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Per una estetica generale

N IETZSCHE : I SUOI INTERPRETI , LE LORO RAGION

4. M H EIDEGGER , 1961; W K AUFMANN , 1950.

2.1. Due anime, due stil

2.1.4. Per una estetica generale

Consideriamo per un momento un fatto. La storiografia che si interessa di estetica, o, meglio, dello statuto disciplinare e teorico dell’estetica, si interroga costantemente su di una serie di questioni che investono due problemi fonda- mentali: ovvero che cos’è, e quando nasce, l’estetica filosofica. Il dato è sin- golare per almeno due ordini di ragioni: in primo luogo perché si tratta di que- stioni riproposte con puntualità quasi ossessiva a manifestare, probabilmente, una reale urgenza degli studiosi di estetica che, per ragioni diverse, hanno con- tinua necessità di ridefinire gli ambiti dei loro interessi disciplinari.

L’altro dato, che dovrebbe indurci a riflettere è grossomodo questo: l’esteti- ca è probabilmente la disciplina che più lavora al continuo ripensamento della sua propria identità teorica. Per intenderci: nessuno si sognerebbe mai di porre le stesse, reiterate domande alla filosofia morale o teoretica. Quali sono le ragioni di questa situazione per molti aspetti del tutto particolare?

2.1.4.1. Una divagazione storica

Ovviamente, anche in questo caso, possiamo abbozzare risposte di tipo diverso. Per esempio, si potrebbe pensare che, essendo l’estetica una discipli- na particolarmente vivace, ha costantemente bisogno di ridefinire se stessa alla luce dei propri sviluppi. Il che è certamente vero. Tuttavia, non si tratta del tipo

di risposta che mi interessa in questa sede, dato che uno sguardo un po’ più arti- colato – e storiograficamente avvertito – probabilmente può dirci cose più significative. Aprirò perciò una parentesi di carattere storiografico, nella quale mi domanderò se questi continui ripensamenti disciplinari che investono l’este- tica non giovino in qualche misura anche ad una riconsiderazione più articola- ta del pensiero nietzschiano.

Certamente nel caso dell’estetica abbiamo a che fare con una strana singo- larità, che determina costantemente e profondamente lo statuto della discipli- na; e cioè il nome estetica nasce in realtà molto tempo dopo (com’è noto lo conia Baumgarten) rispetto alla concreta pratica disciplinare e filosofica (già viva, per esempio, con i Greci). Il che ha fatto sorgere la legittima questione sul merito della «cosa» che chiamiamo estetica; ovvero, e per sintetizzare, ci si domanda se l’estetica sia quella di Baumgarten (scienza della conoscenza sen-

sibile perfetta), oppure quella testimoniata dalla sua storia, attraverso le tappe

più diverse (per esempio a partire dai Greci, e poi giù fino a Plotino, Boezio, Scoto Eriugena e poi Ficino, Leon Battista Alberti, Gravina, e ancora, Kant, Hutcheson, Addison, Home, fino agli ultimi cento anni, in cui, se possibile, l’este- tica si è legata ancora di più ad altre discipline – una per tutte la psicologia – rendendo la sua identità scientifica per molti versi ancora più complessa).

La particolarità di questo elenco non è nei nomi; casomai, è tutta nell’etero- geneità delle teorie estetiche (sintomo di una difformità essenziale anche nelle metodologie d’indagine) che si celano appunto dietro ai nomi, come ben segna- la W. Tatarkiewicz50. Lo studioso polacco rileva certo una difficoltà immanen-

te all’estetica, tuttavia, a ben guardare, indica, già a livello storiografico, una via per uscirne. Mi si perdoni una citazione un po’ estesa:

Cognitio æsthetica. Nei secoli passati persino chi si interessava dell’esperienza

estetica non la chiamava così: il nome è posteriore, addirittura di gran lunga poste- riore al concetto. […] L’aggettivo “estetico” è ovviamente di origine greca. I Greci si servivano dell’espressione a‡sqhsij, denotante un’impressione sensoriale, in coppia con l’espressione nÒhsij denotante il pensiero. Usavano entrambi i termini anche in forma aggettivale: a„sqhtikÒj e nohtikÒj, ossia sensibile e intellettuale. In latino, soprattutto in quello medievale, i corrispettivi di questi termini erano sen-

satio e intellectus, sensitivus e intellectivus; e sensitivus talvolta veniva detto, dal

