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La forza e la sua conservazione

I POTESI PER UN SISTEMA

3.3. Il mondo e le sue legg

3.3.5. La forza e la sua conservazione

Lo scritto fondamentale di Helmholtz rispetto al problema della conservazio- ne della forza è Ueber der Erhaltung der Kraft (1847), in cui il fisiologo tedesco cerca di elaborare una formulazione matematica del principio di conservazione dell’energia. Come ho già sottolineato, la teoria della conservazione dell’energia di Helmholtz prende origine dall’interesse per la fisiologia88e, in particolare,

dallo studio del problema del calore animale. Fondando la fisiologia su principi fisici, Helmholtz tenta di dimostrare che il calore animale e l’azione muscolare possono derivare dall’ossidazione dei cibi. In queste ricerche Helmholtz segue i lavori di Justus von Liebig (1803-1873) che, per parte sua, aveva già tentato di derivare alcuni fenomeni fisiologici da leggi fisiche e chimiche89. Le prove spe-

rimentali addotte da Liebig non erano poi così certe, tuttavia Helmholtz decise di accettarne i risultati, sostenendo che la respirazione costituirebbe di fatto l’unica fonte del calore animale e sottintendendo – come del resto faceva Liebig – il prin- cipio di costanza della forza90. Le forze naturali (questo è il punto che Helmholtz

intende dimostrare) possono trasformarsi le une nelle altre, ma non possono andare distrutte. Capita perciò che siano sottoposte a trasformazioni qualitative, ma quantitativamente non subiscono mai variazioni importanti.

Helmholtz prende l’avvio da un concetto tipico di Liebig (mentre, d’altro canto, rifiuta l’idea secondo cui agli organismi viventi apparterrebbero forze particolari, del tutto diverse rispetto a quelle presenti nel regno fisico), ovvero il concetto di forza vitale. Accanto al problema del calore animale Helmholtz si trova ad affrontare la questione delle forze che regolano la fisiologia degli organismi viventi attraverso l’apporto delle leggi di costanza. Poiché le forze vitali di Liebig avevano le stesse caratteristiche delle forze inorganiche – non possono cioè né nascere, né essere distrutte, ma soltanto subire una serie di tra- sformazioni qualitative –, Helmholtz sostiene che la teoria di Liebig si fonda- va sull’idea (in qualche modo postulata) della costanza della forza. Tuttavia, il principio della forza vitale si prestava ad una obiezione fondamentale: una forza vitale può essere considerata una forza che si autoperpetua e, dunque, non andare soggetta al principio di costanza. L’idea di Helmholtz era di dimostrare il principio della Erhaltung der Kraft attraverso un’indagine matematica delle quantità fisiche (esatte) che venivano conservate. In un tale panorama, il con- cetto di conservazione (o anche di costanza) della forza andava ad affiancare quello di indistruttibilità e di trasformabilità delle potenze naturali; in una paro- la, quello di conservazione dell’energia. Helmholtz sosteneva perciò sia l’idea della conversione delle forze (nella versione di Faraday e di Joule) sia la legge, definita matematicamente, della conservazione dell’energia91.

L’ontologia di von Helmholtz conservava dunque un forte accento meccanici- sta; si caratterizzava cioè per essere una ontologia della materia e delle forze asso- ciate ai corpi materiali. Anche a questo livello (e cioè nell’ambito della tematizza-

zione dell’idea di conservazione), è perciò interessante notare come Helmholtz non abbia mai inteso negare la realtà della materia. Ancora in questo senso, von Helmholtz si riferisce alla metafisica della natura di Kant: a differenza di Kant, la cui analisi della materia aveva avuto come finalità essenziale la ratificazione, in ambito speculativo, della fisica newtoniana (specialmente le leggi del moto e il concetto di gravitazione universale), il fisiologo tedesco intendeva dimostrare come le sue analisi delle forze di attrazione e repulsione applicate alla materia mostrassero la conformità della natura alle leggi della forza centrale newtonia- na92. Helmholtz derivò in pratica una forma generale del principio di conservazio-

