I POTESI PER UN SISTEMA
3.2. Lotta e conflitto nell’evoluzione dei vivent
Cominciamo perciò col domandarci quale fosse la situazione (per ciò che concerne metodologia e risultati), delle scienze alle soglie dell’Ottocento. Mi sembra opportuno prendere l’avvio dalla biologia per una serie di ragioni che toccano tanto lo specifico della speculazione nietzschiana (spesso Nietzsche è stato tacciato di biologismo, vedremo meglio in seguito in che senso) quan- to la storia della scienza.
L’Ottocento, com’è noto, fu il secolo della biologia. Il termine «biologia» apparve per la prima volta nella nota di una pubblicazione medica poco cono- sciuta, ma la risonanza più ampia arriva con i trattati del naturalista Gottfried Treviranus e del botanico francese (poi anche zoologo) Jean Baptiste de Lamarck. La nuova parola divenne di utilizzo corrente nella lingua inglese a partire dal 1820.
La nuova scienza nelle definizioni di Treviranus e di Lamarck esclude dai suoi interessi specifici la tradizionale storia naturale. Come noterà anche William Lawrence, un importante fisiologo inglese, dato che dal punto di vista descrittivo si era oramai fatto molto, si trattava in questa fase di utilizzare i dati raccolti dai naturalisti, per arrivare a delineare la struttura generale delle orga- nizzazioni animali e vegetali; il tutto sostenuto dalla consapevolezza che, di fatto, non era più possibile prescindere da osservazioni ed esperimenti6.
Date le premesse una prima conseguenza è in qualche modo obbligata: lo stu- dioso di biologia, ancora alle soglie del diciannovesimo secolo, era per lo più abi- tuato a immaginare il futuro sulla base degli elementi forniti dal passato. Diciamo subito che nel corso del diciannovesimo secolo due punti di vista teorici giunsero a opporsi in senso frontale: da un lato, venne riproposta la spiegazione storica, che mantenne ferma l’idea dell’immutabilità della natura – date le cause, gli effetti dovranno discendere con regolare necessità. I principi fondamentali della posizio- ne storica vennero esemplificati esaurientemente dallo sviluppo della linguistica comparata che ottenne risultati considerevoli, utili anche all’approfondimento delle scienze biologiche. Nel Settecento gli studiosi del linguaggio erano dell’idea che il pensiero fosse prima di tutto un calcolo di idee; da questo presupposto, attraverso l’analisi delle parole, tentarono di stabilire una sorta di grammatica universale, eter- na e immutabile, introducendo qualcosa di simile a degli apriori che regolerebbero alcuni processi tipici (per esempio quelli psicologici) indipendentemente da appar- tenenze culturali o razziali.
Le implicazioni sottese da quest’idea erano molte, ma la conseguenza prin- cipale, quella che doveva inevitabilmente portare al tramonto dell’approccio storicista, era probabilmente tutta nella difficoltà di trovare una ragione ade- guata al complesso dinamismo dei cambiamenti naturali. Anche per questi motivi la spiegazione storica andò gradualmente perdendo di importanza e di forza: per una quantità sempre maggiore di studiosi, l’aspetto fondamentale
non concerneva più (o almeno non solo) la ricostruzione genealogica delle ori- gini della vita; piuttosto la scienza avrebbe dovuto prendere ad occuparsi con maggior attenzione e rigore di fisiologia7, oltre che della struttura e del funzio-
namento degli organismi sia vegetali sia animali.
È in quest’ottica che cominciano a sorgere tutta una serie di interessanti que- stioni, la cui risoluzione dipende sempre più esplicitamente da verifiche di labora- torio e dall’utilizzo di nuove tecnologie – per esempio, incomincia a venire in chia- ro la natura dell’impulso nervoso, si traggono le prime conclusioni sull’integrità comportamentale degli organismi, viene risolto il mistero del calore animale, e si gettano le basi per analizzare le relazioni energetiche della vita. Si scoprono anche nuovi agenti chimici, espressi fisiologicamente in termini di secrezioni interne che aiutano il sistema nervoso a controllare il funzionamento armonico dell’organi- smo. E l’elenco delle nuove scoperte potrebbe proseguire ancora a lungo.
Tra i fattori che determinarono uno sviluppo tanto dinamico di alcune scienze bisogna certamente ricordare l’elaborazione, che avvenne in questo giro d’anni, di una nuova metodologia delle scienze biologiche. Dietro la varietà e la quantità di vitalismi e meccanicismi che caratterizzavano il pensiero biologico di tutto l’Ottocento rimaneva un obiettivo comune: arrivare a determinare (per quanto possibile) quale dovesse essere il fondamento o l’essenza della vita. Dunque, il tramite della vita fisica (il funzionamento degli organismi) doveva servire anzitut- to per ricostruire il significato (questa volta non solamente fisico) della vita.