greco, æstheticus. Tutti questi termini erano usati nella filosofia antica e medieva- le, tuttavia nei discorsi sul bello, sull’arte e sulle esperienze a ciò connesse, il ter- mine “estetico” non era usato. […] Alla metà del Settecento, in Germania, uno dei filosofi della scuola di Leibniz e Wolff, Alexander Baumgarten, mantenendo l’anti- ca distinzione della conoscenza in sensibile e intellettuale, cognitio intellectiva e

sensitiva, le diede però una nuova, sorprendente, interpretazione: ossia identificò la cognitio sensitiva, la conoscenza sensibile, con la conoscenza del bello e chiamò il

settore della filosofia che indaga la conoscenza del bello con il termine greco-lati- no cognitio æsthetica. Fu allora che, dal latino moderno, entrò a far parte delle lin- gue moderne il sostantivo “estetica” e l’aggettivo “estetico”51.

Così Tatarkiewicz. Restiamo ancora un momento alla citazione. Tatarkiewicz sottolinea alcune cose: 1. esiste una discrasia tra il nome (estetica), il relativo concetto (nel senso che, come si è già rilevato, il nome è posteriore al concetto) e la concreta pratica estetica. In sostanza: si comincia a “fare estetica” (si pensi per esempio a Platone) senza che ancora se ne utilizzi il termine. 2a. Il lemma ha evidenti origini greche, dato che condivide la radice tematica con l’a‡sqhsij degli antichi. 2b. I greci, poi, avevano dell’a‡sqhsij un concetto (di qui un uti- lizzo) ben preciso; per loro infatti il termine denota essenzialmente un’impressio- ne sensoriale, che ha nella nÒhsij il naturale correlato semantico. È altresì evi- dente, 2c., che la correlazione tra a‡sqhsij e nÒhsij presuppone già la suddivi- sione del processo conoscitivo in due momenti differenti e essenziali: l’uno che si rivolge agli a‡sqhta, l’altro ai no»mata. 3. Il latino medievale continua a mantenere ferma tale distinzione (che, lo abbiamo visto, è una distinzione di sostanza oltre che di linguaggio – cioè si riferisce a cose ben precise); mentre, 4., la svolta (ammesso che di una svolta effettivamente si tratti) sarebbe arrivata sol- tanto con Baumgarten che, utilizzando l’antica distinzione tra cognitio intellecti-

va e sensitiva, prende ad associare la cognitio sensitiva allo studio del bello.

Ora, le domande da porsi a quest’altezza sono essenzialmente due: in primo luogo se l’operazione di Baumgarten segni davvero una rottura tanto eviden- te rispetto alle acquisizioni precedenti; e poi, in secondo luogo, se il senso della riflessione baumgarteniana sia effettivamente tutto nell’aver associato la

cognitio sensibile alla bellezza.

Partiamo dal secondo punto. L’operazione di Baumgarten, soprattutto in sede squisitamente teorica, non è per nulla riducibile all’ottimizzazione delle tecniche poetiche e critiche già in uso nella seconda metà del Settecento; piut- tosto, investe la costituzione dell’estetica come parte integrante della metodo- logia e della gnoseologia, cioè della logica intesa in senso lato52. Riflettiamo

ora un istante. Nelle Meditationes philosophicae de nonnullis ad poema perti-

nentibus (1735), com’è noto, Baumgarten chiama estetica la scienza della

conoscenza sensibile, articolando un approccio che troverà compiuta formula- zione nella sua famosa Aesthetica (1750-1758). Il lavoro baumgarteniano per molti versi è tipico del periodo: l’estetica di Baumgarten infatti si occupa del

modo in cui le sensazioni possono diventare accessibili, indi conoscibili all’in-

telletto. Il che induce a concludere che l’intento teorico di fondo è tutto nella volontà di favorire il perfezionamento organico della conoscenza sensibile53,

all’interno di un quadro che può essere sintetizzato in questi termini: pur non occupandosi della sensazione in quanto tale (concetto di per sé altamente pro- blematico), l’estetica si preoccupa di definire diversi aspetti della sensazione (per esempio la sua iscrizione, la sua idealizzazione e, infine, il tipo di cono- scenza che dalla sensazione appunto si ricava) distinguendosi per un verso dalla logica, ma richiamandosi anche costantemente a un impianto enciclope- dico di cui ovviamente la logica è parte tipicamente costitutiva.