ne della forza viva sostenendo che, per il moto di un corpo prodotto da una forza centrale emanante da un centro di forza dato, la variazione di forza viva era misu- rata dalla variazione della forza di tensione (che poi corrispondeva al prodotto del- l’intensità della forza centrale per la distanza tra il corpo e il centro di forza). Il principio di conservazione della forza93non esprimeva altro – un principio alla cui

base Helmholtz poneva due assunti: l’esistenza della materia e la supposizione che i moti dei corpi fossero determinati dalle leggi delle forze centrali – che la costan- za della somma della forza viva e della forza di tensione (dove per forza viva si intende ovviamente l’energia cinetica, mentre per forza di tensione l’energia potenziale, mentre il principio di conservazione della forza non è altro che una for- mulazione matematica della conservazione dell’energia).

Il dibattito sulla forza (il termine energia verrà introdotto solo più tardi, Helmholtz per esempio utilizza ancora il latino vis nelle sue differenti accezio- ni94) e sulla sua conservazione fu assolutamente centrale in tutto l’Ottocento, e

gli studi di von Helmholtz entrano a far parte di un panorama teorico che in realtà è assai più vasto e che proprio con questa sua complessità confluirà – come avrò modo di mostrare – nella teoria nietzschiana dell’eterno ritorno.

3.3.5.1. La termodinamica e le sue implicazioni filosofiche

A quest’altezza cercherò ora di riassumere rapidamente lo stato del dibattito in ambito fisico nel periodo in cui Nietzsche affronta questo genere di problemi. Anzitutto va sottolineato che la questione della conservazione della forza è uno dei temi centrali della fisica nell’Ottocento, sia per le implicazioni tecniche sottintese dai discorsi sulla termodinamica (macchine a vapore, ecc.), sia per i riflessi teori- ci95– elementi questi che trasposti al discorso filosofico hanno poi direttamente a

che fare con la costituzione di una cosmologia (oltre che di un’ontologia) ben pre- cisa. Si tratta dunque di un nucleo di problemi che, all’epoca in cui Nietzsche lavo- ra, erano mediamente diffusi e dibattuti. Un primo elemento che pertanto va dato come acquisito è che occuparsi (pure in modo abbastanza mediato come avverrà per Nietzsche) delle questioni della vis (che poi può diventare forza, energia o potenza) e della sua conservazione non era, in quel periodo, cosa inusuale, né era eccessiva- mente strano che avesse deciso di farlo proprio un filosofo come Nietzsche.

Il nucleo teorico intorno a cui si concretizzarono, almeno in prima battuta, le riflessioni in tema di termodinamica fu inizialmente uno scritto di Sadi Carnot (Réflexions sur la puissance motrice du feu, 1824)96: facendo riferi-

mento al tentativo del padre (Lazare Carnot) di elaborare una teoria generale capace di determinare la massima efficienza delle macchine, Sadi Carnot evi- denziò come una tale teoria fosse di estrema utilità per tutte le macchine termi- che, non soltanto quelle a vapore.

In breve, ciò che caratterizzava la posizione di Carnot era, ad un tempo, la sua adesione alla teoria del calorico, e l’assunzione (conseguente) secondo cui il calo- re97, nella produzione di lavoro attraverso macchine termiche, in definitiva si con-

serverebbe. Il modello della macchina a vapore in questo senso è fondamentale: Carnot osserva infatti che nella macchina a vapore il calore da solo non basta a generare lavoro; perché la macchina sia effettivamente in grado di funzionare è necessario che si determini al suo interno una sensibile differenza di temperatura98.

In questo senso Carnot immagina che la potenza motrice del calore dovesse avere origine dal flusso del calorico: confrontando infatti la caduta d’acqua in una mac- china idraulica con la caduta di calorico in una macchina termica, osservò che come la quantità di acqua si conserva nelle macchine idrauliche, così il calorico doveva conservarsi nelle macchine termiche. Nel descrivere questo principio gene- rale, Carnot dettagliò un ciclo di trasformazioni eseguite da una macchina ideale formata da un cilindro, un pistone e una sostanza che eseguiva lavoro (nello spe- cifico semplice aria presente nell’atmosfera) e due termostati mantenuti a tempe- rature diverse; la potenza motrice del calore era così prodotta dalla caduta del calo- rico tra i due termostati. In un ciclo di trasformazioni il gas veniva successivamen- te espanso e compresso, in modo tale che il calorico era trasferito, ad ogni ciclo, dal termostato caldo a quello freddo, con la conseguente produzione di lavoro mec- canico. Evidentemente il ciclo di Carnot99esprimeva un processo reversibile.

