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I sette principi della metafisica nietzschiana

Cercherò di anticipare il quadro complessivo del pensiero metafisico nietzschiano; operazione che mi servirà per delineare i confini e gli interessi della mia ricerca.

1. Sostanza: Nietzsche critica articolatamente e spesso anche efficacemente

l’idea tradizionale della sostanza. Le ragioni di questa critica sono soprattutto due. La prima è di carattere prevalentemente semantico: gli uomini subirebbero l’in- fluenza delle grammatiche che, come si sa, nella prospettiva nietzschiana, sono il frutto dell’ingegno umano e, soprattutto, sono pure finzioni, nel loro riferirsi al mondo e alle cose. La seconda è invece di carattere fisico: Nietzsche condivide le ragioni della critica boscovichiana alla posizione di Newton riguardo la struttura della materia e le leggi dell’interazione tra le particelle sub-microscopiche. Di fatto, dunque, assume come fulcro della propria idea di sostanza la posizione di Boscovich che risulta dalla mediazione tra le ipotesi avanzate da Newton e quel- le di Leibniz: Boscovich riprende l’idea leibniziana della monade come punto inesteso, ma dotato di forza e accetta, pur modificandola profondamente, l’idea

dell’azione a distanza newtoniana. In questo senso non esiste sostanza estesa (quella che nella vulgata tradizionale fornisce il sostrato agli attributi), ma soltan- to un centro di forza (anzi, molti centri di forza) che sono per altro le uniche real- tà che di fatto i nostri sensi percepiscono. Tutto il resto – compresa l’idea di per- manenza degli oggetti nello spazio – è frutto della nostra costruzione mentale.

2. Forza: si tratta di ciò che rimane dopo che al mondo esterno è stata letteral- mente tolta la sostanza. Le cose diventano, nella loro natura più propria, dei rap- porti di forza o, anche, dei rapporti tra centri di forza. Tale forza è anche l’ogget- to proprio delle nostre percezioni: gli organi di senso vengono in contatto con forze – la cui natura è tipicamente quella descritta da Boscovich, centri (attrattivi e repulsivi) inestesi di forza – che non ci dicono nulla sul mondo esterno o, alme- no, sulle qualità degli oggetti. Ne deriva l’idea secondo cui noi non conoscerem- mo mai gli oggetti in un senso che non sia fisiologicamente determinato. Oltre all’apporto boscovichiano che rimane anche su questo punto decisivo, Nietzsche si riferisce largamente anche al quadro teorico elaborato da Hermann von Helmholtz, in particolare alle sue riflessioni sulla conservazione della forza e, più nel complesso, all’idea di percezione che è alla base dell’inferenza helmholtziana.

3. Causalità: com’è noto l’idea nietzschiana, radicale anche su questo punto,

consiste nel negare che in natura esista una qualche forma di connessione cau- sale tra gli eventi. Nietzsche considera la causa come un evento, isolato dal con-

tinuum che ha la possibilità di influenzare un altro evento, separato e esterno

rispetto al primo. In pratica, si tratta della riformulazione della posizione secon- do cui non esisterebbe la causa efficiente. La critica nietzschiana al concetto di causalità, per quanto non venga esposta organicamente in nessuno scritto, è una parte importante della idea di volontà di potenza. Nel complesso, Nietzsche cri- tica tre diversi aspetti della causalità: in primo luogo, quella eccessiva sempli- ficazione che in ambito morale o sociale è portata a servirsi della causalità per avallare spiegazioni del tutto immaginifiche che spesso finiscono per scambia- re la causa con l’effetto. In secondo luogo, polemizza con la suddivisione del- l’evento in causa ed effetto, ovvero con la nostra abitudine a separare il conti-

nuum degli eventi; operazione che ovviamente è largamente facilitata dall’idea

tradizionale di sostanza. In terzo luogo – sulla scorta delle riflessioni humeane che negano alla causalità di fondarsi sulla ragione o, in alternativa, sull’espe- rienza – Nietzsche è dell’idea che in nessun modo gli esseri umani possono spe- rimentare le proprietà causali delle cose che sono nel mondo; casomai, tutto ciò di cui possono fare esperienza è la regolare alternanza tra le diverse forme di apparenza che interpretiamo come succedersi di cause ed effetti.