L’idea di fondo – profondamente anticartesiana – deriva da una riproposizio- ne del leibnizianesimo, letto alla luce della gnoseologia aristotelico-scolastica: non esiste, da questo punto di vista, alcuno iato radicale tra estensione e pensie- ro. Di qui le ragioni della celebre definizione baumgarteniana: «Aesthetica (teo-

ria liberalium artium, gnoseologia inferior, ars pulchre cogitandi, ars analogi rationis) est scientia cognitionis sensitivae»54, che teorizza appunto un’estetica

come scienza della conoscenza che si ricava dai sensi (ad un livello in cui ope- rano anche la fisica ingenua e la psicologia della percezione) e si qualifica anche, in una qualche misura, come teoria delle arti liberali, gnoseologia infe- riore, arte del bel pensare e – probabilmente uno degli elementi più interessanti – arte dell’analogon rationis. Tuttavia, il termine «arte» conserva qui un’acce- zione singolarmente (ma forse per l’epoca nemmeno troppo) particolare; nel senso che, nelle intenzioni baumgarteniane, arte e scienza non sono certamente in contrasto: «Obiezione: (8) l’estetica è arte, non scienza. Rispondo: (a) queste non sono attitudini contrapposte. Quante di quelle che un tempo erano solo arti non sono ora anche scienze? (b) Che la nostra arte possa essere oggetto di dimo- strazione lo proverà l’esperienza, ed è evidente apriori, perché la psicologia e altre scienze filosofiche forniscono principî certi; che meriti di essere elevata a scienza lo insegnano alcune delle applicazioni dell’estetica ricordate»55.

Da qui – e per venire alla nostra prima domanda – è abbastanza evidente che mentre nuova è (almeno nominalmente) la scienza, antico è invece il retroter- ra culturale alla base di un discorso di questo tipo56. Casomai, l’arbitrarietà di

Baumgarten nei rispetti della tradizione, starebbe nell’aver scelto un luogo pre- ciso dell’esperienza (appunto il bello) come il momento per eccellenza deputa- to alla cognitio sensitiva. Certo, il bello può essere uno dei luoghi dell’estetica (da qui quello sviluppo della disciplina che, storicamente, ha favorito lo studio delle «belle arti», categoria coniata, com’è noto, da Batteux); tuttavia, secondo quel che oggi pare oramai largamente acquisito57, non è di certo l’unico e,

forse, nemmeno il più promettente.

Per riassumere, venendo così alla nostra prima domanda: mi pare che l’ori- gine di quel continuo processo di revisione che investe lo statuto disciplinare dell’estetica, nonché della sua storia, sia da imputarsi a precise ragioni teori- che. Tali ragioni, piuttosto verosimilmente, paiono aver a che fare con una tra- dizione che frantumando, attraverso il doppio rigetto prima kantiano e poi hegeliano della dottrina di Baumgarten58, una linea di pensiero certamente più

complessa, si è trovata ad operare principalmente all’interno del versante, di per sé secondario, della filosofia dell’arte.

Ora è ovvio che Baumgarten non inventa nulla di nuovo, e, soprattutto, non inventa la sensibilità, né scopre le potenzialità dell’arte – che erano già state esaminate a fondo per esempio da Platone. Tuttavia, Baumgarten riesamina in maniera molto lucida il portato di una parte di tradizione, intendendo ridisegna- re, sulla scorta di Leibniz e Wolff, una sorta di critica della conoscenza sensi-

bile e della gnoseologia inferiore. Con il che, mi sembra, si concede all’esteti- ca una trasversalità assai più proficua; nel senso che, anziché limitarla al dibat- tito sulla produzione o fruizione artistica, la si impegna in un dialogo più vasto, con tutti quegli indirizzi di ricerca che si occupano appunto di cognitio sensi-

tiva, per esempio la percettologia, la psicologia e l’ontologia.

Ora, come possa fattivamente l’estetica operare in questa direzione è evidente- mente altra questione; più interessante, dal mio punto di vista, sarà invece cerca- re di definire rapidamente il quadro teorico in cui si muove Baumgarten. Si è detto come l’epistemologia di riferimento sia la leibniziana. Stando ai ben noti esempi di Leibniz, la conoscenza può essere oscura o chiara; la chiara, a sua volta, si divi- de in conoscenza confusa o distinta, e la distinta in adeguata o inadeguata. A sua volta la conoscenza adeguata si divide in simbolica (dal punto di vista di Leibniz è lo stesso che dire discorsiva), e intuitiva. Lo schema sinotticamente è questo:

Figura 1- Schema dell’albero della conoscenza secondo Leibniz (1684)

