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Retorica della soggettivazione

Proseguiamo, dunque, in una ricostruzione del dialogo butleriano con le sue fonti alla ricerca di queste “motivazioni”, della “necessità” e degli “effetti sistematici” che danno vita all'ingannevole teleologia della coscienza. Per cercare di capire il senso dell'affermazione di Derrida, proviamo a penetrare i “segreti” della forza illocutoria attribuiti a un certo tipo di parlare.

Il linguaggio offensivo esemplifica meglio di altri fatti come sia generalmente accettata l'idea che tra il soggetto e i propri atti – anche linguistici – ci sia una relazione di responsabilità diretta e che la possibilità di identificarne l'autore conferisca all'atto stesso il suo significato più proprio. Scrive Butler: «si pensa che chi pronuncia parole offensive eserciti un potere sovrano per fare ciò che dice nel momento in cui lo dice»75 e ciò, sostiene l'autrice, per una

certa analogia con il modo di agire del potere giuridico statale, le cui dichiarazioni sono letteralmente “atti” di legge. Il risultato di questo modo di interpretare la capacità linguistica è più che controverso.

Collocandosi in via provvisoria all'interno dell'ipotesi che definisce condotte ugualmente lesive il discorso d'odio, la rappresentazione pornografica della donna, lo slang usato nella musica rap e la rappresentazione esplicita dell'omosessualità in forme d'arte e di protesta, Butler pone al centro delle proprie opere un esercizio di decostruzione del modello di soggettività che di quell'ipotesi costituisce il presupposto ideologico. L'analisi di Parole che

provocano prosegue così:

sembra che questa qualità del performativo [la sua forza illocutoria], qualità che lo rende “simile a un atto”, sia essa stessa una realizzazione di ordine diverso e che de Man avesse visto giusto quando si chiedeva se non diamo vita a una figura retorica quando sosteniamo che il linguaggio “agisce”, che il linguaggio si dà in una serie di atti distinti e che la funzione primaria del linguaggio potrebbe 74 J. DERRIDA, op. cit., p. 419.

essere intesa come questo tipo di agire ricorrente76.

La decostruzione di queste tre tesi sulla natura “attiva” del linguaggio – che il linguaggio agisce in senso proprio, che questo agire consiste in atti distinti e che questi atti costituiscono la sua prima e principale funzione – è svolta da Paul de Man nel saggio Retorica della

persuasione, incluso nell'opera Allegorie della lettura (1979)77. Secondo de Man, quale sia la

figura retorica a cui diamo vita quando pensiamo il linguaggio in questi termini è illustrato da Nietzsche in diversi passi delle sue opere più mature. In particolare, in uno dei Frammenti

postumi, si ritrova un Nietzsche che “gioca” a sovvertire il performativo illocutorio di Austin,

quando scrive:

Lo “spirito”, qualcosa che pensa...: qui viene immaginato in primo luogo un atto che non esiste, “il pensare”, e in secondo luogo un substrato soggettivo in cui ha origine ogni atto di questo pensiero e nient'altro: cioè tanto il fare quanto l'autore sono fittizi [sowohl das Tun, als der Täter sind

fingiert]78.

L'affermazione secondo cui “il pensare” non è un atto significa – secondo de Man – che l'operazione intellettuale che isola un singolo atto di pensiero e lo ipostatizza crea una

finzione. Il pensare è immaginato come l'attributo di un soggetto: “lo spirito”, il quale

fungerebbe da sostrato performativo che rende intelligibile il suo proprio agire come una serie discreta di atti e momenti distinti di pensiero. E tuttavia, sia il sostrato che il suo predicato vengono detti “fittizi”. O meglio: solo “in secondo luogo” il substrato soggettivo è un prodotto dell'immaginazione; “in primo luogo”, infatti, Nietzsche è interessato a denunciare la finzionalità dell'atto stesso. De Man intravede qui un'opposizione – labile – tra reale e fittizio che specifica come l'agire del pensiero, la produzione performativa di “idee” e “rappresentazioni”, non si traduca immediatamente in una “realtà” [il pensare...un atto che

non esiste], ma resti in qualche modo sospesa a livello dell'immaginazione, producendo effetti

dallo statuto indefinito79.

