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Autoinganno e infelicità della coscienza

Parlando di una passione che anticipa e forma la coscienza, Butler torna nuovamente alla teorizzazione dell'autocoscienza contenuta nella Fenomenologia dello spirito. Distaccandosi da un'illustre tradizione che ha cercato in queste pagine il nucleo di una teoria liberazionista del lavoro e della lotta di classe, l'autrice, ne La vita psichica del potere, sostiene che, nel capitolo sull'Autocoscienza, Hegel abbia descritto un processo di sostanziale auto- assoggettamento del corpo, convergente, per alcuni aspetti, con la già ricordata tesi foucaultiana dell'“anima prigione del corpo”. Proprio a Hegel – secondo Butler – è ascrivibile la scoperta che l'auto-incarcerazione della coscienza moderna non può risolversi facilmente in una “liberazione” dell'io, perché le catene etiche e sociali che la avvolgono sono non solo la precondizione per il costituirsi del soggetto, ma, come tali, divengono anche oggetto di culto e di attaccamento appassionato da parte di quest'ultimo. Infatti, è mostrando l'ambivalente abbraccio di tali catene che Hegel fa emergere la soggettività come un'esistenza individuata, situata all'interno di una specifica configurazione storica dello Spirito del mondo, capace di azioni finalizzate sulla base di una visione di sé e del futuro.

Rileggendo con attenzione critica le celebri pagine dedicate alla figura di Signoria e servitù, la filosofa americana insiste sul fatto che la presa di coscienza da parte del servo della propria libertà creativa e il riconoscimento di se stesso nei manufatti di propria produzione non bastano a liberare il suo corpo dal destino di soggezione a cui la paura della morte l'ha precedentemente condotto. In particolare: il corpo materiale del servo resta legato alle catene fisiche di un'esistenza subordinata, ma esso conosce una seconda e definitiva “incarcerazione” da parte di catene morali, di cui egli stesso è l'involontario artefice.

Il rovesciamento dialettico della figura di Signoria e servitù dà luogo, infatti, al ritorno, nel

servo, di quel “timore assoluto” per la propria sopravvivenza che, alcune pagine prima, aveva decretato la sua condizione socialmente subordinata. L'orgoglio per la scoperta della propria autonomia creativa non elimina nel servo la coscienza di essere uno strumento nelle mani del signore, deputato al suo sostentamento. In realtà acuisce la percezione dell'ingiustizia perpetrata ai suoi danni, che consiste nell'espropriarlo dei beni da lui prodotti.

L'immagine di sé che tali beni rimandano al servo è doppia: da una parte, egli trae da essi la convinzione di essere un “demiurgo” capace di plasmare la materia nuda, ma, dall'altra parte, si accorge presto di essere egli stesso mera “materialità” per il padrone. Nell'economia signorile, il servo è un semplice corpo, strumentale, vulnerabile, soggetto alla confisca dei propri manufatti e della propria libertà.

L'auto-riconoscimento, pertanto, coincide per lui con la presa di coscienza di questa “foucaultiana” ambiguità: in primo luogo, il potenziale racchiuso nel proprio lavoro fa di lui qualcosa di indispensabile al sostentamento del padrone – conferisce al servo un'identità –; in secondo luogo, però, la preoccupante realtà della propria alienazione di fronte al potere giuridico, esercitato da colui che è signore per diritto, si manifesta proprio nella cessione forzata dei prodotti del suo lavoro. Così, «ciò che irriducibilmente gli appartiene è il suo stesso dileguamento, e […] quest'ultimo è causato da un altro – sarebbe a dire che questa è una forma socialmente coercitiva di auto-annullamento. Non solo il servo lavora per un altro, ma appone anche la sua firma al posto dell'altro, senza alcuna possibilità di mettere in risalto la proprietà del suo stesso lavoro»313.

Nella reazione del servo a questa condizione di illibertà già si delinea il profilo della coscienza infelice: la strada che egli sceglie di percorrere è quella di una sostanziale negazione dell'evidenza, una sorta di reiterato e pervicace autoinganno in cui Hegel intravede in nuce la vocazione più profonda dei pensieri stoico e scettico. Il servo preferisce infatti aggrapparsi alla certezza di se stesso e identificarsi interamente con la propria capacità creatrice, invece di riconoscere la fragilità e l'ambiguità intrinseche alla natura umana. In questo suo nuovo fare, il servo ricalca dialetticamente l'agire del signore che, prima di lui, aveva coltivato e realizzato l'ideale di una vita disincarnata e si era servito proprio del corpo del servo per attuare la negazione del proprio corpo314.

