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Contraddizioni performative

Nell'ottica di un possibile ampliamento e una possibile rielaborazione della stessa nozione di universalità, quali siano i mezzi per operare una rottura con le versioni correnti di essa Butler lo ribadisce in continuazione sotto la denominazione di contraddizione performativa.

Una contraddizione performativa, intesa come fenomeno linguistico – descritto, fra gli altri, da John Austin361 – si verifica quando «i l contenuto semantico di un atto linguistico

contraddice una o più presupposizioni pragmatiche dell'atto stesso»362. Secondo Butler, tale è

la condizione di coloro che sono esclusi dalla definizione corrente di universalità e che, senza autorizzazione, iniziano a parlare proprio dall'interno di quell'universale, o dalla condizione divisa di chi è al contempo autorizzato e non autorizzato a farlo.

Impadronirsi di parole “proibite” – perché riservate a una maggioranza di “altri”, o, viceversa, perché considerate oscene e impronunciabili da parte della maggioranza stessa – può riuscire a mostrare il carattere contraddittorio delle definizioni in uso, a sfidare le nozioni esistenti mediante l'esibizione dei loro limiti contingenti. Tali limiti sono corporei e sociali; essi sono costituiti da quegli “esclusi” che, pur non avendo titolo a farlo, dichiarano di poter utilizzare l'universale legittimamente.

A proposito della contraddizione performativa, Butler spiega che:

quel parlare non è solo una semplice assimilazione a una norma esistente, perché quella norma è fondata sull'esclusione di colui o colei che parla e le cui parole mettono in questione la fondazione dell'universale stesso. Parlare e far vedere l'alterità all'interno della norma (l'alterità senza la quale la norma non “conoscerebbe se stessa”) mostrano il fallimento della norma nel produrre l'ambito universale che essa permette e mostrano altresì ciò che potremmo mettere in rilievo come

ambivalenza promettente della norma363.

361 Austin utilizza “il gatto è sul tappeto ma non credo che lo sia” come esempio di asserzione che «non possiamo dire», in quanto «il fatto che io dica “il gatto è sul tappeto” dà per implicito che io credo che ci sia»: J.L. AUSTIN, Come fare cose con le parole, cit., p. 39. Si tratta, per Austin, di “procedure che si

vanificano da sole”: cfr. ivi, p. 41.

362 C. ROVERSI, Sulla funzione fondazionale della contraddizione performativa, in La contradizion che nol

consente. Forme del sapere e valore del principio di non contraddizione, Franco Angeli, Milano 2010, pp.

223-251, pp. 227-228.

Ciò che qui Butler sta definendo è quella che altrove Zappino descrive come una “de- psicologizzazione” della psiche e del desiderio364. Dal testo citato si coglie sempre meglio

come l'inconscio del potere sia dato da ciò che resta impensato dalla norma, ciò che non è compreso nella sua formulazione e che costituisce il potenziale nucleo del suo fallimento: l'inconscio e il desiderio, per Butler, passano dall'identificare un “frammento” di corpo o di desiderio non totalmente distrutto dall'aggressività della norma, a identificare il gruppo

sociale degli esclusi dalla logica normalizzante.

La contraddizione performativa mette in rilievo il fatto che l'universale funziona davvero come “universale” solo quando viene considerato un ideale aperto, determinato – è la definizione di Butler – dal “non-ancora”. Quando la linea di confine tra dicibile e indicibile è soggetta a spostamenti e aperture, ciò che resta esterno all'universale può richiamare su di sé l'attenzione di chi nell'universale vive in maniera pacifica. Solo chi vive all'esterno può

desiderare – e perciò anticipare immaginativamente – un concetto di universale più ampio,

più comprensivo, capace di oltrepassare i limiti attuali già immaginati.

Far derivare la capacità di agire dai fallimenti performativi del potere significa, per Butler, rivolgere l'universale contro se stesso, rimettere in campo l'uguaglianza contro le sue attuali formulazioni.