Per intenderci: una conoscenza può appunto essere chiara oppure oscura. È oscura quando percepiamo qualcosa senza tuttavia arrivare ad appercepire, dun- que senza portare la percezione alla coscienza (ad esempio, percepiamo il tutto, senza percepire le parti che lo compongono; l’esempio di Leibniz è notoriamente quello della cascata: pur non percependo singolarmente le gocce che la compon- gono, dobbiamo in qualche misura registrare ogni singola goccia, dato che perce- piamo la cascata in tutta la sua interezza59). Come si può evincere dallo schema

zione. La conoscenza chiara può ovviamente essere confusa – per esempio quan- do all’orizzonte vediamo stagliarsi una figura, senza avere la contezza di che cosa si tratti – o distinta. In quest’ultimo caso dovremmo essere perfettamente in grado di analizzare le note caratteristiche del concetto che ci andiamo rappresentando – per Leibniz, così come per Kant, nota è tutto ciò che compone una conoscenza come, per esempio, i concetti di forma, colore, numero, ecc. Le rappresentazioni oscure sono sempre confuse; mentre le chiare, come risulta dallo schema, posso- no essere confuse o distinte. Di qui, e per converso, la rappresentazione distinta è innanzitutto chiara: «ad esempio: vedo un albero, distinguo il tronco dai rami, le foglie dalle gemme, e nelle foglie le fibre, e differenzio il verde di una foglia adul- ta da quello di una foglia nascente. Ogni dettaglio mi è chiaro e sono in grado di enumerarlo e descriverlo: questa è distinzione. Ma nella viridità di una foglia, nulla distinguo, e la rappresentazione è chiara ma confusa. E così per i colori in genere, i sapori e gli odori»60. Ancora però l’articolazione dell’«albero» leibnizia-

no non è terminata: la conoscenza distinta può essere infatti adeguata o meno; e cioè può essere inadeguata allorché in effetti non se ne individuano tutte le note distintive. Solo nel caso in cui tutte le note siano adeguatamente analizzate (dun- que, a ben pensarci, abbastanza di rado) avremo una conoscenza adeguata.

È ancora necessario dettagliare un ultimo passaggio, quello che descrive la suddivisione della conoscenza adeguata in simbolica e intuitiva. Il primo caso (tipicamente, il poligono di mille lati) si ha nel momento in cui possiedo tutte le determinazioni concettuali, ma non riesco a rappresentarmele; una conoscenza dunque essenzialmente imperfetta, tuttavia largamente indispensabile e, di fatto, molto utilizzata. La conoscenza sarà invece intuitiva – con il che il catalogo si conclude – allorché, nei fatti, siamo in grado di rappresentarci completamente le note caratteristiche del concetto che rimanda alla cosa che vogliamo conoscere. Proviamo a riassumere quanto si è detto fin qui. Dopo il lavoro fatto nella

Metaphysica Baumgarten ritiene oramai comprovato che i pensieri sono rappre-

sentazioni (cogitationes sunt repraesentationes)61che, a loro volta, si distinguo-

no in oscure e chiare. La conoscenza chiara, ma pure confusa è, teoricamente, un poco più problematica: chi infatti pensa in modo chiaro, ma confuso non distin- gue le parti (dunque le differenze) della cosa rappresentata; tuttavia – come si è visto nel noto esempio della cascata di Leibniz – il soggetto in questione deve comunque percepire tali differenze, altrimenti non sarebbe possibile distinguere la rappresentazione tutta intera (l’oggetto «cascata» è composto da ogni singola goccia che lo forma) dalle altre rappresentazioni né, ovviamente, si potrebbe pen- sare in modo chiaro la cosa presa ad oggetto. Le parti dunque verrebbero perce- pite, seppure in modo confuso; di qui viene chiamata in causa l’esistenza di una sorta di deposito delle rappresentazioni oscure, il fundus animae62, che si con-

trappone per sua propria natura alla parte dominata dalle rappresentazioni chiare. Il passo successivo è del tutto naturale: dal punto di vista di Baumgarten la conoscenza coincide in buona sostanza con lo stesso complesso rappresentati-

vo; il quadro generale delle facoltà ci offre comunque un’indicazione impor- tante: l’anima è capace di conoscenza sia distinta sia indistinta, dunque, in poche parole, possiede sia una facoltà conoscitiva superiore (volta al distinto), sia una inferiore (volta invece all’oscuro) – posizione questa che, a ben guar- dare, richiama il dettato di Wolff. Non è vero, in questa prospettiva, che chia- rezza e distinzione (il tipico binomio cartesiano) sono analiticamente congiun- te; piuttosto, dal punto di vista di Baumgarten, è assolutamente possibile avere delle immagini chiare e tuttavia non distinte. Il che risulta particolarmente evi- dente dall’attività dei poeti e dei pittori: essi spesso sanno fattivamente separa- re il bello dal brutto, tuttavia non è raro che non siano in grado di rendere com- pletamente ragione del loro giudizio63.