313 J. BUTLER, Soggetti di desiderio, cit., p. 74.

314 Si potrebbe dire che la paura del servo viene a coincidere a questo livello con la paura provata, e

disconosciuta, anche dal signore. Se la condizione servile è definita dall'essere sfruttati ed espropriati degli oggetti prodotti, l'identità del signore si era costituita a sua volta nel disprezzo della vita e della corporeità e nel sogno dell'autosufficienza di un puro godimento. Entrambi, sebbene da due punti di vista diversi, fanno l'esperienza della perdita dell'oggetto: al servo, l'oggetto appare eterno rispetto alla propria vita di effimero produttore; al padrone, l'oggetto si presenta segnato dal destino della consumazione, in ossequio al capriccio dei suoi stessi desideri. Sia il servo che il padrone, tuttavia, finiscono il loro percorso con l'esperire la

La riflessione sulla propria condizione si risolve, per il servo, con una sostituzione: il servo si erge a padrone di se stesso, vale a dire, introietta la signoria dentro la propria coscienza e la esercita nei confronti del proprio corpo strumentale e mortale. La divaricazione tra le due posizioni sociali del potere e della servitù è riprodotta a livello intrapsichico: scindendo se stessa in due polarità, la coscienza considera le percezioni che le derivano dal corpo un'estraneità da tenere a bada, e addirittura da sconfessare. Ciò che in questo modo viene sconfessato è il timore della morte che incombe su di lei in ragione del suo legame col corpo mortale. Incoraggiando un attaccamento a norme etiche e comportamentali, la coscienza coltiva un “ostinato” desiderio di autoconservazione e sublima questo timore, originariamente “assoluto”, in un timore di tipo diverso, “un'angoscia particolare”, meno intensa ma maggiormente adattiva. Scrive Hegel:

se la coscienza non ha sofferto la paura assoluta, ma solo qualche angoscia particolare, allora l'essenza negativa le è rimasta solo esteriore e non ha pervaso intimamente la sua sostanza. Se non viene fatto vacillare ogni elemento che riempie la coscienza naturale, allora questa coscienza appartiene ancora, in sé, all'essere determinato, e il senso proprio è ostinazione [der eigne Sinn ist

Eigensinn], cioè libertà ancora irretita nella servitù. […] Nell'ostinazione, la forma è al massimo

un'abilità particolare che ha potere soltanto su qualcosa di singolare, ma non sulla potenza universale e sull'intera essenza oggettiva315.

La creazione di norme contro il sentimento della paura e l'autoimposizione delle stesse generano un duplice assoggettamento della coscienza infelice: da un lato, il soggetto è “assoggettato” alle norme; dall'altro, le norme “soggettivizzano” il soggetto, danno cioè una forma etica alla riflessività del soggetto emergente. Butler interpreta questa “libertà irretita nella servitù” come la condizione del soggetto-cittadino che vive ormai oltre lo stato di paura assoluta, ma la cui esistenza è compenetrata del timore verso la legge: «più assoluto diventa l'imperativo etico, ossia più tenace e eigensinnig l'applicazione della sua legge, più articolata e sconfessata diventa allo stesso tempo l'assolutezza della paura motivante. La paura assoluta viene dunque sostituita dalla legge assoluta che, paradossalmente, riorganizza la paura nei termini di una paura della legge»316.

La paura assoluta, in quanto coscienza dell'inevitabilità della morte, avrebbe un effetto

transitorietà delle cose, l'insufficienza del mero consumo e quindi, di riflesso, la propria precarietà e mancanza. «Solo come proprietà gli oggetti conservano la loro forma e “si sottraggono al dileguamento”. Solo come proprietà gli oggetti attuano la promessa teologica che incombe su di essi»: ivi, p. 73.

315 G.W.F. HEGEL, op. cit., p. 291.

immobilizzante e annichilente se non consentisse nessuna forma di evasione da sé e se non indicasse nessuna alternativa via di fuga. Questa via di fuga sembra poter appartenere solo a un'essenza non corporea e perciò sottratta ai vincoli della mortalità: l'obbedienza alla legge etica si propone quale mezzo per permettere al corpo di disincarnarsi.

La mortalità recata dal corpo è l'alterità che l'autocoscienza cerca di negare, inglobandola dentro di sé e disciplinandola; la libertà dell'io dipende dalla negazione della differenza costituita dal corpo e dall'affermazione produttiva di un nuovo stile di vita per esso. La paura dà avvio a un processo di auto-annullamento che ha come risvolto dialettico l'ancoraggio dell'esistenza alla sua manifestazione più disincarnata, ossia il pensiero.