Verso la metà dell’Ottocento – proprio all’apice dello scontro tra le diverse tendenze – emerse più chiara l’esigenza di fare della biologia una scienza rigoro- sa e sperimentale. Non è però da concludere che tale attenzione per lo sperimen- talismo applicato alla ricerca scientifica escludesse del tutto la metafisica. In ter- mini schematici: la sperimentazione era soprattutto (e per lo più) una questione di manipolazione, e anziché strutturarsi come un vero e proprio approccio teori- co tendeva a presentarsi come una vera e propria metodologia. Moltissimi speri- mentalisti erano infatti ancora legati a (pre)giudizi metafisici che, in larga parte, non mancavano di orientare anche le direzioni delle loro ricerche. A grandi linee, si può dire che il dibattito biologico-filosofico andò organizzandosi soprattutto intorno a tematiche embriologiche: in sintesi, preformazione versus epigenesi. I sostenitori della preformazione ipotizzavano l’esistenza, l’integrità funzionale e strutturale dell’organismo fin dalla sua fase iniziale. In questa prospettiva, l’em- brione era perfettamente predeterminato fin dalla sua origine, e nel tempo attra- versava una fase di crescita e di sviluppo. Ovviamente tale approccio rimetteva ogni questione a problemi di nutrizione, chiamando spesso in causa ipotetiche forze fisiologiche incaricate di distribuire particelle di nutrimento alle diverse parti dell’organismo in via di sviluppo. I preformisti del diciottesimo secolo uti- lizzavano ampiamente il modello newtoniano, ritenendo (a grandi linee) che le leggi che controllano e scandiscono il funzionamento dell’universo e degli orga- nismi viventi, sono il prodotto della saggezza divina. In questo senso, visto che
l’esistenza delle creature era completamente rimessa a una causa prima, tutti gli eventi successivi alla creazione di un singolo organismo (ad esempio la sua cre- scita) dovevano essere riportati a leggi meccaniche.
Per l’epigenesi le difficoltà erano senz’altro maggiori. Il primo problema coincideva con l’impossibilità di postulare l’esistenza originaria degli organi- smi; tutto ciò che poteva essere fatto in questa prospettiva era ipotizzare, per tra- mite della trasformazione, una reale produzione degli organismi viventi. Che dire, per esempio, dell’uovo fecondato che, come ben sapevano i sostenitori del- l’epigenesi, è privo di strutture e produce, del tutto indipendentemente, una sequenza notevole di trasformazioni? La questione centrale diventa allora più o meno questa: se la forma organica non è originaria ma prodotta, cosa può giusti- ficare la regolarità e la teleologia di uno sviluppo così complesso? Una doman- da strutturata in questi termini finiva, nel complesso, per facilitare l’idea di una forza particolare che sovrintende e regola lo sviluppo. Questa forza agirebbe incessantemente sull’embrione assicurandogli la progressione verso la forma adulta, dunque verso la sua meta. Per riassumere, si era in presenza dell’idea di una forza dello sviluppo attiva, interna e comune a tutti gli esseri viventi.
Nel 1759 Casper Friedrich Wolff aveva parlato di una forza essenziale cono- sciuta semplicemente dagli effetti, e capace di dare ragione dello sviluppo delle varie parti del corpo. In opposizione a Wolff, Karl Ernst von Baer (1792-1876), uno dei più importanti biologi comparativisti del diciannovesimo secolo, nonché sostenitore del pensiero epigenetico, era dell’idea che soltanto l’essenza (e non il meccanicismo) della forma animale in via di sviluppo poteva essere in grado di controllare l’evoluzione dell’uovo fecondato. Le questioni sottolineate da Wolff e von Baer rimandavano, pur nella disomogeneità dei principi, a un problema meta- fisico comune: era necessario elaborare una soluzione non meccanicistica dello sviluppo organico, basata ove possibile sulle specifiche peculiarità degli organismi.