4. Spazio: non esistendo alcuna sostanza estesa, Nietzsche non ha necessità di presupporre uno spazio che contenga la materia. Lo spazio inteso come un conte-

nitore (finito o infinito) degli oggetti dunque non esiste all’infuori della nostra atti- vità rappresentativa; esiste invece – nell’ottica nietzschiana – la necessità di rap- presentazione che ce ne facciamo. Per favorire la nostra organizzazione della real- tà siamo costretti a introdurre il concetto di divisione spaziale, in caso contrario le cose verrebbero percepite come un continuum indefinito e indistinto. Per dirla in termini semplici: lo spazio è uno strumento epistemologico che garantisce le nostre rappresentazioni e ci è molto utile per organizzare e ordinare il caos delle perce- zioni. Dal momento poi che le percezioni si strutturano attraverso molteplici e dif- ferenti sistemi percettivi che, per lo più, funzionano parallelamente (i nostri orga- ni di senso), la coordinazione spaziale di tutti questi elementi – che di fatto è essa stessa una rappresentazione – permette la rappresentazione dei singoli oggetti.

Lo spazio è però anche quello cosmico che ha a che fare con il nostro univer- so. Ha a che fare – dicevo – perché è evidente che se si rifiuta l’idea di uno spa- zio contenitore in cui sono collocati il mondo e la materia, è difficile anche solo scegliere il linguaggio appropriato per esprimere questo tipo di concetti. Lo spa- zio non è dotato di esistenza separata rispetto alle forze, piuttosto coincide con queste. Nietzsche accetta il primo principio della Termodinamica: essendo nel complesso l’energia del mondo finita, ed essendo lo spazio ciò che coincide con la forza, anche lo spazio nel complesso deve essere finito. Il modello di spazio a cui pensa Nietzsche non può perciò essere riportato al modello euclideo per molte ragioni: se lo spazio nietzschiano fosse euclideo sarebbe necessario attribuirgli una sorta di centro preferenziale, elemento questo che Nietzsche smentisce a più riprese. Inoltre, l’universo nietzschiano non ha limiti, ma è esso stesso limite: in questo senso, al di là della totalità non c’è nulla, nemmeno lo spazio vuoto.

5. Tempo: analogamente a quanto fa con la concezione tradizionale dello spa-

zio, Nietzsche critica anche il concetto newtoniano di tempo (il tempo inteso come un continuum unidimensionale in analogia con lo spazio). Secondo la tesi newtoniana il modello della temporalità si rifà all’idea di successione e può esse- re ben esemplificato dalla linea retta. A Nietzsche interessa soprattutto dimostra- re che una temporalità letta in analogia con l’idea del continuum spaziale – salvo che per le dimensioni: tre per lo spazio, e una sola per il tempo – deriva dall’at- tività costruttiva dell’intelletto; attività che è consentita dalla memoria che tende a uniformare e a organizzare i sense-data che formano le nostre percezioni. Se non avessimo memoria (dunque capacità di rendere l’esperienza riconoscibile attraverso la suddivisione di passato, presente e futuro) non potremmo uniforma- re l’esperienza e, in generale, non potremmo sopravvivere. Non potremmo, per esempio, riconoscere gli oggetti (che, infatti, secondo il senso comune e una certa metafisica quadridimensionalista, perdurano nel tempo) né, tanto meno, muoverci in un mondo stabile. L’aspetto per altri versi interessante è che nella versione nietzschiana è certamente la nostra percezione degli oggetti a permet- tere la scansione della successione temporale: una sorta di «aggancio esterno»

conformazione biologica e intellettuale, allo stesso modo anche la successione temporale non avrebbe altro fondamento che quello della rappresentazione intel- lettuale, in una direzione che richiama da vicino la posizione kantiana.

Da questi presupposti, accennati solo rapidamente, ne esce una realtà strut- turata nella maniera che segue:

6. Mondo esterno: nel complesso l’idea di Nietzsche sulle cose si orienta dando corpo a un prospettivismo di tipo debole. E cioè: in un senso molto preci- so esistono sia i fatti sia le loro interpretazioni, purché non ci si dimentichi di muoverci in un quadro teorico marcatamente falsificazionista. Esistono cioè quei fatti che sono costituiti dagli stimoli esterni che arrivano ai nostri sensi e che ven- gono rappresentati dall’intelletto. Tuttavia, questo mondo di stimoli pare proprio soggetto all’interpretazione dei nostri organi: è importante notare che, d’accordo con la prospettiva helmholtziana, gli stimoli si distinguono soltanto in relazione con l’organo che interessano: un’onda, di una determinata lunghezza, conserva cioè sempre la medesima natura, eppure è qualcosa di diverso a seconda dell’or- gano di senso con cui entra in contatto (suono per le orecchie, luce per gli occhi).

