modificare in più direzioni.

In questa sede non mi interessa tanto comprendere il senso della risoluzione schopenhaueriana del noumeno kantiano (il Wille), né ricostruire nei dettagli il suo discorso sulle scienze particolari; piuttosto va sottolineato come Nietzsche (nei termini che vedremo) abbia, da un lato, ripreso nella sua complessità il discorso sulla cosa in sé, evitando però, almeno in prima battuta, di definirlo in una direzione positiva; dall’altro, abbia assunto come momento fondamentale della sua analisi sul rapporto tra filosofia e scienza, uno dei nodi essenziali della speculazione schopenhaueriana, ovvero la critica al materialismo e al meccanici- smo. E soprattutto mi sembra interessante notare che è proprio la riflessione su questi temi – per esempio: struttura e funzionalità dell’intelletto, sensibilità, per- cetto e rappresentazione – che ha indotto Nietzsche ad articolare ulteriormente il senso complessivo dell’indagine schopenhaueriana nella direzione di alcuni svi- luppi neokantiani (infra, 2.3). Tanto nella Metaphysik der Natur, quanto nel primo libro del Mondo, Schopenhauer critica infatti, in maniera serrata e puntua- le, quel materialismo che, a suo giudizio, assomiglia molto a una tipica ideologia spontanea delle scienze della natura108. Per Schopenhauer, il materialismo riser-

va per sé le funzioni della fisica assoluta che intende spiegare i fenomeni natura- li attraverso le forze che derivano dall’attività meccanica della materia; in modo tale che la cosa in sé finisce per risolversi in due tipiche forze meccaniche: azio- ne e reazione. Le questioni derivanti da assunzioni di questo genere sarebbero allora grossomodo di due tipi: la prima consisterebbe nell’aver assimilato la cosa in sé a una materia indipendente dal soggetto; la seconda, e più originaria, avreb- be a che fare con l’esclusione della realtà metafisica dal fenomeno, e questo nella misura in cui si assimila il contenuto alla forma del fenomeno stesso109.

Dello stesso tenore è anche la critica schopenhaueriana al meccanicismo. La questione della localizzazione fisiologica dei limiti della sensibilità, e del punto di partenza dell’irritabilità, è fondamentale nell’economia complessiva del pensiero di Schopenhauer110. Analogamente a Flourens, egli difendeva l’ipote-

si della suddivisione della Lebenskraft nelle tre principali forme fenomeniche della Reproduktivität, Irritabilität, e Sensibilität. E, soprattutto, difendeva que- sta ipotesi in aperta polemica con i fisiologi elettrici, chimici e meccanici del- l’epoca111. Questi, per parte loro, pretendevano di spiegare tutte le funzioni

dell’organismo partendo dalla forma e dal miscuglio dei suoi elementi costitu- tivi112, grazie all’assunzione di un presupposto largamente inverificabile: l’or-

ganismo vivente inteso come semplice aggregato di forze (chimiche, fisiche e meccaniche) del tutto eterogenee113.

In pratica Schopenhauer ritiene, da un lato, che gli organismi viventi sono forze di natura chimico-meccanica, dall’altro, pensa anche che tali forze si rela- zionino sulla base della semplice forza vitale. Perciò, non è affatto un caso che,

nel condurre la polemica contro il meccanicismo, si sia ricordato del paragra- fo 75 della Critica del giudizio, in cui Kant discute la difficoltà di comprende- re un organismo che si pensi organizzato solamente sulla base di principi mec- canici114. Schopenhauer, così come del resto era stato per Kant, si mostra

inflessibile nel considerare la distinzione tra organico e inorganico come la delimitazione essenziale per un’adeguata comprensione della realtà naturale.

Nei Parerga e paralipomena polemizza con «l’idea fissa» dei francesi secon- do cui «ogni processo dev’essere meccanico, e tutto si fonda sul colpo e con-