Come è facile immaginare, le ricerche sull’embriologia erano strettamente correlate a quelle sull’evoluzione, in una prospettiva in cui l’ontogenesi appa- re la breve e rapida ricapitolazione della filogenesi. Ernest Haeckel riassume- va questo percorso dando corpo all’idea secondo cui il corso dello sviluppo individuale (ontogenesi) soprattutto nelle forme di vita più elevate, ripeterebbe e riassumerebbe gli stadi progressivi della storia della vita sulla terra (filogene- si). È più o meno in questa forma che la teoria della ricapitolazione viene ad assumere un ruolo decisivo nelle riflessioni evoluzioniste post-darwiniane. In realtà, le radici teoriche alla base della teoria della ricapitolazione sono con tutta evidenza nelle riflessioni metafisiche e talvolta anche (in senso lato) bio- logiche dei Naturphilosophen tedeschi dell’epoca romantica, che sostenevano con vigore l’idea dell’identità tra forze della natura.
Discorsi di questo tipo pur all’interno di una evidente oscurità di fondo, mostravano bene quale fosse il locus commune di questo genere di ricerche: se si ammette un’idea unitaria della natura, bisogna riconoscerne la causa in una
forza dello sviluppo anch’essa non divisibile, le cui manifestazioni, proprio per questa ragione, non potranno che presentare numerose somiglianze. Trasposto in termini biologici questo ragionamento aveva come importante conseguenza l’idea di uno sviluppo in genere omogeneo della realtà naturale.
Già nel corso del Settecento l’idea di una forza di sviluppo comune aveva suggerito di unificare, in un percorso parallelo, gli stadi (discussi e per altro molto incerti) dello sviluppo. Questa idea venne poi ulteriormente definita e chiarita dopo il diciannovesimo secolo, raggiungendo un’effettiva maturità durante il terzo decennio dell’Ottocento, negli scritti di Johann Friedrich Meckel e dell’anatomista francese Etienne Serres. Meckel, in particolare, era dell’idea che la materia organica fosse caratterizzata dalla tendenza ad evolver- si verso più complessi stadi di organizzazione, attraverso stati intermedi di svi- luppo. Siamo alle soglie della dottrina della ricapitolazione che impose, in que- sti anni, una fragile unità teorica all’embriologia del diciannovesimo secolo.
La spiegazione storica, che per lo più faceva uso dell’embriologia descrittiva e comparata, si era progressivamente rivelata insufficiente per la comprensione dello sviluppo individuale, perciò, con frequenza sempre maggiore, gli studiosi incominciarono a fare ricorso all’analisi dei fattori causali, anche e soprattutto attraverso l’utilizzo delle nuove conoscenze di fisica e di chimica che erano state completamente trascurate dai morfologi. Wilhelm His8 (1831-1904), celebre
anatomista, fu tra i primi a notare come tanto gli interessi quanto i metodi della filogenetica erano di fatto del tutto differenti rispetto a quelli dell’embriologia fisiologica. Tuttavia, il programma di His per la formazione di una morfologia fisiologica venne disatteso almeno fino alla metà degli anni ottanta quando inter- venne, a completare queste ricerche, Wilhelm Roux (1850-1924). Allievo di Carl Gegenbaur, Ernst Haeckel e Rudolf Virchow, Roux è considerato il fondatore della ricerca sperimentale e morfologico-causale sullo sviluppo, a cui, nel 1884, diede il nome di «meccanica dello sviluppo». Il contesto scientifico in cui Roux si forma è estremamente indicativo rispetto allo stato della ricerca scientifico- biologica del diciannovesimo secolo: nella facoltà di medicina studia sotto la spe- cifica guida del giovane anatomista Gustav Albert Schwalbe9, di cui è visibile
l’influenza nei lavori del periodo di Jena (1871-1878)10 soprattutto in tema di
interazione meccanica tra crescita e struttura.
Sempre nello stesso giro d’anni lavora, a Jena, Ernst Haeckel (1834-1919) che dovette segnare profondamente con i suoi studi (soprattutto la Generelle
Morphologie der Organismen11) la direzione delle ricerche di Roux. Il lavoro
di Haeckel12offriva una sintesi delle più recenti acquisizioni in anatomia, cito-
logia, embriologia e nel complesso panorama delle teorie della evoluzione; il tutto sotto l’egida di una prospettiva decisamente monista. Haeckel, era dun- que uno studioso di morfologia, che aveva un’idea ben precisa del mondo natu- rale: si trattava – dal suo punto di vista – di una realtà dominata dalla fisica e dalla chimica, dunque un mondo di materia e di forze; per questo, per compren-
derlo, la biologia avrebbe dovuto lasciarsi alle spalle qualsiasi approccio di tipo vitalista o teleologico.
