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Produttività della legge n 1: paura di sprofondare nell'abiezione sociale

Un aggettivo che indica degenerazione può essere pronunciato per stigmatizzare una sessualità patologica, un'inferiorità razziale o intellettuale, una condotta immorale o pericolosa da un'istanza che si proponga quale veicolo della normalizzazione. Ciò che realmente accade quando qualcuno viene sorpreso da un'interpellazione dispregiativa e traumatica è il fatto che un nome ingiurioso cancella altri nomi possibili e opera un effetto di de-realizzazione e spossessamento di un'identità accettabile all'interno di una comunità. Persa la possibilità di essere parte riconosciuta di questa comunità, la vita così interpellata è esiliata nell'abiezione.

Il termine “abiezione”, derivato dal latino ab-iacere, è traducibile secondo Butler con «scartare, gettare via o scacciare e, dunque, presuppone e produce un ambito di azione dal quale differisce»184. Vicina, da un punto di vista logico, alla nozione psicoanalitica di

184 J. BUTLER, Corpi che contano, cit., p. 185. Il termine “abiezione” è originariamente utilizzato da Julia

KRISTEVA nel suo Pouvoirs de l'horreur, Editions de Seuil, Paris 1980; trad. it. di A. Scalco, Poteri

dell'orrore. Saggio sull'abiezione, Spirali, Milano 1981. Con questa nozione Kristeva intende riferirsi a tutto

ciò che l'ordine simbolico, per esistere, cerca di scludere dal proprio perimetro e di nascondere alla propria vista: ciò che è considerato “sporco” o “impuro” o variamente repellente, come tutti i materiali che il corpo espelle – saliva, sangue, urina, feci, lacrime, vomito. L'ordine simbolico impone dei tabù su tutti questi

Verwerfung, indicante la cosiddetta “forclusione” o “preclusione” di un significato primario

nell'inconscio185, anche l'abiezione è una forma di ripudio radicale, in una zona degradata e

perciò impensabile del sociale, di alcune individualità che, a rigor di termini, sarebbe improprio definire “soggetti”. L'analogia mette a fuoco il fatto che «ciò che è precluso o ripudiato all'interno dei termini psicoanalitici è precisamente ciò che, se rientrasse nel campo del sociale, preannuncerebbe la psicosi, ovvero, la dissoluzione del soggetto stesso»; in modo simile, «anche certe zone abiette all'interno della socialità esercitano tale minaccia. Costituiscono, infatti, delle zone di inabitabilità che un soggetto immagina come pericolose per la propria integrità, prospettando una dissoluzione psicotica. (“Preferisco morire che fare o essere così!”)»186.

La comparazione dei due meccanismi permette a Butler di mostrare come la costruzione della socialità abbia un carattere essenzialmente “patologico”: il processo della sua costituzione prevede infatti l'isolamento di zone di non-riconoscimento ai margini della stessa. Con la parola “abiezione”, la filosofa intende riferirsi a quelle porzioni di popolazione cui è ordinariamente negato il riconoscimento dello status di “soggetti”, «ma il cui vivere nell'“invivibile” è necessario per poter circoscrivere l'ambito del soggetto»187: questa sorta di

“periferia” sociale segna il confine stesso della socialità, fungendo da «luogo di identificazione temuta contro il quale – e in virtù del quale – il soggetto può candidarsi all'autonomia e all'esistenza»188.

La paura di scivolare nell'abiezione ha, dunque, un grande peso ontologico e politico. I corpi abietti che non riescono a far valere la propria “realtà”, la propria “materialità”, perdono il diritto di “contare”189 qualcosa, di qualificarsi come “soggetti”. Essi sono costretti a condurre

“scarti”, e il primo di questi tabù è senz'altro quello che colpisce le relazioni incestuose. Tuttavia, secondo Kristeva, l'abietto non scompare del tutto; esso permane a infestare la sicurezza e la stabilità del soggetto e dell'ordine simbolico, minacciando entrambi di dissoluzione.

185 Il riferimento utilizzato da Butler è la voce “Preclusione” in: J. LAPLANCHE-J.B. PONTALIS, Enciclopedia

della psicoanalisi, cit., pp. 393-397. Nozione fortemente rivalutata da Jacques Lacan, si propone di spiegare

il processo di formazione della psicosi. Designa una forma di rigetto preventivo di un significante fuori dall'universo simbolico del soggetto, e quindi una forma di diniego che va a colpire un frammento di realtà e lo lascia cadere totalmente al di fuori dall'inconscio. La forclusione differisce dalla rimozione perché non prevede una valutazione e una successiva censura della rappresentazione da parte dell'Io, ma, in maniera ancora più radicale, si comporta come se la rappresentazione non fosse mai giunta all'Io e non fosse affatto qualcosa di reale. Con questo disinvestimento della realtà si ha una conseguente perdita di significati simbolici che invece sarebbero necessari all'acquisizione di una posizione nel simbolico da parte del soggetto. Per questo motivo, i significanti forclusi non ricompaiono “all'interno” della vita psichica sotto forma di sogni, lapsus, meccanismi di sublimazione o sintomi nevrotici, come i significanti propriamente “rimossi”, bensì tornano “nel reale”, principalmente come fenomeni allucinatori.