Un esempio significativo fra quelli già incontrati è ritrovato da Butler nelle ricerche foucaultiane sul “dispositivo di sessualità”. La logica discorsiva che accompagna la presunta repressione dei desideri umani finisce per esaltare la sessualità come tema e per condurla al centro del proprio parlare, che si trasforma presto in confessione; la sessualità, in questo modo, «si appropria di discorsi inaspettati»365: il “no” della repressione si trasforma in uno

“strano tipo di sì” al sesso, in accordo con la logica psicoanalitica stessa che afferma la compresenza degli opposti nell'inconscio. La proibizione può fungere da legge inconscia del discorso solo finché resta ad esso sconosciuta; una volta denunciata, essa viene tematizzata e portata alla luce. La negazione proibizionista della pastorale cattolica subisce un rovesciamento che coincide con una ricontestualizzazione all'interno dei discorsi analitici della psicologia del profondo; in questo modo il divieto produce un nuovo tema di discorso, ossia la sessualità repressa intesa come oggetto scientifico di ricerca.

Questo caso descritto da Foucault è rappresentativo del modo in cui un'enunciazione repressiva – quindi la ripetizione di una legge proibitiva –, trasferita al di fuori del proprio

364 F. Zappino, Il potere della melanconia, cit., p. 28. 365 J. BUTLER, Parole che provocano, cit., p. 133.

contesto, trasposta in un contesto di denuncia, rompe con l'intenzione che l'ha originata e viene rimessa in circolo senza che sia sotto il controllo di nessun soggetto.

Il vero protagonista del movimento del potere è il discorso che prolifera e che conosce incitamenti. Ogni discorso produce la propria opposizione e resistenza perché ogni discorso funziona secondo una propria logica che, in quanto definisce, nega, cioè esclude. Ciò che resta escluso o senza voce, frainteso, misconosciuto, si oppone, insorge, pretende riconoscimento. Ogni discorso crea la propria resistenza perché ogni discorso è, nei fatti, intriso di una valenza “repressiva”; tuttavia, quest'ultima attiva suo malgrado una dialettica produttiva che, di opposizione in opposizione, lascia emergere nuove identità.

Questa sorta di movimento dialettico, privo di sintesi ma di ispirazione apertamente hegeliana, è frutto della particolare rilettura butleriana della struttura del potere descritta da Foucault. Diversamente da quanto accade in Hegel, per Butler il momento sintetico dell'accordo che trattiene per superare, per elevare l'universale ad una configurazione di significato superiore, è sempre provvisorio e, per definizione, indefinitamente aperto alla contestazione. Come in Foucault, nella dialettica butleriana il movimento interessa il significante che, trasferito all'interno di un contesto semiotico diverso, conosce una risignificazione ad opera del contesto discorsivo in cui è inserito. Più marcata rispetto a Foucault, tuttavia, è la fiducia di Butler nelle potenzialità eversive e oppositive dell'utilizzo intenzionale di un simile processo. Mentre, per il filosofo francese, gli spostamenti di significato si producono quasi sempre di concerto alle esigenze disciplinari e alle strategie di controllo da esercitare sulla popolazione, Butler ritiene che le stesse modalità di decostruzione e ricostruzione discorsiva siano a disposizione delle istanze di resistenza.

Se, per autrici come McKinnon e Matsuda, ricontestualizzare equivale a operare una falsificazione dell'intenzione del parlante, quindi a tradire una verità mediante l'attribuzione dall'esterno di un nuovo valore semantico, Butler replica con il suo sostegno al valore erotico e produttivo dell'ambiguità. Dopotutto, l'ambito del fantasmatico è quello che non ubbidisce a una logica disgiuntiva rigorosa, per cui “sì” e “no” sono vicendevolmente incompatibili. Quella dell'ambivalenza è una logica “erotica” in cui il “sì” e il “no” possono coesistere, anche se tutt'altro che pacificamente. La ricontestualizzazione è, in questo senso, un evento investito di erotismo.