Sulla versione del principio elaborato da Carnot lavora in senso marcatamen- te matematico Emile Clapeyron (1799-1864), che rappresenta il ciclo di Carnot100 utilizzando un grafico pressione-volume. Proprio alla versione di

Clapeyron fecero riferimento sia Thomson sia Clausius. Nei primi lavori sulla termodinamica, pubblicati nel 1848-1849, Thomson avalla le idee di Carnot – che poi costituiscono anche i suoi presupposti di partenza – secondo cui, nella produzione di lavoro meccanico attraverso una macchina termica, la quantità di lavoro verrebbe conservata. Il problema per Thomson (ma anche l’elemento che consentirà l’ulteriore sviluppo delle sue ricerche) nasce dall’apparente conflitto tra le tesi sulla conservazione del calorico nella produzione di lavoro meccani- co avanzata da Carnot, e l’affermazione di Joule secondo cui tutte le volte che una macchina termica produce lavoro viene consumata una quantità di calore proporzionale al lavoro prodotto: «quando “l’azione termica” cessa, non deter- minando più la conduzione del calore attraverso il solido, che cosa ne è dell’ef- fetto meccanico che essa dovrebbe produrre? Nulla può essere perso nelle ope-

razioni della natura, nessuna energia può essere distrutta. Quale effetto viene dunque prodotto al posto dell’effetto meccanico che non si verifica?»101.

In qualche modo gli esperimenti di Joule sollevano dei dubbi sulle conclusio- ni di Carnot, mentre riaffermano un postulato teorico fondamentale: nulla può essere perso nelle operazioni della natura, nessuna energia può andare distrutta. Questa affermazione, che è però anche un’interrogazione almeno nella misura in cui pone il problema di cosa si verifichi al posto dell’effetto meccanico che in effetti sembra assente, esprime bene l’idea thomsoniana sulla difficoltà di conci- liare i risultati ottenuti da Joule sull’equivalenza tra calore e lavoro meccanico (posizione che negava la possibilità di una qualsiasi distruzione dell’energia) con il fenomeno della conduzione termica in cui il calore era dissipato nel passaggio attraverso un solido. L’idea di Joule pareva implicare che il calore speso nella conduzione avrebbe dovuto essere disponibile per produrre lavoro meccanico.

Thomson mette dunque molto bene in rilievo la tensione evidente tra le posizioni di Carnot e quelle di Joule, e, soprattutto, mette in dubbio lo status dell’assunzione della teoria del calorico di Carnot. In sostanza, dettaglia ed evi- denzia molte delle contraddizioni che permeano la termodinamica di quegli anni. Toccherà poi a Rudolf Clausius (1822-1888) cercare di aggirare questa

impasse teorica attraverso un saggio dal titolo Ueber die bewegende Kraft der Wärme (1850), in cui sostiene che gli esperimenti di Joule avrebbero dimostra-

to l’equivalenza tra calore e lavoro meccanico – inficiando per altro l’asserzio- ne di Carnot secondo cui, nella produzione di lavoro attraverso una macchina termica, non si verificherebbero mai perdite di calore.

Per Clausius la produzione di lavoro doveva derivare non solo da un cambia- mento della distribuzione del calore, ma anche dal consumo di calore; conclusio- ne che induceva a pensare che il calore in qualche modo poteva essere prodotto dal lavoro meccanico. La mediazione di Clausius fu nella sostanza largamente efficace: se infatti il principio fondamentale della teoria di Carnot sosteneva il passaggio del calore da un corpo più caldo a uno più freddo tutte le volte in cui un processo ciclico veniva prodotto dal lavoro, allora, su questa linea si afferma- va la necessità di operare una scelta tra le posizioni di Joule e quelle di Carnot. Anzi, Clausius era addirittura più radicale sostenendo che di fatto era possibile pensare di accettare questo assunto pur abbandonando l’idea di Carnot sulla man- cata diminuzione del calore durante il processo termico102. In questa forma

modificata (nel senso di essere sganciata dall’assunto della conservazione del calore), il principio fondamentale di Carnot diventa compatibile con la tesi di Joule secondo cui, tutte le volte che è prodotto del lavoro attraverso calore, viene di fatto consumata una quantità di calore proporzionale al lavoro generato.