76 Ivi, p. 63.

77 P. DE MAN, Rhetoric of Persuasion, in Id., Allegories of Reading. Figural Language in Rousseau, Nietzsche,

Rilke and Proust, Yale University Press, London 1979; trad. it. di E. Saccone, Retorica della persuasione, in

Id., Allegorie della lettura, Einaudi, Torino 1997, pp. 130-143.

78 F. NIETZSCHE, Frammenti postumi (1887-1888), in Id., Opere di Friedrich Nietzsche, a cura di G. Colli e M.

Montinari, trad. it. di S. Giametta, Adelphi, Milano 1971, Vol. VIII, tomo 2, p. 263.

79 Secondo de Man, «Nietzsche non è interessato alla distinzione tra atti linguistici (o di pensiero) e, dall'altro lato, atti che non sarebbero verbali. S'interessa invece alla distinzione tra atti linguistici e altre funzioni verbali che non sarebbero performative (come il conoscere)». In una logica austiniana, il conoscere si oppone all'agire come il linguaggio constativo si oppone a quello performativo, e il primo finisce per essere quasi “svuotato” di significato perché il performativo si rivela capace di inglobarlo al proprio interno. Nel passo

Rifacendosi a de Man e alla sua penetrante analisi dell'opera nietzscheana, Judith Butler richiama l'attenzione su come il progetto di Austin di ridurre il linguaggio constativo a quello performativo possa essere considerata un'ambizione; un'ambizione fallimentare – o potenzialmente fallimentare – se, come ha notato Derrida, il suo schema deve prevedere una serie sempre maggiore di eccezioni, per rimanere coerente. Ribaltando l'incoerenza in un punto di possibile resistenza al potere coercitivo, e privilegiando la prospettiva dei fallimenti, Butler può concludere che non tutti i cosiddetti “atti linguistici” performativi hanno la forza di produrre effetti o dare inizio a una serie di conseguenze coercitive su chi ascolta.

Per esempio, posso anche enunciare un atto linguistico illocutorio, nei termini di Austin, quando dico “Ti condanno”, ma se non sono nella posizione di presentare le mie parole come vincolanti, anche se ho enunciato un atto linguistico, quell'atto è, nel senso di Austin, infelice o inopportuno: se ne esce indenni. […] Se enuncio un performativo che poi fallisce, vale a dire se do un ordine e nessuno lo ascolta o vi obbedisce, oppure se faccio una promessa o un giuramento e non c'è nessuno a cui o davanti a cui il giuramento o la promessa possono essere pronunciati, compio sempre un atto, ma si tratta di un atto che ha scarso o nessun effetto (per lo meno, che non ha l'effetto prefigurato dall'atto stesso)80.

L'analisi del frammento postumo fatta da de Man suggerisce che già in Nietzsche quest'oscillazione tra parola e azione efficace fosse chiaramente tematizzata e ci richiama al secondo corno del problema, che consegue dal primo in base a una “logica” decostruttiva: se l'agire linguistico, il “porre” delle categorie del pensiero non è mai definitivo, ma sempre viziato da un prospettivismo immaginifico che mischia realtà e finzione, dietro “l'atto” non può esistere un “soggetto” in senso forte, cioè un soggetto che si lasci racchiudere in una definizione identitaria certa.