Mentre Hegel, pur avendo sostato a lungo in questa logica, ha preferito concludere il capitolo dell'Autocoscienza con un'uscita da questo stato di alternanza continua mediante il salto qualitativo nella trascendenza, Butler preferisce rimanere dentro l'ambivalenza poiché quest'ultima le appare come il modello di tolleranza che le società contemporanee inseguono.

“Erotismo”, in questa chiave, equivale a tolleranza, apertura curiosa all'estraneo, al diverso non già noto. Poiché il contesto non è mai del tutto determinabile, come anche il significato, la speranza di Butler è solo quella che il contesto non sia mai stabilito a priori e non sia fissato una volta per tutte. Le definizioni devono sempre essere formulate a posteriori, emergere dalla lotta delle interpretazioni, essere sempre disponibili a una risignificazione.

L'apertura del contesto, del resto, rimanda al fatto che, nonostante la grande attenzione riservata all'analisi del linguaggio, il sociale conserva in Butler un ruolo costitutivo. Infatti, benché sia vero che il linguaggio non è riducibile – per Butler – a un riflesso, a una superficie esterna rispetto a un livello sottostante, strutturale, della società, è opportuno chiarire che di esso non si può nemmeno parlare come del depositario ultimo di un potere incontestabile, inaggirabile, al quale niente si oppone veramente perché nessuna contestazione può permettersi di trascendere il linguaggio. Ancora in Parole che provocano, Butler afferma che «i termini che facilitano il riconoscimento sono essi stessi convenzionali, sono gli effetti e gli

strumenti di un rituale sociale che decidono, spesso attraverso l'esclusione e la violenza, le

condizioni linguistiche dei soggetti che possono sopravvivere»366.

L'ambito del sociale resta la dimensione più propria della soggettivazione dei corpi, che si realizza mediante l'imposizione di habitus e di condizionamenti formativi da parte dell'ethos pubblico – benché il linguaggio occupi senz'altro il ruolo privilegiato del medio che permette l'articolazione e la comunicazione di questi modelli culturali.

Più radicalmente di quanto avvenga in Derrida, Butler riscopre il terreno sociale, la pratica del gruppo concreto e storicamente determinato che dà sostegno a ogni possibile esercizio di contro-interpellazione, per ottenere con essa specifiche vittorie sul piano politico. L'analisi butleriana del linguaggio, volta a denunciare le strumentalizzazioni del discorso politico, smascherare le false promesse e verificare i limiti di discorsi retorici fintamente neutrali, oggettivi, scientifici, rivela l'intento di tenere salda la separazione fra ruolo del discorso e consistenza del corpo, che occupa lo spazio dell'indicibile per eccellenza. Il corpo, il desiderio, il singolo individuo sono ciò che sempre sfugge alle maglie del discorso universale. Il linguaggio non può creare, come per magia, una realtà politica e sociale dal nulla, perché il senso del linguaggio non è racchiuso nel solo significante emesso qui e ora, bensì risiede nel tempo lungo dell'iterazione sociale. La temporalità linguistica è quella che sostiene e abilita la temporalità del singolo individuo – senza che esso ne abbia consapevolezza – proprio perché la temporalità del discorso sociale affonda in una storia le cui origini si perdono all'indietro in modo irrecuperabile. Anzi: l'effetto coartante di un'interpellazione è dovuto proprio a questa

irrecuperabilità. Il legame fra le due temporalità è stretto proprio in quanto la temporalità del soggetto non può dominare il tempo più vasto e intrattabile del discorso sociale.

Si ha proprio qui, come abbiamo visto, la prima faglia nella continuità del volere soggettivo: il primo sintomo della limitatezza del soggetto sedicente sovrano. «Se siamo formate nel linguaggio, allora quel potere formativo precede e condiziona qualsiasi nostra decisione su di esso, insultandoci sin dall'inizio, per così dire, mediante il suo potere anteriore»367. Il soggetto

costituito dall'interpellazione è un soggetto che non può più rappresentarsi come l'artefice di se stesso: l'interpellazione sociale, nel momento in cui lo costituisce, priva il soggetto di ogni possibilità di autopoiesi. Questa “ferita narcisistica” inferta al soggetto è quella stessa da cui si origina il sogno riparatore di questa possibilità.

