Il recupero butleriano di Freud è funzionale a tematizzare il modo in cui l'attaccamento all'alterità possa dirsi la condizione di possibilità del nostro esistere come soggetti; contemporaneamente, questo recupero sottolinea il fatto che ogni soggetto, per esistere in quanto tale – cioè per guadagnarsi il riconoscimento sociale –, deve in una certa misura negare, rimuovere, disconoscere questa dipendenza originaria. La dipendenza da chi ci ha preceduto e ha costituito il nostro primo oggetto di desiderio, la fonte del nostro
286 Ibidem. 287 Ivi, p. 153.
sostentamento, il modello di legalità e di moralità a cui ci siamo ispirati fin da piccoli, è, di fatto, una necessità strutturale per la nostra costituzione, senza la quale non potrebbe emergere alcun Io.
Il concetto foucaultiano di “soggettivazione nella dipendenza” è così innestato dalla filosofa americana sulla concezione psicoanalitica di un soggetto psichico emergente dagli investimenti affettivi e dalle identificazioni sviluppati verso coloro dai quali dipende. La dipendenza radicale dall'altro – genitore, amante, opinione pubblica – è ciò che sorregge, ma anche limita, l'autonomia del soggetto. Il potere esercita sempre una violenza e un abuso; il luogo di questo abuso è, come ha mostrato Freud, il desiderio: il desiderio di sopravvivere, fisicamente, psichicamente e socialmente, rende gli uomini disponibili ad accettare una condizione di servitù piuttosto che vedere la propria esistenza non riconosciuta.
L'io, spiega Butler, si costituisce in relazione a – e in dipendenza da – una serie di
impossibilità, e conduce la propria esistenza nella minaccia costante del riapparire di queste
impossibilità. Le varie forme di reiterazione nevrotica testimoniano la gravità di questa minaccia: la dipendenza da un amore impossibile può costringere l'io a rivivere tale amore nella rimozione, pur di continuare a viverlo e conservare così la propria esistenza. Infatti, questa forma di sopravvivenza è costantemente minacciata dal desiderio che pure la alimenta: desiderare qualcosa di inammissibile significa esporsi al rischio di essere sanzionato, disconosciuto, escluso. Per questo motivo, nessun soggetto può permettersi di conservare nella propria coscienza la nozione di questo amore, di questa dipendenza e della violenza alla quale espone.
L'individuo, esistendo, riproduce e conferma le condizioni del proprio assoggettamento, proprio perché nega a se stesso la possibilità di riconoscerle. «Il soggetto», commenta Butler, «emerge parallelamente al suo inconscio»288: la rimozione delle prime forme di dipendenza, e
la forclusione di tutti gli attaccamenti che la sua esistenza sociale gli impedisce di esprimere, sono gli ambigui processi che permettono al soggetto di individuarsi, al prezzo tuttavia, di prendere le distanze dal proprio desiderio.
Sostenere che un certo atto linguistico o la manifestazione di un'opinione sono equiparabili a una condotta e valutabili con lo stesso metro elude il confronto con la censura e, di fatto, ne consente l'applicazione. La censura per definizione si esercita sulle parole, ma se taluni enunciati sono insistentemente catalogati come casi di hate speech, se alcune forme d'arte sono definite atti oltraggiosi e se la dichiarazione di coming out è considerata una pratica omosessuale, allora il linguaggio, l'arte visiva, la musica, la satira, la libertà di critica in tutte
le sue forme possono essere trattati dalla giurisprudenza e dal discorso politico alla stregua di “condotte” alle quali applicare delle restrizioni non comporta esercitare una censura. Lo si può fare senza trasgredire il principio della libertà di parola e, in più, con il dichiarato proposito di agire in difesa dell'uguaglianza.
Al di là dell'esatta collocazione del limite tra parole e condotta, che può essere stabilita dall'una o l'altra proposta di regolamentazione, esiste una questione relativa alle condizioni di possibilità di una simile delimitazione. Attribuire a certe parole lo status di condotta significa operare su di esse una dislocazione che nega loro lo status di parole. Una simile negazione corrisponde pienamente alla definizione e agli obiettivi della censura.
Per quanto resti in ombra il suo carattere repressivo, l'azione legislativa che definisce “condotta” un certo tipo di linguaggio si arroga il diritto di decidere in anticipo, delimitandola, quali siano i confini della sfera linguistica e cosa non rientri in essi. In questo modo, l'intervento giuridico non delibera su quali parole o atti abbiano arrecato offesa o costituiscano una minaccia per la sicurezza del cittadino, ma sottrae alcune parole al dominio del linguaggio e le assegna preventivamente al dominio dell'azione, per poi giudicarle come se fossero azioni. Con questo tipo di intervento, la censura contemporanea ottiene il diritto di operare una ridefinizione di ciò che è “azione”: la censura «precede il testo (e nel termine “testo” includo le “parole” e altre espressioni culturali) ed è in un certo senso responsabile della sua produzione»289.
Questo tentativo di censura preventiva, secondo Butler, risponde a uno sforzo di purificare la sfera del discorso pubblico da ciò che potremmo definire “l'osceno”; e tuttavia non esiste purificazione che non presupponga l'oscenità: ogni purificazione rimanda ad essa, anche solo allusivamente. Gli interventi di purificazione evidenziano più che mai lo spazio lasciato vuoto dal loro passaggio e rinviano al contenuto da essi cancellato.