Accanto ad analisi prettamente linguistiche come quella appena esaminata, il corpus nietzscheano comprende anche passi in cui il prospettivismo gnoseologico è presentato come il risultato di un'operazione di carattere politico. La Genealogia della morale (1887)81, da

questo punto di vista, offre forse l'esempio più significativo e Butler – come già il Foucault autore di Nietzsche, la genealogia, la storia – attinge a piene mani dalle sue pagine. In un

nietzscheano appena citato, spiega de Man, «questa concezione dell'azione come una “realtà” opposta all'illusione della conoscenza è, a sua volta, sovvertita. Il linguaggio performativo non è meno ambivalente nella sua funzione referenziale del linguaggio della constatazione. […] [Il testo] mette in questione non solo l'idea che il linguaggio possa agire correttamente, ma addirittura l'idea che esso agisca»: P. DE MAN, op. cit.,

pp. 138-140.

80 J. BUTLER, Parole che provocano, cit. p. 24.

81 F. NIETZSCHE, Zur Genealogie der Moral. Eine Streitschrift [1887]; trad. it. di F. Masini, Genealogia della

lessico retorico di ispirazione nietzscheana, Butler ricorda che il processo di individuazione di un soggetto è illustrato dal filosofo tedesco come una “relazione di metalessi fra atto e agente”82 che avrebbe prima di tutto un'utilità sociale: dare soddisfazione all'esigenza di

assegnare a qualcuno la responsabilità del male, e in questo modo di rendere il male intelligibile. La ricerca di un capro espiatorio che sostenga socialmente il peso del dolore sofferto da alcuni finirebbe per risolversi nell'istituzionalizzazione, a livello sia linguistico che immaginativo, della duplice “finzione” della responsabilità di altri: da una parte, si avrebbe la trasformazione di un “agire” in un “atto”; dall'altra, la trasposizione di un “fare” prima in un “essere” e poi in un “agente”, identificabile in ultima istanza con la coscienza morale che

guida responsabilmente le azioni di questo soggetto.

Scrive infatti Nietzsche, in uno dei passaggi più noti della sua Genealogia:

un quantum di forza è esattamente un tale quantum di istinti, di volontà, d'attività […] e può apparire diversamente soltanto sotto la seduzione della lingua (e degli errori radicali, in essa pietrificatisi, della ragione), che intende e fraintende ogni agire [Wirken] come condizionato da un agente [Wirkendes], da un «soggetto» [Subjekt]. Allo stesso modo, infatti, con cui il volgo separa il fulmine dal suo bagliore e ritiene quest'ultimo un fare [Thun], una produzione di un soggetto, che viene chiamato fulmine, così la morale del volgo tiene anche la forza distinta dalle estrinsecazioni della forza, come se dietro il forte esistesse un sostrato indifferente, al quale sarebbe consentito estrinsecare forza oppure no. Ma un tale sostrato non esiste: non esiste alcun “essere” [Sein] al di sotto del fare [Thun], dell'agire [Wirken], del divenire [Werden]; “colui che fa” [der Thäter] non è che fittiziamente aggiunto [hinzugedichtet] al fare [Thun] – il fare è tutto83.

L'operazione descritta da Nietzsche ha, nel testo in cui è inserita, la funzione di rendere conto di alcuni rapporti che sono all'origine della morale, ma questa scena attrae l'interesse di Butler nella misura in cui provoca un'incrinatura nel modello di agency che, con Austin, possiamo definire dotata di un potere “illocutorio”. Mettendo a fuoco come il soggetto, ritenuto autore

82 J. BUTLER, Parole che provocano, cit., p. 63. La metalessi [dal gr. Metálēpsis, “partecipazione”, “scambio”,

“trasposizione”] è un particolare tipo di sinonimia che prende la forma di «un effetto presente attribuito a una causa remota, quando tra l'una e l'altro non ci sia un collegamento diretto, ma si debba passare per uno o più anelli intermedi, che vengono omessi». Queste nozioni intermedie, che rimangono implicite nella

sostituzione, «sono, l'una rispetto all'altra, sineddochi, metonimie, metafore, alternative o coesistenti»: B. MORTARA GARAVELLI, Manuale di retorica, Bompiani, Milano 2008, pp. 140-141. Pertanto, una “metalessi

fra atto e agente” indica un traslato tale per cui un effetto presente – un evento – viene collegato a un altro termine che ne costituirebbe l'agente o la causa efficiente, mediante una serie di passaggi sottintesi attraverso altri termini sostituiti o accostati l'uno all'altro, i quali finiscono per “scomparire” dietro al termine “ultimo”, quello identificato come l'origine del movimento.

delle proprie azioni e locuzioni, non sia in realtà un'origine, bensì il risultato di un processo di costruzione finzionale – l'effetto della “seduzione” della lingua e della ragione – l'analisi di Nietzsche spinge verso la crisi il paradigma della soggettività sovrana.

