Nella riflessione butleriana il concetto di melanconia si situa all'intersezione tra la teoria dell'interpellazione politica nella versione di Althusser e le ipotesi freudiane e post-freudiane sulla genesi della coscienza. Come abbiamo osservato nel capitolo precedente, la scena interlocutoria è concepita da Butler come la precondizione per la formazione del soggetto e in essa il sentimento di colpevolezza funge da anello di congiunzione psichico tra il corpo del “passante” e i termini simbolici del suo riconoscimento sociale. Nella scena allegorica althusseriana, il “senso di colpa” è ciò che la società instilla nel soggetto nel momento stesso in cui lo disciplina; è l'angoscia per la propria ineludibile imperfezione, per una condizione costitutiva che, nel caso in cui fallisca il suo tentativo di allinearsi alla “Legge”, lo espone alla contingenza e alla morte.
Eppure – è l'obiezione butleriana allo strutturalismo di Althusser – un semplice richiamo da parte dell'autorità non potrebbe essere sufficiente a forgiare un'identità se non esistesse, dall'altra parte, una qualche attesa di quel richiamo, una “predisposizione” ad accoglierlo e, cioè, a “voltarsi” nella direzione della legge. La visione althusseriana offre il fianco a critiche di incompletezza e di petizione di principio perché crea il sospetto di dare per presupposta l'esistenza di un legame tra la coscienza e la legge, anziché riuscire a descriverne l'origine e la formazione.
Non si può asserire che l'origine della coscienza abbia luogo nel mero “voltarsi” al richiamo della legge, se non si è esplicitato il “motivo” per cui il ricevente dovrebbe fare una simile mossa. Il “voltarsi” descritto da Althusser non è precisamente l'esecuzione di un ordine, la risposta a una richiesta di voltarsi; questo movimento descrive invece «uno strano tipo di “territorio di mezzo” […] la cui produzione è da imputare sia alla legge sia al destinatario della chiamata, sebbene nessuno dei due lo faccia unilateralmente o in maniera esauriente. Proprio come nessuno si volterebbe in mancanza di una chiamata, allo stesso modo nessuno si
volterebbe se non fosse disposto a voltarsi»304.
Deve esistere, quindi, in colui che si volta, una sorta di consapevolezza preliminare circa il fatto che “voltandosi” egli otterrà dei vantaggi. Sebbene questa “motivazione” sfugga poi alla soggettivazione vera e propria – cioè sfugga alla coscienza –, essa non cessa mai di condizionarla. L'atto del voltarsi, perciò, così come anticipa l'emersione del soggetto, implica anche una «precedente complicità con la legge» e un «riflesso della coscienza [che] ostacola l'esame critico della legge»305. Il soggetto sorge già preso in una relazione acritica con la
legge, nella misura in cui, prima della capacità di formulare qualsiasi domanda o obiezione, esso si trova costitutivamente “vulnerabile” alla legge. Questa vulnerabilità è, secondo Butler, a sua volta comprensibile come una forma di «desiderio preventivo per la legge», un «desiderio complice che la legge renda possibile la sua esistenza»306 e mantenga la sua
promessa di conferirgli un'identità.
Del resto, l'auto-identificarsi del passante con “colui che ha trasgredito la legge”, per come è presentata da Althusser, sembra precedere l'effettiva possibilità di costui di conoscere il contenuto della legge. Se infatti il soggetto giuridico nasce nel momento del richiamo da parte dell'autorità, e non prima, la sua “colpa” – sostiene Butler – «anticipa la conoscenza della legge ed è, in tal senso, sempre stranamente innocente»307. La relazione che intercorre tra il
soggetto e la legge è, quindi, di per sé, una relazione senz'altro molto forte e, in una certa misura, necessaria; ma non totalmente coartante. Per quanto Althusser la presenti come tale, è possibile invece che questo tipo di legame sia meno stringente di quanto si tema, o si desideri, sostenere.
Secondo Butler, infatti, quella del soggetto in direzione della legge è “un'apertura”, motivata da uno spinoziano desiderio di esistenza308 e amplificata dalle prospettive di vantaggio
promesse dal rispetto della legge. In un passo in cui spiega la propria concezione dell'assoggettamento sociale, Butler riesce a collegare insieme Spinoza, Hegel e Foucault scrivendo:
se, come sostiene Spinoza, si considera sempre il desiderio come desiderio di permanere in se stesso e si rielabora la sostanza metafisica che struttura l'ideale per il desiderio, seguendo una nozione più elastica di essere sociale, allora ci si può considerare pronti a ridefinire il desiderio di permanere in 304 J. BUTLER, La vita psichica del potere, cit. p. 130.
305 Ibidem. 306 Ivi, p. 131. 307 Ibidem.
308 «Ciascuna cosa, nel suo essere in sé, tende a continuare [perseverare conatur] nel suo essere»: B. SPINOZA,
se stessi come qualcosa di negoziabile solo nel rischioso ambito della vita sociale. Il rischio di morte è quindi co-estensivo all'insormontabilità del sociale. Se le condizioni in base alle quali si elabora, si sorregge e si ritira l'“esistenza” descrivono il vocabolario attivo e produttivo del potere, di conseguenza permanere in se stessi vuol dire essere affidati sin dall'inizio a termini sociali che non sono mai pienamente i propri. Il desiderio di permanere nel proprio essere comporta che ci si sottometta a un mondo di altri fondamentalmente non proprio (sottomissione che non si realizza in un secondo momento, ma che inquadra e rende realizzabile il desiderio stesso di essere). Soltanto se si permane nell'alterità si può permanere nel “proprio” essere309.