D'altra parte, in base a quanto abbiamo visto, non solo è impossibile sfuggire a questa subordinazione, ma, per Butler, non è nemmeno auspicabile, se non al prezzo di distruggere la condizione di possibilità del soggetto stesso. Posta di fronte a un'ambivalenza di difficile soluzione, Butler difende con fermezza la sua preferenza per l'opzione teorica “perlocutoria”: secondo quanto lei stessa afferma, «i meccanismi dell'interpellazione potrebbero pure essere necessari, ma non per questo sono meccanici o totalmente prevedibili. Il potere di offendere che un appellativo ha è distinto dall'efficacia con cui quel potere viene esercitato. Di fatto, il potere non è così facile da identificare o da localizzare come sembrerebbero sottintendere alcune teorie dell'atto linguistico»368.

L'accenno implicito, qui, è di nuovo ad Althusser. Secondo la filosofa americana, Althusser è incompleto e ingenuo, quando scrive che l'assoggettamento ha luogo contestualmente al voltarsi verso la voce dell'autorità. Il processo dell'assoggettamento, infatti, non deve per forza avere origine in un richiamo dell'autorità, né soltanto in un richiamo vocale, e tantomeno si può dire che abbia “un'origine”. Il modello althusseriano dell'ideologia ricalca il modello del performativo sovrano, o, per meglio dire in questo caso, “divino”. La voce del poliziotto che richiama il passante viene esplicitamente interpretata da Althusser mediante il paradigma della voce biblica che crea per subordinare. Il nome assegnato dalla volontà divina reca in sé la presenza di colui che l'ha pronunciato, ed è per questo che la sua forza sembra risultare incontestabile. Nell'accentuare il ruolo del momento dell'enunciazione vocale, inoltre, Althusser trascura di considerare le modalità oblique e i meccanismi discorsivi multiformi attraverso i quali passa effettivamente il processo di attribuzione di un nome369.

367 Ivi, pp. 1-2. 368 Ivi, p. 50.

369 «Il nome interpellativo può arrivare senza che ci sia qualcuno che parla, come accade, per esempio, nei moduli burocratici: in un censimento, nei documenti per un'adozione, nelle domande di lavoro. Chi pronuncia tali parole? La diffusione burocratica e disciplinare del potere sovrano produce un terreno di potere

Ciò che pensa Butler è significativamente diverso. La filosofa ammette che il soggetto sia segnato da una costitutiva vulnerabilità all'altro, ma distingue concettualmente quest'ultima da una disposizione essenziale alla subordinazione. La vulnerabilità butleriana si impernia sul modello del performativo perlocutorio e riconduce con ciò il parlare umano entro i propri termini e limiti370. Enfatizzando il potere creativo del linguaggio si rischia infatti di cadere in

una distorsione delirante delle reali capacità del soggetto.

In verità ogni soggetto parlante esercita un potere solo derivato, sempre preso nei lacci della convenzionalità delle pratiche sociali. Ogni atto linguistico cita di fatto una convenzione linguistica; ha luogo nel presente ma è sostenuto dalla temporalità più vasta della convenzione a cui si richiama. E' l'iterazione di una pratica rituale o cerimoniale a permettere che questa pratica abbia effetti nel presente e – in modo caratteristico in Butler – a permettere che abbia effetti anche quando il bersaglio la ignora.