«Tali tentativi non solo soffrono della paura della contaminazione, ma sono anche costretti a rimettere in scena, negli spettacoli delle denunce pubbliche da essi compiute, le stesse enunciazioni che cercano di bandire dalla vita pubblica. Il linguaggio che è costretto a ripetere ciò che cerca di limitare invariabilmente riproduce e rimette in scena le parole stesse che cerca di mettere sotto silenzio. In questo modo, le parole eccedono la censura che le limita»290.
Queste conclusioni sono rappresentative di quella che potrebbe essere la posizione di una “teoria generalizzata della testualità”, prendendo a prestito una terminologia derridiana. L'attenzione di Derrida alla polisemia – o meglio, alla “disseminazione” – costitutiva del
289 J. BUTLER, Parole che provocano, cit., p. 184.
linguaggio sottolinea il limite contro cui si infrange qualsiasi disegno censorio.
Secondo Derrida, un testo possiede un numero di possibili interpretazioni, riletture e citazioni superiore alle capacità del censore di controllarle tutte e ridurle totalmente al silenzio. Un testo dice sempre di più e altro rispetto alle intenzioni del proprio autore – e alle previsioni del censore, che è solo uno dei possibili lettori – perché ogni parola reca con sé la storia dell'utilizzo che ne è stato fatto e dei contesti entro cui è stata inserita.
La censura trattiene il testo che vuole censurare nelle maglie del discorso che produce. Lo rimette in scena, si dilunga sulle motivazioni della propria azione e tributa in questo modo onore alla forza del significante che intende bloccare.
«La regolamentazione che afferma ciò che non vuole sia affermato ostacola il suo stesso desiderio, mettendo in atto una contraddizione performativa che mette in questione la capacità di quella regolamentazione di significare e fare ciò che dice, vale a dire la sua pretesa di sovranità»291. Il caso del decreto del 1994 relativo alla regolamentazione dell'esercito è
paradigmatico, secondo Butler, di questo tipo di “fallimento” della censura: la regola che impone di limitare l'utilizzo del termine “omosessuale” per designare se stessi può produrre tale limitazione solo mediante l'emissione di un discorso che “raddoppia” tale utilizzo. Anziché diventare indicibile, un nome finisce per proliferare all'interno dei più svariati contesti: nel regolamento che si esprime in merito alla sua limitazione, nel dibattito pubblico che discute la sua correttezza, fino ai discorsi pronunciati da persone eterosessuali che evocano parole dal sapore di un desiderio inconfessato, di una possibile sessualità sempre solo immaginata e mai vissuta.
Questo tipo di censura agisce sul testo culturale come la rimozione freudiana agisce sui contenuti psichici dolorosi, sui desideri proibiti e sugli investimenti libidici che interessano tracce mnestiche censurate dalla coscienza. Questo livello di repressione è quella che fallisce il suo stesso obiettivo perché trasforma l'impulso che interdice nell'energia necessaria ad alimentare il desiderio stesso di trasgredire. L'esito di una simile costruzione è quello reso esplicito da Derrida in tutta la sua opera: il “corpo” del testo “sfugge” al carcere ideale della sua interpretazione, eccede ogni significazione che pretenda di essere definitiva e sconfessa le intenzioni “originarie” dell'autore, rivelando l'assenza di ogni origine e l'essere sempre derivato che lo caratterizza.
Questa refrattarietà del testo al controllo si palesa sotto forma di fallimento reiterato della censura applicata al testo come un deterrente. Nel già ricordato Totem e tabù, Freud fornisce all'antropologia culturale un importante contributo psicoanalitico, provando a spiegare il
meccanismo profondo per cui la censura è così poco efficace e al contempo temuta:
L'uomo che ha trasgredito un tabù diventa anch'egli tabù perché ha la pericolosa proprietà di indurre altri nella tentazione di seguire il suo stesso esempio. Egli desta invidia: perché a lui dovrebbe essere permesso ciò che ad altri è vietato? Egli è dunque realmente contagioso nella misura in cui ogni esempio è un incitamento all'imitazione; per questo egli va evitato292.
La legge crea il tabù ma crea al contempo la sua trasgressione e l'invidia verso colui che trasgredisce. Il trasgressore è qualcuno che ha accesso a qualcosa che agli altri è interdetto, per questo motivo egli diviene oggetto di invidia e di timore, il luogo fisico in cui la legge si fonde con la sua trasgressione e rivela la propria ambivalenza.
Il suo status è definito dalla norma, quindi mediante l'istituzione di un segno performativo che ha il potere di separare lo spazio dei predicati accessibili dallo spazio dei predicati che costituiscono un'infrazione alla norma stessa. L'infrazione, tuttavia, desta invidia e desiderio di emulazione perché consiste proprio in un atto di ri-appropriazione di quel segno e quindi in un atto di «separazione di quel segno dalla sua funzione di proibizione e un trasferimento inconscio del desiderio che il segno, fino alla sua risignificazione, ha tenuto controllato. Il nome “omosessuale” non è solo un segno del desiderio, ma diventa anche il mezzo grazie al quale il desiderio viene assorbito nel segno e recato dal segno stesso»293.