186 J. BUTLER, Corpi che contano, cit., p. 185.

187 Ivi, p. 3 188 Ibidem.

189 Giocando, come di consueto, con i significanti della lingua inglese, Judith Butler richiama l'attenzione sul fatto che “contare” [matter] come soggetti equivale, nel contesto sociale, a vedere riconosciuta la

la propria esistenza esclusi da ogni accesso al linguaggio e al potere discorsivo. «L'“abiezione” e le sue conseguenze per il soggetto assumono un aspetto terrificante»190.

La capacità di relegare qualcuno nell'abiezione è problematica in quanto non si lega direttamente al contenuto o alla forma delle parole pronunciate a suo carico dalla comunità che per questa via lo esclude, né solamente all'atteggiamento del mittente dell'insulto. L'appellativo infamante è avvertito e riconosciuto come ingiurioso da un'intera collettività quando tutto il contesto di emissione orienta l'interpretazione di una sentenza in una specifica direzione.

Secondo Butler, «essere offesi dalle parole significa subire una perdita di contesto, cioè non sapere dove si è […] essere esposti a un futuro ignoto, ma anche non conoscere il tempo e il luogo dell'offesa e subire un disorientamento rispetto alla propria situazione»191. Colui che è

ingiuriato perde il proprio posto nella comunità dei parlanti e viene dislocato in un non-luogo, una zona marginale contraddistinta in via negativa dall'invisibilità e dalla censura. Si può arrivare a sostenere che per alcuni questa zona marginale rappresenti addirittura l'unica occasione, ancorché amara, di una vita (im)possibile.

Ricevere un nome ingiurioso dovrebbe avere l'effetto paralizzante descritto perché la condizione dell'abiezione è una condizione terrificante, traumatica, perfino invivibile. La minaccia che sembra essere inclusa nella “morte in vita” dell'ingiuria assomiglia da vicino alla minaccia di morte corporea perché racchiude la promessa equivalente dell'esclusione dai rapporti sociali, assicura l'oblio, vieta il lutto. La paura suscitata da un discorso offensivo, o denigrante, è la paura di non riuscire più a liberarsi di quel “doppione”, di quella “figura d'ombra” – secondo l'espressione di Foucault192 – che minaccia di inchiodarsi a un soggetto

con conseguenze irreparabili per la sopravvivenza sociale.

La tesi sostenuta da Butler è che il potere normativo riesca a prevalere e a “proliferare” fino al momento in cui continui a operare esclusioni sociali efficaci: cancellazioni, rimozioni e deformazioni di vite umane alle quali vengono imposte identità impossibili e nomi indicibili. Questa imposizione forzata è sia una sostituzione di una rappresentazione con un'altra, sia una delegittimazione della rappresentazione imposta, fino al punto di rendere quest'ultima invisibile. Il tutto avviene, secondo Butler, proprio per mezzo della sollecitazione emotiva che

richiama la sua opera più nota, Butler spiega che certamente “l'inintelligibile” e “l'impensabile” hanno un'esistenza linguistica, ma, a suo avviso, questa esistenza resta “radicalmente non-interrogata”, cosicché ciò che ha luogo è una produzione o “materializzazione” differenziale dell'umano: J. BUTLER, How Bodies Come

to Matter: An Interview with Judith Butler, in «Signs: Journal of Women in Culture and Society», 23, 2

(1998), pp. 275-286, p. 281. 190 Ibidem.

191 J. BUTLER, Parole che provocano, cit., pp. 4-5.

alcuni nomi evocano: pur di non ricevere un certo nome, si preferisce aderire all'imperativo normalizzante; lo spettro della marginalizzazione opera come deterrente della proliferazione di determinate identità, proprio per lo stesso meccanismo mediante il quale una pena distoglie dal commettere un crimine.

Il discorso sembra percorrere una traiettoria obbligata verso il rafforzamento delle divisioni sociali e l'irrigidirsi di una contrapposizione frontale tra zone di “normalità” e zone di “abiezione”. La zona di abiezione è tenuta in uno stato di sottomissione e silenzio ad opera dei meccanismi infamanti e spersonalizzanti fin qui descritti; la cosiddetta zona di normalità è a sua volta attraversata da timori, suscitati soprattutto dalla presenza “minacciosa” di una marginalità abietta ai confini del suo perimetro di chiara intelligibilità. Ogni pretesto che possa essere utilizzato per alimentare la paura in entrambi i “settori” ottiene il risultato di inasprire la diffidenza reciproca e impedire che una forma costruttiva di riconoscimento abbia luogo.