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La tradizione di pensiero che – da Nietzsche ad Arendt a Foucault – intende il potere come u n a dynamis, cioè in chiave relazionale e biunivoca, si contrappone alla concezione “oggettivistica” del contrattualismo moderno e da tutte quelle prospettive che reificano il potere facendone una sorta di “bene” strumentale o una merce di scambio228.

Schematicamente, il contrattualismo e la teoria della sovranità statale descrivono il potere e il soggetto come entità separate; il potere scaturisce da un “possesso” degli individui singolarmente presi, al modo di un bene, oppure da un “diritto”, acquisibile o alienabile con un atto giuridico. La perdita, o meglio la cessione, di taluni diritti, in una prospettiva contrattualistica, è compensata dall'acquisizione di altri vantaggi, tra i quali la sicurezza della persona, la difesa della proprietà privata e dei propri interessi. In modi diversi, le teorie di ispirazione soggettivistica collocano la dimensione del potere in doti o caratteristiche soggettive, naturali come la forza fisica o il carisma, oppure acquisibili come il sapere o la ricchezza.

Entrambe queste concezioni, tuttavia, pur partendo dal contesto della relazione sociale come il luogo in cui ha inizio lo scontro che sfocerà nel dominio dell'uomo sull'altro uomo, finiscono per pensare a una soluzione politico-giuridica in cui ciò che si cerca di ottenere è evitare al maggior numero possibile di individui il pericolo di violenza e di danneggiamento, in cambio però della cessione totale o parziale del loro diritto “naturale” a esercitare il potere di aggressione sugli altri.

228 Cfr. ad esempio la definizione di potere data da Hobbes nel 1651, nelle pagine del Leviatano: «il potere di

un uomo (preso in senso universale) sono i mezzi che ha al presente per ottenere qualche apparente bene

futuro; esso è o originario o strumentale. Il potere naturale è l'eminenza delle facoltà corporee o mentali, come la forza, la bellezza, la prudenza, l'arte, l'eloquenza, la liberalità, la nobiltà quando sono straordinarie. Sono strumentali quei poteri che, acquisiti per mezzo dei primi o della fortuna, sono mezzi o strumenti per acquisirne di più: come le ricchezze, la reputazione, gli amici, e quel segreto operare divino che gli uomini chiamano buona sorte»: T. HOBBES, Leviatano, cit., p. 82.

Questo tipo di modello esplicativo ha il pregio della semplicità e della consequenzialità logica, ma, dall'altra parte, trascura di problematizzare la natura della relazione che si stabilisce tra soggetti e potere e che coinvolge l'ontologia del soggetto in modo essenziale. Pensare la relazione tra potere e soggetto, o tra sovrano e sudditi, in modo univoco, significa pensare il potere come una struttura fortemente polarizzata, in cui qualcuno che si trova in posizione di attività e di dominio ha la forza di costringere altri, che invece versano in uno stato di subordinazione passiva, a fare o non fare qualcosa.

La ricerca di Butler è, da questo punto di vista, impegnata a favorire un'integrazione dell'apparente dualismo tra attività e passività del soggetto implicato nella relazione di potere: il soggetto, per Butler, tende a coincidere con il potere, perché esso è, come abbiamo già visto, un inevitabile e non casuale prodotto del potere.

Il “potere” butleriano conserva l'eco della lezione arendtiana229, la quale ricordava come la

nozione tedesca di Macht derivasse dal verbo mögen, ossia “poter fare qualcosa”, e da

möglich, “possibile”. Affine alla dynamis greca, il potere per Hannah Arendt consiste in

relazioni e vive di esse; non può pertanto venir ceduto o delegato ad altri. La prospettiva butleriana ricalca inoltre quella di Michel Foucault nel suo concepire il potere come una «relazione strategica complessa in una società data»230, non riducibile all'una o l'altra delle

rappresentazioni “istituzionali” del suo operato. Questa relazione strategica si caratterizza, per Foucault, per la sua intrinseca “produttività” di identità, comportamenti e dei corpi stessi; di stili di vita e di pensiero, concezioni della verità, teorie epistemologiche: di quelle visioni del mondo che conferiscono intelligibilità alle pratiche stesse e alle relazioni di potere.

Mentre Foucault, tuttavia, liquida come insufficiente la descrizione del meccanismo dell'assoggettamento in chiave repressiva, abbiamo visto come Butler torni a interessarsi al problema della repressione, convinta che proprio il modo in cui concepiamo questa nozione sia essenziale per elaborare quelle strategie di resistenza di cui Foucault stesso ha disegnato il percorso critico. D'accordo con Foucault nel sostenere che non si tratta soltanto di stabilire da dove parta la spinta repressiva, se dall'interno o dall'esterno del corpo, perché la linea di

229 «Il potere è sempre, vorremmo dire, un potere potenziale e non un'entità immutabile, misurabile e indubbia come la forza o la potenza materiale. Mentre la forza è la qualità naturale di un individuo separatamente preso, il potere scaturisce dagli uomini quando agiscono assieme, e svanisce appena si disperdono»: H. ARENDT, The Human Condition, The University of Chicago, 1958; trad. it. di S. Finzi, Vita activa. La

condizione umana, Bompiani, Milano 1994, pp. 146-152.