In senso metaforico, tuttavia, si può affermare che anche la legge sia animata da un proprio “desiderio” di esistenza, e che lo realizzi nella persona di colui che assoggetta. La richiesta di voltarsi verso la legge, infatti, non è forse fatta «per fronteggiare la legge, per dare un volto alla legge?»310. Il soggetto, come ha mostrato Nietzsche, presta il proprio volto alla legge e
presta la propria coscienza all'attività autoespansiva di questa.
Quanto detto fin qui implica due cose fondamentali: in primo luogo, che nel momento in cui il soggetto decidesse di ragionare criticamente sulle condizioni della propria esistenza, dovrebbe essere disposto a “sacrificare se stesso”, poiché effettuare una critica della legge significa in un certo senso “smontare” anche se stessi, decostruire le proprie condizioni di possibilità e mettere a repentaglio la propria identità. In secondo luogo, tuttavia, l'auto-annientamento del soggetto implicherebbe la non sopravvivenza della legge stessa – o, quantomeno, la sua destituzione nei termini correnti.
La tesi sostenuta da Butler ne La vita psichica del potere e nei testi coevi è che in Althusser e in tutti i modelli epistemologici che fanno dell'interpellazione un atto illocutorio opera sommessamente uno sfondo di impianto religioso che, alimentando strategicamente la
speranza di una redenzione dalla colpa – cioè la speranza di ricevere un'identità –, blocca
preventivamente l'analisi critica sui reali limiti operativi della legge.
In Ideologia e apparati ideologici di Stato, Althusser fa ricorso all'esempio della nominazione performativa divina perché ritiene che l'interpellazione sociale ideologica agisca in maniera simile: la metafora della “voce” dell'ideologia è indicativa del fatto che Althusser considera questa autorità inaggirabile per una sorta di qualità intrinseca, un effetto illocutorio al quale è impossibile opporsi. Secondo Althusser, questo effetto illocutorio intrinseco è dovuto alla “materialità” delle condizioni di esistenza che dettano il ritmo alla ripetizione di rituali e pratiche sociali; la sottomissione alla legge sociale precede, per Althusser, qualsiasi questione
309 J. BUTLER, La vita psichica del potere, cit. p. 64.
di ordine psicologico.
Nella sua concezione, la coscienza sembra essere inscindibile dalla riproduzione delle relazioni e delle competenze sociali apprese a scuola o nei luoghi di lavoro: il “ben parlare” [bien parler] e il “buon comandare” [bien commander] sono parte di quei “savoir-faire” che, quanto più controllati da coloro che ne fanno uso, quanto meglio assicurano l'assoggettamento di costoro all'ideologia dominante. Tuttavia – osserva Butler – nel saggio di Althusser resta non tematizzato il fatto che, affinché si attui una reiterazione delle pratiche e dei rituali sociali, si deve ammettere l'esistenza, “antecedente” alla formazione del soggetto, di un «attaccamento narcisistico alla continuazione della propria esistenza»311.
A Butler pare necessario prestare maggiore attenzione a ciò che provoca l'inclinazione psichica verso la legge perché, più di Althusser, è interessata a sostenere che se nel soggetto esiste un'inclinazione psichica “antecedente” alla legge, allora esiste anche la possibilità di isolare quell'inclinazione e dirigerla verso mete diverse dalla legge. L'obiettivo politico della filosofa americana è dimostrare che il richiamo dell'autorità non è quella forza totalizzante e illocutoria che pretende di essere, e che la caratteristica “mobilità metonimica” del desiderio fra oggetti diversi sia ciò che rende possibile – e inevitabile – un atto di resistenza al potere. L'ipotesi mancante nella versione althusseriana dell'interpellazione, indispensabile per il progetto teorico butleriano, è l'esistenza di un'attesa desiderante già in qualche modo costituitasi, una propensione a “torcersi” fisicamente e psicologicamente al richiamo dell'autorità.
La soluzione proposta da Althusser verte tutta sul ricorso al concetto di “rituale”: estranea a un'appropriazione volontaristica delle norme, la soggettivazione psichica non è neppure riducibile a uno schema schiettamente meccanicistico o comportamentistico. La formula del “rituale” evidenzia al meglio un tipo di messa in atto che prevede l'inscindibilità tra credenze e pratiche: una certa performace, osservata, appresa nelle sue minime parti, poi mimata e assimilata in maniera ripetitiva, è capace di far sedimentare nel soggetto una certa “credenza” che si attivi in tutte le esecuzioni successive della performance stessa.
La soluzione di Butler, invece, prevede di sondare più a fondo l'esperienza che “precede” il volgersi definitivo alla voce della legge, perché è convinzione della filosofa che esista un coinvolgimento con il movimento della “torsione” preesistente al riconoscimento sociale. Senza per questo insistere sulla separabilità della psiche dalle pratiche sociali, Butler ritiene che:
Althusser avrebbe senz'altro tratto beneficio da una migliore comprensione del processo secondo cui la legge diventa l'oggetto di un attaccamento appassionato, e dunque di un'inconsueta scena d'amore. La coscienza, che obbliga il passante a voltarsi quando richiamato dal poliziotto, o che conduce l'assassino per strada alla ricerca della polizia sembra, infatti, governata da un amore per la legge che può trovar soddisfazione solo in una punizione rituale. Althusser segue questa analisi quando illustra come un soggetto venga formato tramite l'appassionata ricerca del riconoscimento di uno stato rimproverante. […] Questo amore non è oltre l'interpellazione, ma anzi struttura quel circuito appassionato in cui il soggetto viene intrappolato dal suo stesso stato312.