Inoltre – e qui sta l’elemento marcatamente interpretativo – un occhio non può sentire, così come un orecchio non può vedere; il che vuol anche dire che il mondo diventa quel che è perché alcuni degli stimoli in ingresso incontrano i nostri orga- ni di senso che, a loro volta, sono strutturati in maniera ben precisa. In questo senso, Nietzsche considera gli organi di senso come dei veri e propri vincoli che attestano la realtà così come ci appare, ma che, allo stesso tempo, non dispongo- no di un punto di osservazione privilegiato che ci permetta di dire se le cose sono effettivamente come ci appaiono. Di qui anche le ragioni di quella che mi sembra essere una tensione molto forte tra l’esigenza di elaborare una ontologia vincola- ta alla fisiologia degli organi di senso e una epistemologia che invece si rifà a una prospettiva costruzionista intimamente dipendente dal pensiero scientifico.

In qualche modo, la constatazione che non esiste un solo tipo di percezione possibile e che anzi l’uomo, dall’interno, conosce solamente la propria perce- zione (non è infatti possibile collazionare tutti gli organi di senso che esistono per elaborare la percezione vera o, in alternativa, il catalogo di tutte le percezio- ni esistenti, per non parlare di quelle possibili in qualche altra parte dell’univer- so) fa sì che Nietzsche segua allora nei fatti quel criterio fondamentalmente negativo di cui si è già accennato più sopra: per conoscere il mondo vero – cioè il mondo in sé – potrebbero anche mancarci gli organi di senso più adatti.

7. Mondo interno: il soggetto, nella vulgata più nota del pensiero nietzschia- no, sarebbe l’autore delle diverse prospettive sul mondo, nonché il criterio che stabilisce della verità o della falsità delle medesime. Il quadro però è decisamen-

te più complesso di così e tocca, da un lato, il mondo e i suoi contenuti (ovvero: cose, oggetti e atti intenzionali); dall’altro l’idea tradizionale della soggettività. A questa altezza sottolineiamo soltanto che, pur criticando il soggetto nel senso cartesiano, Nietzsche non lascia vuoto il posto della soggettività, sostituendole per intero l’attività interpretativa. Constata infatti che il soggetto tradizionale non sembra funzionare più; o, meglio, che funziona benissimo fin tanto che lo si intenda come un soggetto logico (avente cioè la funzione di organizzare e rac- cogliere le nostre conoscenze), molto meno bene se invece supponiamo che die- tro al soggetto logico si celi il soggetto sostanziale. Tale soggetto semplicemen- te non esiste: nel dettaglio, l’idea di una sostanza (l’anima, o la coscienza) a cui inerirebbero degli attributi (per esempio, determinate qualità) è una pura finzio- ne, adottata in nome di quel criterio di semplificazione e razionalizzazione con cui gli uomini da sempre regolano la loro vita. Da un punto di vista rigorosamen- te biologico, Nietzsche sostiene che il soggetto non è un’unità, e che anzi tutte le ipotesi che sino ad ora sono andate in questa direzione sono, di fatto, insoste- nibili. In altre parole, voler spiegare il soggetto servendosi della coscienza sareb- be un po’ come voler spiegare il sonno attraverso la vis dormitiva, ovvero spie- gare l’oscuro attraverso un’ipotesi altrettanto, o forse più, oscura.

In questo senso, è palese come l’indagine cartesiana sia largamente inutiliz- zabile – e lo è almeno per due ragioni: in primo luogo perché il passaggio dal mentale al fisico (e viceversa) non è per nulla scontato, e poi perché la cosiddet- ta res cogitans può essere considerata una unità solo introducendo, in via di ipo- tesi, ciò che altrimenti andrebbe spiegato, cioè quella sostanza che però, a tutti gli effetti, viene utilizzata in modo almeno discutibile, dato che il concetto di sostanza fisica rimane applicato a ciò che fisico non è (appunto il mentale).

Dati gli esiti – su cui comunque ritorneremo ampiamente in sede di analisi – vediamo ora di ripercorrere gli antefatti.

NOTE 1. P. BOZZI, 1969: pp. 52-69. 2. FP 1885-1887: 8-5-[55], p. 194; WzM: § 528, p. 291. 3. FP 1888-1889: 8-14-[168], p. 142; WzM: § 586, p. 329. 4. R. ARNHEIM, 1971: it. p. 13. 5. H. ADAMS, 1949: vol. I p. 186.