La sua critica ad Althusser trova qui il suo cuore teorico: non è indispensabile che sia una voce a interpellare, affinché si crei un'identità, così come non è indispensabile che qualcuno si volti nella direzione della voce, si riconosca e si appropri in modo riflessivo dell'identità offertagli, affinché si abbia, oltre a un'apostrofe, un caso di interpellazione riuscita. L'attribuzione di identità linguistica può avvenire all'insaputa del soggetto in questione, senza che egli ascolti, senza che nessuno si volti. A rigore, l'interpellazione funziona anche senza un assenso da parte dell'interpellato, persino di fronte alla sua protesta. Proprio perché ciò che ha luogo nel momento performativo dell'appello non è un'operazione singolarizzante, individualizzante, descrittiva di una realtà che già esiste, vera o falsa; al contrario: l'attribuzione di identità è un'operazione generalizzante, riconduce il particolare ad una categoria più ampia e ve lo fa scomparire. Introduce a forza una realtà che è citazionale, inaugura un soggetto che con la sua esistenza contribuisca alla perpetuazione della specie. L'individuo diviene un certo soggetto in quanto si ritrova in uno stato di assoggettamento che si rinnova nello spazio e nel tempo e lo rinnova come attore sociale.

Riassumendo, quindi, ciò che abbiamo fin qui guadagnato, possiamo affermare che ogni tentativo di avvicinamento al soggetto è solo un'approssimazione e deve essere condotto come tale. Il soggetto butleriano è una sorta di eco, o di riverbero, che si crea tra due sponde, anch'esse sfumate, distinguibili tra loro solo come esercizio logico. Da una parte si collocano vari meccanismi di interpellazione, che si diffondono a livello sociale per bocca di funzionari

discorsivo che opera senza soggetto, ma che costituisce il soggetto nel corso del suo operare»: ivi, p. 49. 370 «Il parlare umano raramente mima quell'effetto divino: solo nei casi in cui il parlare è sostenuto dal potere

statale, come quello di un giudice, dell'autorità deputata a regolare l'immigrazione o della polizia, e anche in questo caso esiste a volte la possibilità di fare ricorso per rifiutare quel potere»: ivi, p. 47.

e di emissari di un potere sovrano assente, originario al modo del mito. Sull'altro versante una realtà che Butler si guarda bene dal definire, talvolta accostata al “corpo” foucaultiano, caratterizzato, sembra, da un unico persistente desiderio, quello spinoziano-hegeliano di autoconservazione. Il corpo indica l'esistenza di qualcuno che «è segnato o segnata» dall'appello ma «non è descritto o descritta da esso»371, per l'ovvio motivo che qualsiasi

descrizione se ne tentasse, dovrebbe avvalersi di termini discorsivi appartenenti allo stesso potere interpellante. In questo senso «una persona è ancora costituita dal discorso, ma a distanza da se stessa. L'interpellazione è un appello che regolarmente manca il bersaglio»372. Il

linguaggio non riesce mai a “dire la verità” di ciò che si situa fuori di lui; riesce solo ad attribuirgli un nome – e quindi nemmeno Butler può nominare esaurientemente nei suoi scritti ciò che il soggetto è prima o al di là di essere “soggetto”.

Possiamo pensare tuttavia al “soggetto” come a una trama di richiami dall'una all'altra sponda, come l'iterazione di interpellazioni linguistiche che si diparte dalla sponda del “potere” ma che subisce delle modificazioni impercettibili ogni volta che si scontra con la sponda dei “corpi”. La vita del soggetto sociale è permessa dal rinnovarsi continuo di un appello, ma, nota Butler, questo appello non aderisce semplicemente al corpo su cui si dirige: l'appello viene reso fattivo dalla performance sociale incorporata, nei modi e con lo “stile” peculiare con cui avviene ogni singolo incorporamento.

Come insegna Derrida, infatti, ogni ripetizione è sempre un tradimento dell'originale, poiché ogni performance è sempre un'esecuzione unica nel suo genere, destinata in buona misura a tradire – consapevolmente o meno – la partitura originale. Proprio su questa defaillance del linguaggio del potere è possibile concentrarsi per capire che la sua efficienza possiede dei limiti e che tali limiti non sono altro che nuove potenzialità di incorporamento e di lotta politica.