Riassumendo, Clausius enuncia due principi fondamentali: 1. l’equivalenza tra calore e lavoro, 2. il principio che deriva la generazione di lavoro dal calore attraverso un processo ciclico, per cui, nel passaggio attraverso due livelli diffe- renti di temperatura, parte del calore viene convertito in lavoro e la quantità che

resta passa alla temperatura più bassa. Altra annotazione che consegue abbastan- za direttamente da quel che fin qui si è detto, e che per altro Clausius deriva dalle premesse già poste da Joule, è che l’equivalenza tra calore e lavoro porta a ipo- tizzare una natura ben precisa del calore: questo deriverebbe dal movimento delle particelle che formano i corpi (il che dimostrerebbe come la tendenza del calore sia in fondo sempre quella di passare dai corpi più caldi a quelli più freddi).

Com’è evidente si tratta delle due leggi della termodinamica, a cui lavorerà Thomson (coadiuvato dagli studi di W.J. Macquorn Rankine (1820-1872), che aveva sviluppato un’ipotesi basata sui vortici molecolari)103.

Nella prima stesura di On the Dynamical Theory of Heat (1851), Thomson, tracciando le linee fondamentali della termodinamica, sottolinea l’importanza del problema dell’irreversibilità: accettando le tesi di Joule a proposito dell’e- quivalenza e della mutua convertibilità di calore e lavoro, sostiene che Joule aveva già tratto le conseguenze di questa posizione, cioè: «che il calore non è una sostanza ma uno stato di moto»104. La conseguenza teorica di tutto ciò è

evidente e importante: il lavoro che può essere prodotto dal calore consumato nella conduzione attraverso un corpo solido non va perso, bensì trasformato in energia; e più precisamente nell’energia che produce il moto delle particelle (non osservabili) dei corpi. Benché non possa più essere recuperato, il calore è comunque trasformato o dissipato, ma non va né perso né distrutto. Il fenome- no della irreversibilità conferma in pratica la direzionalità del flusso di calore che, come si è visto, passa dai corpi più caldi a quelli più freddi; il calore non viene conservato nelle macchine termiche, come Carnot sembrava pensare, ma dissipato o convertito in lavoro (si tratta evidentemente del processo – noto come direzionalità – in cui parte del calore viene dissipato senza che possa pro- durre lavoro, pur non andando perso). Nell’ottica thomsoniana le due leggi della termodinamica che esprimono l’indistruttibilità e la dissipazione dell’e- nergia, non sono in contrasto dato che l’energia dissipata non viene distrutta, ma, semplicemente, non è ulteriormente recuperabile.

Come si vede, ci si avvia gradualmente a considerare l’energia (per altro affiancandola alla materia) come il concetto centrale della fisica moderna; soprattutto, è ovvio, in forza della sua diffusissima applicabilità. Questa cen- tralità le deriva certamente dalla sua convertibilità, particolarmente indicata per svolgere un ruolo unificante rispetto ai principali fenomeni fisici sogget- ti a trasformazioni energetiche. Rankine si incaricherà di sistematizzare e approfondire questi problemi in una serie di saggi che vanno dal 1852 al 1855 e che mettono in rilievo come i diversi tipi di energia (potenziale e reale) siano reciprocamente convertibili; l’energia reale, attraverso un cam- biamento di stato della sostanza, può scomparire e trasformarsi in energia potenziale, mentre con una inversione del processo, si può parlare di scom- parsa dell’energia potenziale e ricomparsa della energia reale. Ecco allora la legge generale della trasformazione dell’energia: «la legge della conservazio-

ne dell’energia è già nota, cioè che la somma dell’energia reale [cinetica] e potenziale nell’universo è immutabile»105.