Quando lo Spirito del mondo assume la forma universale dello Stoicismo, fa la sua comparsa una coscienza che si presenta «libera sia sul trono sia in catene, in ogni dipendenza della propria esistenza singolare; [essa] è l'attività di mantenersi nell'inerte impassibilità che, a partire dal movimento dell'esistenza – sia dall'agire sia dal patire –, si ritira costantemente

nell'essenzialità semplice del pensiero»317. Quello che appare alla coscienza stoica come

“essenziale” è ciò che, qualche pagina più avanti, la coscienza infelice definirà come “l'immutabile”, il pensiero che osserva e giudica con inflessibile rigore le manifestazioni fenomeniche e contraddittorie degli elementi che compongono la sfera corporea318.

Il passaggio alla figura dello Scetticismo “realizza” la verità di questa scissione, riconoscendovi l'essenza vera e propria della libertà del pensiero. «Il pensiero diviene adesso pensiero compiuto che annienta l'essere del mondo nella molteplicità delle sue

determinatezze»319, ponendosi nei confronti della varietà del vivente come consapevolmente

polemico e distruttivo delle singole differenze e autonomie320.

317 G.W.F. HEGEL, op. cit., pp. 295-297.

318 E tuttavia, la libertà così raggiunta è giudicata dal filosofo apparente e astratta, poiché finisce sempre di nuovo per riconoscere la realtà dell'esistenza naturale, la sola in grado di fornire dei contenuti al ragionare: «nella coscienza stoica […] il Concetto è astrazione che si separa dalla molteplicità delle cose, e quindi non ha in se stesso alcun contenuto, bensì ha soltanto un contenuto dato come esterno. [...] Si capisce quindi l'imbarazzo in cui veniva a trovarsi lo Stoicismo quando era interrogato, secondo l'espressione dell'epoca, sul

criterio della verità in generale, cioè, propriamente, su un contenuto del pensiero stesso. Alla domanda: che cos'è vero e buono?, lo Stoicismo riproponeva ogni volta il pensiero stesso senza contenuto, rispondendo: il

vero e il bene devono consistere nella razionalità. […] Questa coscienza pensante, che si è determinata come la libertà astratta, è dunque la negazione ancora imperfetta dell'essere-altro. Essa si è solo ritirata entro sé uscendo dall'esistenza»: ivi, pp. 297-299.

319 Ivi, p. 299.

320 «La dialettica, in quanto movimento che nella sua immediatezza è negativo, appare inizialmente alla coscienza come qualcosa di estraneo di cui essa è preda. In quanto Scetticismo, invece, questo movimento è un movimento dell'autocoscienza. Qui non accade più che l'autocoscienza, senza neanche sapere come, veda dileguarsi ciò che essa ritiene vero e reale; adesso, nella certezza della propria libertà, è piuttosto la stessa autocoscienza a lasciar dileguare questo altro che si dà come reale. L'autocoscienza lascia sparire non solo l'oggettività in quanto tale, ma anche il proprio comportamento verso l'oggettività stessa – nel quale comportamento quest'ultima vale e viene fatta valere, appunto, come oggettiva. Adesso, dunque, l'autocoscienza lascia dileguare anche la propria percezione, come pure le sofisticherie con cui è solita

In questo suo fare, tuttavia, l'atteggiamento scettico scivola velocemente nell'autocontraddizione, poiché mentre nega il dominio dell'alterità, la coscienza è costretta a compiere, di fatto, “un'esternazione” per rendere palesi i propri pensieri:

La coscienza scettica lascia certo dileguare nel suo pensiero il contenuto inessenziale, ma in tal modo diviene appunto la coscienza di una inessenzialità. Essa denuncia il dileguare assoluto: ma questa sua enunciazione è, e allora è questa stessa coscienza, secondo la sua enunciazione, a dileguare; enuncia la nullità del vedere, dell'udire, ecc., e tuttavia essa stessa vede, ode, ecc; enuncia la nullità delle essenzialità etiche, ma ne fa le potenze delle proprie azioni. Il suo fare e il suo dire, insomma, si contraddicono costantemente, e pertanto essa ha la doppia e contraddittoria consapevolezza sia dell'immutabilità e dell'uguaglianza, sia della completa accidentalità e disuguaglianza con sé321.

L'ostinazione anti-corporea del servo conosce qui la propria capitolazione: l'entrata in scena della “coscienza infelice” non è altro che la presa di coscienza di questo estremo auto- sabotaggio del pensiero.