Haeckel riteneva che la composizione fisica e biologica dell’universo avesse a che fare con gli elementi chimici allora conosciuti, combinati, a loro volta, dall’a- zione dell’etere. Atomi ed etere sarebbero regolati nei loro movimenti dalle leggi della meccanica classica (impenetrabilità e indivisibilità): gli atomi chimici sareb- bero regolati da una forza di attrazione reciproca, mentre il movimento dei più pic- coli atomi di etere sarebbe scandito da una forza repulsiva. L’azione reciproca di queste forze sarebbe poi alla base del continuo e incessante movimento dell’uni- verso. Da ciò Haeckel derivava l’idea secondo cui tutte le differenze riscontrabili in natura (in una scala che andava dall’inorganico alla psiche umana), erano nella sostanza una conseguenza fondamentale del binomio Stoff e Kraft; non solo: Haeckel si spingeva tanto avanti da considerare perfino Dio come la somma di tutte le forze e di tutte le materie presenti nell’universo13. Questo genere di anno-
tazioni avrà una vasta eco in alcuni dei più importanti lavori di Roux14.
Il terzo insegnante del periodo jenese che determinò profondamente la direzio- ne della ricerche di Roux, fu un giovane fisiologo, Wilhelm Preyer (1842-1897); entusiasta degli studi di von Helmholtz, Du Bois-Reymond e Darwin, e autore di importanti lavori sull’emoglobina, la visione dei colori, il sonno, e la psiche umana. Lo scritto da cui Roux trasse i suggerimenti più importanti fu quasi certa- mente un lavoro sulla fisiologia dello sviluppo, in cui Preyer critica l’approccio (classico) di quei fisiologi che in buona sostanza si erano concentrati quasi esclu- sivamente sugli organismi adulti, tralasciando la ricerca sugli embrioni15.
Ovviamente un discorso sulla fisiologia degli embrioni non poteva trascurare di affrontare i problemi, evidentemente connessi, dell’ereditarietà e dell’evoluzione. Nella prospettiva di Roux la biologia è perciò certamente aperta ad accogliere le innovazioni apportate dalla fisica e dalla chimica e, soprattutto, è sempre più attratta alla ricostruzione di quella che potremmo definire un’archeologia del sog- getto, rivolta in senso biologico piuttosto che coscienziale e psicologico. Fin dagli inizi della loro attività embriologi come His e Roux tentarono di trarre vantaggio dall’apporto delle scienze fisiche e chimiche; Roux, in particolare, se da un lato riconosce l’esistenza di componenti complesse alla base di molti processi dello sviluppo, dall’altro si sforza di ricondurre ciascun cambiamento organico a una particolare combinazione di energie. Nella sua prospettiva, l’organismo in via di sviluppo diventa un vero e proprio sistema fisico sottoponibile (in maniera analo- ga a qualsiasi altra struttura fisica) a una precisa serie di analisi fisico/chimiche.
Già l’anno prima dello scritto del 1881, Roux aveva elaborato una serie di definizioni fondamentali che avrebbero guidato le ricerche di tutta la bio-morfo- logia successiva. Prima di Roux, l’anatomia si era concentrata (o, per altri versi, limitata) a un lavoro di catalogazione e di descrizione delle più disparate confor- mazioni organiche. Con Roux l’orientamento e lo standard delle ricerche muta radicalmente: il biologo tedesco lavora al completamento della teoria dell’evolu-
zione fondata da Darwin e Wallance, estendendo (o cercando di estendere) il principio della selezione naturale anche alla costituzione interna degli organismi – per fare un esempio: le molteplici differenze che si riscontrano nella struttura delle pareti dei vasi sanguigni, non possono essere spiegate semplicemente uti- lizzando l’idea delle variazioni fortuite conservate e tramandate nella specie nel- l’economia della lotta per l’esistenza16. Se i ricercatori – prosegue Roux – non
vogliono ricadere in quella teleologia che Darwin era riuscito a mettere da parte (ma su questo punto torneremo fra poco), è necessario partire dall’ipotesi di una autoregolazione e di un’auto-differenziazione interna degli organismi, guidata dai processi di adattamento funzionale17. Quel che Roux intende, nel caso speci-
fico della circolazione sanguigna, è abbastanza semplice: l’evoluzione dei vasi sanguigni è condizionata dal fattivo scorrere del sangue. In breve: esisterebbe un condizionamento reciproco tra le differenti parti che compongono l’organismo; e questo condizionamento determinerebbe anche il senso e la direzione dello svi- luppo dell’intera struttura corporea18. Considerata più nel dettaglio, possiamo
leggere questa situazione come una lotta fra le parti che compongono gli organi- smi viventi; concetto questo che sicuramente Roux mutua da Darwin, anche se poi lo utilizza per spiegare i processi selettivi interni19richiamandosi, a differen-
za di Darwin, a radici filosofiche lontane (Eraclito ed Empedocle su tutti). La lotta dunque, nella prospettiva di Roux, è assolutamente fondamentale e si sviluppa nell’ambito di una tensione di natura squisitamente meccanica. Soprattutto, il biologo tedesco di fatto associa i meccanismi di tensione alle com- ponenti cellulari (Molekel) del periodo dello sviluppo20: le cellule che durante il
ricambio organico riescono ad assimilare più velocemente (rigenerandosi in minor tempo), si sviluppano con più forza rispetto a cellule magari analoghe, ma dotate di una minore capacità di assimilazione. In questo modo le cellule del primo tipo sottrarranno spazio (in senso propriamente fisico) alle seconde. Con il proseguo del processo poi, le cellule del secondo tipo vedranno gradualmente ridursi lo spazio a loro disposizione, non potendo, alla fine, che scomparire.
