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Derive paranoidi della paura

Grazie all'incursione nell'opera di Nietzsche, il sentimento della paura guadagna un posto di primo piano nella teoria del soggetto di Judith Butler. Nel capitolo precedente abbiamo evidenziato la paura come effetto del potere discorsivo, ciò che essa rappresenta nel momento in cui un individuo fa esperienza di una sanzione sociale e le trasformazioni, di carattere sia temporale che sociale, che essa determina in questo stesso individuo. La fenomenologia della paura, come abbiamo visto, si articola attraverso l'emersione di figure giudicanti, sanzionanti, modelli di una soggettivazione perfettamente compiuta.

In questo capitolo vogliamo provare ad analizzare meglio la paura in quanto strumento e

strategia. Ciò che vogliamo cercare di capire è quale tipo di rappresentazione essa sia in

grado di allestire a livello più specificamente sociale e che tipo di rapporto intrattenga con il potere che la alimenta. Commentando i contributi nietzscheani sull'origine della coscienza morale, ad esempio, Butler si rende conto che la rappresentazione a cui fanno capo la paura e il timore è sempre una scena di impianto “accusatorio”, entro la quale la coscienza viene chiamata in causa come principio della responsabilità: secondo Butler, la tendenza dell'io a “rendere conto di sé” nell'intimo della propria coscienza si forma per effetto di un'ingiunzione a “rispondere” socialmente dei propri atti, di fronte a un'istanza avvertita come superiore.

Se ha ragione Nietzsche, significa che io inizio a dar conto di me perché qualcuno mi ha chiesto di farlo, e questo qualcuno dispone di un potere che gli è stato conferito da un sistema di giustizia costituito. Significa che sono stata interpellata, “convocata”, che forse mi è stato anche attribuito un atto, e ora un'indefinita minaccia di punizione comprova la domanda che mi è stata rivolta e che mi rivolgo. Così, con una risposta spaventata, offro me stessa sotto forma di un “io” e cerco di ricostruire i miei atti, tentando pure di mostrare come l'atto che mi è stato attribuito fosse o meno tra quelli. Posso addossarmi la paternità di tale azione, qualificando così il mio attivo contributo causale, o invece difendermi da una simile accusa, fors'anche individuando la causa altrove. Sono questi i

parametri al cui interno la mia responsabilità, il mio dar conto di me, ha luogo. […] Diventiamo riflessivi, possiamo riflettere su noi stessi, solo attraverso la paura e il terrore121.

Ci rendiamo conto che “la paura e il terrore” che causano la riflessività sono provocati da un certo tipo di interpellazione autoritaria. L'ingiunzione alla responsabilità si accompagna a una minaccia di punizione “indefinita”, dagli effetti potenzialmente devastanti e senza fine. Di questo specifico tipo di interpellazione non si conoscono né l'origine né la legittimità, tuttavia sappiamo che ha la forza di rendere il soggetto riflessivo, cioè capace di narrare verbalmente la propria storia.

Narrare una storia significa disporre in ordine cronologico una serie di rappresentazioni. Il potere che è in grado di ingiungere a narrare, è, pertanto, un potere che – almeno potenzialmente – dispone delle immagini e può utilizzarle in modo strategico; è un potere in grado di innescare il movimento del sostituire, del sovrapporre e dell'istituire rappresentazioni “distorte” o “viziate”, dell'Io come dell'Altro.

Per quanto sia definibile come l'effetto di questo tipo di interpellazione, comprendiamo perciò come la paura sia al tempo stesso lo strumento della soggettivazione122. Senza paura – come

abbiamo visto nel capitolo precedente – non si darebbero astrazione, identità, interrelazione; essa deve tradursi in attività proiettiva e fare dell'altro uomo il principio della violenza, affinché la coscienza sia in grado di tornare riflessivamente a se stessa e costituirsi come un “io”. Ma, come mette in luce il passo appena citato, non è l'altro essere umano a costituire in sé una minaccia, perché l'altro parla per nome di un potere costituito che gli conferisce preliminarmente il suo status sociale specifico. L'attività finzionale alla base dell'auto- assoggettamento è attivata dalla paura dell'altro, ma la stessa paura dell'altro è un effetto della particolare investitura di potere che ne determina le modalità di apparizione. Ciò che io temo, in ultima analisi, è il potere che egli incarna.