230 M. FOUCAULT, La volontà di sapere, cit., p. 83. Poco prima Foucault aveva descritto il potere come «la

molteplicità dei rapporti di forza immanenti al campo in cui si esercitano e costitutivi della loro organizzazione; il gioco che attraverso lotte e scontri incessanti, li trasforma, li rafforza, li inverte; gli appoggi che questi rapporti di forza trovano gli uni negli altri, in modo da formare una catena o un sistema, o, al contrario, le contraddizioni che li isolano gli uni dagli altri; le strategie, infine, in cui si realizzano i loro effetti, ed il cui disegno generale o la cui cristallizzazione istituzionale prendono corpo negli apparati statali, nella formulazione della legge, nelle egemonie sociali»: ivi, p. 82.

demarcazione tra interno ed esterno è posta in essere proprio dalla regolamentazione del soggetto stesso, Butler si propone però di osservare più da vicino rispetto a Foucault ciò che avviene su quella linea di confine. Se il soggetto, oltre ad essere prodotto dal potere, dipende da esso per la propria sopravvivenza sociale, allora significa che il soggetto, nella misura in cui è interessato alla propria sopravvivenza – e su questo Butler non sembra avere dubbi –, è legato al proprio “soggiogamento” [subjection] da un tema di bisogno e di desiderio.

Immaginandola come una terra di nessuno, un confine poroso e ampio, attraverso il quale avvengono numerosi movimenti e “ripiegamenti”, Butler è dell'opinione che proprio sulla “linea di confine” che distingue – ma solo logicamente, e quindi in apparenza – il singolo individuo dalle dinamiche di potere in cui si trova immerso, avvengano quelle modificazioni capaci di determinare realmente la regolamentazione del soggetto, e capaci di illustrarci perché il soggetto sia effettivamente compartecipe del proprio assoggettamento. Se Foucault e Bourdieu hanno segnalato il fatto che la volontà del singolo individuo è indotta, in un certo senso, a “ripiegarsi su se stessa” e a incorporare la norma da cui dipende la propria esistenza, Butler si propone di sondare in che modo, concretamente, ciò accada, ossia su quale debolezza dell'io si rivalga l'assoggettamento e quale forma di “attaccamento” debba realizzarsi affinché il soggetto “incorpori” la legge repressiva.

Federico Zappino sintetizza correttamente la questione, quando afferma che «questa incorporazione del potere da parte dei soggetti opera dunque nei termini di un'obbedienza preventiva, informando anche i tentativi e le strategie di opposizione al potere»231. Il motivo

dell'obbedienza preventiva, nell'opera butleriana, compare per la prima volta nel cruciale testo d e La vita psichica del potere. In esso, la duplicità del significato di “subjection” – il sottotitolo originale del libro è Theories in Subjection – viene esplorata a fondo e scandagliata nella sua aporeticità. Si domanda Butler: «se la soggezione stabilisce la condizione di possibilità dell'agire, come può quest'ultimo essere concettualizzato in opposizione alle forze della soggezione?»232.

La natura aporetica del potere, al contempo assoggettante e soggettivante, è un importante risultato foucaultiano233 dal quale Butler non intende prescindere. Tuttavia, il suo sforzo è

orientato nella direzione di un approfondimento dei modi con cui i soggetti contribuiscono alla riproduzione e proliferazione del potere; di quei modi, cioè, con cui i soggetti contribuiscono a rinsaldare le condizioni del proprio assoggettamento come unica via verso la soggettivazione politica.

231 F. ZAPPINO, Il potere della melanconia, in J. Butler, La vita psichica del potere, cit., pp. 7-37, p. 25.

232 J. BUTLER, La vita psichica del potere, cit., p. 49.

Secondo la filosofa statunitense, le condizioni di riproduzione dell'assoggettamento da parte dei soggetti stessi costituisce un problema che né Foucault né la psicoanalisi hanno posto in maniera chiara. Non lo ha fatto Foucault, nella misura in cui si è limitato a descrivere le “emersioni” concettuali e materiali dovute all'intrecciarsi dei rapporti tra i soggetti e i regimi di potere; ma non lo ha fatto neppure la teoria psicoanalitica, adottando la soluzione della “repressione” intrapsichica senza indagarne le relazioni con le condizioni sociali che la provocano.

L'idea portante della costellazione teorica che andiamo ad analizzare è che se la soggettivazione è pur sempre un esercizio di potere – perché dal potere il soggetto singolo trae la sua possibilità di esistenza, il suo riconoscimento e la sua agibilità politica – è anche vero che il potere permette la soggettivazione perché in questa possibilità è racchiusa la sua stessa proliferazione. Il cosiddetto “potere” non può perciò essere qualcosa di estraneo, di trascendente, rispetto a coloro che “assoggetta”, e neppure può essere semplicemente un bene o una qualità dei soggetti stessi, dato che costituisce la condizione stessa della loro possibilità, la “materia” di cui si sostanziano i loro atti e le loro scelte. Di conseguenza, secondo Butler, è possibile affermare che il potere ha una “vita psichica”, cioè che esiste nelle identità e nelle volontà dei soggetti, è “performato” insieme a queste identità e “prodotto” – a sua volta – dallo scenario psichico dei soggetti che contribuisce ad assoggettare.

Il progetto butleriano, allora, non può che consistere in un tentativo di porre in dialogo Freud e Foucault, per la convinzione che sia opportuno “dislocare” la psiche dall'ambito tradizionalmente assegnatole, ossia quello dell'interiorità della persona, e allo stesso tempo ripensare il potere foucaultiano come una strategia relazionale fondata sulla “melanconia”.