Nonostante questo però – ossia nonostante il fatto che l’estetica produce un tipo di conoscenza fatalmente meno distinta di quella prodotta dalla logica – non dobbiamo dimenticare che l’estetica è capace di far fruttare l’operato dei sensi che, di per se stessi, non sbagliano mai64. Perciò l’estetica si configura

come uno dei preamboli necessari per una gnoseologia completa; per la preci- sione, quello che introduce immediatamente alla logica65. In questo senso

siamo in grado di comprendere l’idea baumgarteniana della verità estetica: si tratta di un tipo di verità percepito attraverso i sensi che ha a che fare con sen- sazioni o atti immaginativi. L’oggetto eminente di questa cognitio sensitiva nell’accezione di Baumgarten è, piuttosto ovviamente, la bellezza66 (egual-

mente e variamente presente in natura, arte o pensiero); e questo perché pro- prio la bellezza è capace di accentrare la massima chiarezza estensiva. Tuttavia, va sottolineato un punto: con la logica, l’estetica è parte della gnoseologia, ed entrambe costituiscono la metafisica, volta, per sua stessa disposizione, ad occuparsi delle cose non conoscibili per fede. Il punto è importante – lo riba- diamo ancora una volta – perché evidenzia il fatto che Baumgarten non pensa- va preliminarmente ad un’estetica come filosofia dell’arte.

In altre parole, Baumgarten non parla di opere, casomai dell’orizzonte logi- co ed estetico disponibile ad un intelletto medio; ove è altresì evidente che poi, in questo orizzonte, rientreranno tra gli altri anche oggetti d’arte. Il che signi- fica, ovviamente, che a far problema sono due modalità differenti di conoscen- za: quella che mostra di intendere attraverso i sensi – ovvero, appunto, l’este- tica – e l’orizzonte logico. Nella sua indagine, Baumgarten difende il punto di vista della continuità, dato che la sensazione, a suo giudizio, è un elemento iscritto e poi ritenuto; dunque, in ultima analisi, concettualizzato. Il tutto per dire che Baumgarten aveva di mira non tanto la sensibilità (ovvero la sensazio- ne in quanto tale), ma più verosimilmente la conoscenza delle cose (percepite in modo non distinto) che avviene per via sensibile.

Ora, questo impianto euristico (di natura chiaramente enciclopedica) visto dal lato della cognitio sensitiva, sottintende una serie di questioni precise: per esempio, il rapporto tra estensione e pensiero in una prospettiva di radicale

anticartesianesimo, oppure, anche, una speciale attenzione per il versante intui- tivo della conoscenza, privilegiato, questa volta, rispetto al discorsivo e così via. Giusta questa interpretazione, che tenderebbe a fare dell’approccio baum- garteniano un impegno a pronunciarsi sul merito di domande francamente epi- stemologiche (di qui le evidenti ragioni che spinsero Baumgarten a pensare l’Aesthetica attraverso un continuo gioco di rimandi con la sua Metaphysica che per molti versi costituisce l’antefatto diretto e immediato67), pare naturale

che l'estetica si interessi di versanti teorici che per larga misura le sono rimasti estranei. Questa acquisizione che, lo ripeto, oggi sembra abbastanza diffusa, mi pare permetta di affrancare la disciplina da una serie di vincoli penalizzanti nei rispetti del dialogo con l’epistemologia e con le scienze (per esempio, su tutte, ancora la psicologia).

Tutto ciò credo voglia dire molte cose, in primis, tuttavia, che all’estetica spet- ta (di fatto, ma anche di diritto) di impegnarsi in indagini di carattere insieme ontologico e metafisico (sul cosa c’è) e epistemologico (su come posso conosce- re quel che c’è). In questa sede, basterà un esempio per chiudere la mia breve digressione storiografica, e per ritornare al merito del discorso nietzschiano.

Il mondo della sensibilità, a vari livelli, si caratterizza per uno spessore e un’opacità di significati – ma, come contropartita, di possibili utilizzi – del tutto evidenti. Ora, una delle questioni di maggior rilievo che emerge da tutti quei dibattiti che hanno raccolto almeno in parte l’eredità dei problemi lascia- ti aperti dai leibniziani e da Baumgarten (mi riferisco, com’è ovvio, al versan- te prettamente epistemologico) ha a che fare con la necessità, per esempio, di organizzare lo spazio delle informazioni, dei significati e dei contenuti che