Un procedimento analogo varrà nella lotta per il nutrimento: in caso di carenza di risorse nutritive avranno la meglio le cellule dotate di capacità di rigenerazione maggiore. Il terzo tipo di lotta è invece interno alla cellula, e riguarda le mutazioni più tarde che, generalmente, distruggono o assimilano i primitivi elementi dello sviluppo.
Il quadro complessivo che Roux può costruire su queste premesse è tutto sommato abbastanza logico: egli condivide con Goethe e Virchow l’idea che gli individui siano soprattutto molteplicità e lotta interna (e cioè lotta di alcuni istinti su altri), un po’ sul modello delle società aristocratiche, in cui la dispa- rità delle parti in gioco contribuisce comunque al funzionamento e alla costitu- zione dell’intero organismo21.
Le ricerche di Roux consentono a Nietzsche (come vedremo meglio più oltre) di estendere l’idea della lotta all’organizzazione biologica, sviluppando
quella prospettiva del conflitto che l’evoluzionismo aveva già esteso al proble- ma dell’origine delle specie.
Riflettendo sulla situazione complessiva delle scienze biologiche del dician- novesimo secolo è possibile rilevare un elemento che accomuna i vari livelli della ricerca di questi anni: in qualche modo, sia che si ragioni di microbiolo- gia (come nel caso di Roux), sia che si sviluppino problemi di archeologia della specie (come di fatto fece Darwin), il denominatore comune è sicuramente dato dalla generalizzazione dell’idea di conflitto.
Mentre infatti Roux aveva portato il conflitto nell’organismo cellulare (le varie parti che formano la cellula entrano in competizione per assicurarsi il domi- nio sull’intero), Darwin lo porta non solo nell’ambito dell’organizzazione socia- le, ma addirittura all’interno della struttura della specie. Il filo rosso che lega dun- que (anche nel personale percorso di ricerca di Nietzsche) Roux e Darwin consi- ste proprio nell’adozione del conflitto e della lotta quali criteri interpretativi essenziali per spiegare la vita nei diversi aspetti onto e filogenetici.
Com’è noto, Darwin pubblica il suo lavoro fondamentale (L’Origine della
Specie) nel 1859; ma gli inizi degli studi scientifici sull’origine dell’uomo
risalgono almeno a quarant’anni prima, cioè ai lavori del primo dei trasformi- sti sistematici: Jean Baptiste de Lamarck, il quale, per parte sua, aveva già par- lato di un’origine naturale dell’uomo. Comunemente si ritiene che la quasi totalità delle reazioni all’uscita dell’Origine siano state pesantemente negative; in realtà, un’occhiata alle prese di posizione della stampa più autorevole, mostra bene come il lavoro di Darwin abbia suscitato una quantità di risposte veramente articolate e difformi22. Si andava da un rifiuto pressoché totale delle
teorie evoluzionistiche, a una loro parziale o a volte totale accettazione. Molti tra coloro i quali erano di fatto preparati ad accettare l’evoluzione in ambito naturale (animale e vegetale), per lo più non intendevano ampliare la teoria a comprendere l’uomo. Riguardo agli esseri umani possiamo probabil- mente distinguere tre posizioni essenziali: la prima, la creazione separata, con- cerneva l’essere umano nella sua interezza (corpo e anima) creato indipenden- temente dalla restante parte del mondo organico. La seconda, la cosiddetta creazione mentale, si basava sull’idea che il corpo umano si sarebbe evoluto alla stessa maniera di quello degli animali inferiori, mentre l’anima sarebbe