Ora come si può facilmente intuire da quanto detto, i modelli teorici di Thomson e di Rankine operano in una direzione che consente di prescindere da qualsiasi ipotesi sulla natura della materia. In pratica, non è più necessario dispor- re di un modello molecolare particolare dal momento che lavorando sull’energia si lavorava sull’elemento comune a differenti stati della materia; con la conse- guenza, importantissima, che le leggi generali dell’energia dovevano essere appli- cabili a tutti i rami della fisica. In pratica, si procedeva a ridefinire il significato e l’utilizzo di parte di quella terminologia che la fisica utilizzava già da tempo senza troppa precisione: si tentava cioè di fare a meno della materia – non perché se ne mettesse in dubbio l’esistenza, ma perché era difficile darne una definizione rigo- rosa a livello molecolare – e si provava a differenziare la forza, che ancora per Boscovich (supra, § 3.3.3) era un concetto fondamentale, dall’energia.

Per circa un secolo la legge della conservazione della vis viva era stata uno dei principi essenziali della meccanica newtoniana, e il suo utilizzo era stato programmaticamente e consapevolmente distinto dalla versione che della forza aveva dato Newton nelle leggi del moto. Come si è accennato, Helmholtz aveva teorizzato il principio della conservazione della forza come una generalizzazio- ne del principio di conservazione della forza viva. La dottrina della convertibi- lità delle potenze naturali o indistruttibilità delle forze aveva tentato di formula- re un concetto di equilibrio tra agenti naturali, senza che però gli studiosi fosse- ro riusciti a formulare una precisa definizione del tipo di equivalenza quantita- tiva considerata. A colmare quella che aveva tutta l’aria di essere una vera e pro- pria lacuna teorico-sperimentale intervenne il lavoro di Joule che, di fatto, for- niva una misura quantitativa della relazione esistente tra le potenze naturali. Inoltre, i principi matematici della teoria della conservazione dell’energia, di cui si era occupato Helmholtz, avevano posto in rilievo la problematicità della nozione di indistruttibilità (o di costanza) della forza, e, di conseguenza, l’am- biguità del termine forza per indicare quantità fisiche conservate.

La sostituzione della forza con l’energia va letta proprio come il tentativo di evitare confusioni terminologiche e concettuali, dato che al termine energia si rimetteva il compito di unificare (attraverso le varie forme di energia meccani- ca) l’intero mondo fenomenico. Per questo i fisici che negli anni cinquanta sostennero il carattere preminente del concetto di energia (su tutti Helmholtz, Thomson, Rankine e Maxwell) operarono per rimuovere dalla fisica le nozio- ni di conversione e conservazione della forza che, matematicamente, erano del tutto insostenibili. Mentre, al contrario, la legge della conservazione dell’ener- gia era considerata chiara, matematicamente coerente e sperimentalmente fon- data dalle ricerche di Joule sull’equivalenza tra calore e lavoro.

Fu Clausius, in un lavoro del 1865, a parlare per primo di entropia per spie- gare la tendenza del calore a passare dai corpi più caldi a quelli più freddi106. In

questo senso l’entropia finisce dunque per essere l’indicazione di una ben pre- cisa direzionalità dei fenomeni fisici: mentre infatti la prima legge della termo- dinamica esprime la conservazione dell’energia nell’universo, la seconda indi- ca la dissipazione dell’energia, descritta come una tendenza all’aumento del- l’entropia nei processi fisici. Per cui, con Clausius, le due leggi della termodi- namica possono essere espresse grosso modo in questi termini: «l’energia del- l’universo è costante» e «l’entropia dell’universo tende a un massimo»107.

Clausius adotta il termine energia introdotto da Thomson, e la sua nuova formulazione delle leggi della termodinamica indubbiamente fa uso sia del concetto di energia sia dei concetti di conservazione e dissipazione. In questo modo l’irreversibilità diventa una delle caratteristiche fondamentali della natu- ra, e in seconda battuta delle indagini fisiche sulla configurazione molecolare.