Nel brano citato, la genesi di questo paradigma resta appena adombrata, apparendo il “soggetto” un mero risultato linguistico; e tuttavia sarebbe un errore fermarsi all'impressione che sia la grammatica, di per sé, a richiedere l'isolamento di un soggetto agente in grado di sostenere l'onere della predicazione. La lingua ha per Nietzsche una funzione eminentemente pratica, comunicativa e sociale. Come sottolinea opportunamente de Man, questo soggetto “fittiziamente aggiunto al fare” non è tanto un'esigenza grammaticale, bensì, eventualmente, un'esigenza retorica, perché il termine hinzugedichtet, “aggiunto per invenzione poetica”84,

rimanda chiaramente al contesto della scrittura creativa, dell'immaginazione, e dell'interpretazione mitologica; a quel contesto così temuto da Austin da fargli concepire una teoria linguistica priva di punti di riferimento per l'interpretazione degli usi retorici del linguaggio. Lo scambio dell'effetto per la causa, non a caso, è uno dei procedimenti più frequenti alla base della costruzione dei miti dei popoli antichi85.

Se la lingua di cui ci serviamo quotidianamente opera in maniera retorica, cioè tale da costruire “figure” a nostro uso e consumo, il cui valore conoscitivo è sempre parziale e prospettico, ciò è dovuto, secondo Nietzsche, a una “matrice” di natura morale e politica che, di fatto, vanifica la tesi di un soggetto-origine. Dato che questo presunto soggetto conosce se stesso solo “retrospettivamente”, nel momento in cui esamina le proprie azioni e l'immagine che la società gli rimanda, l'autocoscienza può dirsi un'esperienza interamente “retorica”

perché sempre mediata dai “prodotti” finzionali che l'io stesso produce dietro un impulso

proveniente dal mondo sociale. Tali prodotti finzionali, per Butler, non sono altro che le categorie che designano le identità socialmente intelligibili e le separano dalle identità impossibili.

84 «L'uso del termine “hinzugedichtet” (“aggiunto per invenzione poetica”), come anche il contesto, indicano che l'azione è qui concepita in stretto rapporto con gli atti linguistici della scrittura, della lettura e

dell'interpretazione»: P. DE MAN, op. cit., p. 137.

85 La stessa relazione causale, il fondamento di ogni gnoseologia, scienza e sapere filosofico, non sarebbe, secondo Nietzsche, estranea ai medesimi “moti affettivi” che animano la superstizione: «il volgo, in fondo, duplica il fare; allorché vede il fulmine mandare un barbaglio, questo è un far-fare: pone lo stesso evento prima come causa, e poi ancora una volta come effetto di essa. I naturalisti non agiscono in modo migliore quando dicono: “La forza muove, la forza cagiona” e simili – la nostra intera scienza, a onta di tutta la sua freddezza, della sua estraneità a moti affettivi, sta ancora sotto la seduzione della lingua e non si è sbarazzata di questi falsi infanti supposti [Wechselbälge], i “soggetti” (l'atomo è, per esempio, un siffatto infante supposto, così come la kantiana “cosa in sé”)»: F. NIETZSCHE, Genealogia della morale, cit., p. 244. Il

termine Wechselbalg, il “bambino scambiato” nella culla dagli elfi o dal Diavolo, secondo le credenze popolari medievali, compare in questo passo proprio a dimostrazione della vicinanza sussistente, secondo Nietzsche, tra conoscenza scientifica e superstizione.