Come per Nietzsche non esiste una conoscenza del mero dato, della nuda osservazione, priva di qualsiasi inflessione prospettica, così anche per Butler l'altro appare sempre già caratterizzato, già minaccioso, pericoloso, giudicante. Ciò sembra voler dire che la paura stessa non è la causa delle mie valutazioni sul mondo, bensì che l'equivalenza, istituita a livello cognitivo, tra alterità e minaccia, sta a monte della paura sociale. Presa come mero

121 J. BUTLER, Giving an Account of Oneself, Fordham University Press, New York 2005; trad. it. di F. Rahola,

Critica della violenza etica, Feltrinelli, Milano 2006, pp. 20-21.

122 Foucault parla di un “effetto-strumento” per riferirsi alle rappresentazioni discorsive mediante le quali il potere si riproduce: cfr. ad esempio M. FOUCAULT, La volontà di sapere, cit., p. 47. Ipotizziamo pertanto di

utilizzare la stessa categoria interpretativa per illustrare il meccanismo di assoggettamento dell'io in cui si inseriscono la paura e le altre passioni esaminate in questo lavoro.

dato fenomenico, la paura indica sempre in direzione di un oggetto già disponibile alla coscienza sotto la prospettiva della sua forza sovrana, della sua autorità, capace, con le sue sole parole, di legiferare a proposito della mia subordinazione.

E tuttavia, disporre del potere delle immagini può significare anche riuscire a “produrre” l'altro come “l'estraneo”, l'abietto, l'a-normale, colui che con la sua diversità rompe la continuità rassicurante del noto, istituendovi una frattura irreparabile, diffondendovi il germe del contagio, il principio della disgregazione. Non diversamente dalla figura del soggetto sovrano, secondo Butler, anche l'individuo “abietto” è il frutto di un ribaltamento retorico tra causa ed effetto: la paura che questi suscita consegue dalla sovrapposizione tra il suo apparire fenomenico e l'immagine della pericolosità. Sia il feticcio della soggettività sovrana sia il feticcio della soggettività abietta, suo contraltare, sono inaugurati da questo stesso “gesto” retorico di sovrapposizione. Un gesto successivo, quello della generalizzazione, ottiene l'effetto di estendere senza limiti l'equazione tra alterità e minaccia, costringendo in questo modo tutti i soggetti ad assumere una posizione ripiegata, penitente, docile e sottomessa. Ritorniamo insieme a Butler alla domanda iniziale di Parole che provocano. «Perché un appello che ha natura meramente linguistica dovrebbe produrre una tale reazione di paura?»123. La domanda retorica che segue contiene, in realtà, già la risposta: «non è che, in

parte, l'appello che ha luogo nel momento presente richiama e rimette in atto gli appelli formativi che hanno dato e danno esistenza?»124.

Il suggerimento qui contenuto è che la paura dell'altro essere umano, singolo, determinato, situato nello spazio tridimensionale del suo corpo e inscritto nella durata della sua esistenza, possa essere solo l'eco di una paura “più antica”, non solo in termini cronologici, ma anche logici e strutturali. Ogni appello e ogni ingiuria non hanno un valore assoluto in sé, ma devono essere riconsiderati come evocativi di una rappresentazione anteriore, quella che originariamente ci ha investiti del riconoscimento sociale. I nuovi appelli e le nuove ingiurie tendono a sovrapporsi a quell'identità inaugurale e a sostituirla arbitrariamente, non una volta, ma molteplici, infinite volte nell'arco di una vita.

L'ipotesi di lavoro è suggerita a Butler dallo stesso Nietzsche: l'ostinazione del paradigma occidentale per la ricerca di un fattore causale – di un “soggetto” all'origine di ogni “agire” – non sarebbe possibile, secondo Nietzsche, al di fuori di un discorso moralistico di responsabilità che designasse preliminarmente l'atto compiuto come riprovevole e, quindi, punibile. Parafrasando il filosofo tedesco, Butler scrive: «non può esserci un soggetto senza

123 J. BUTLER, Parole che provocano, cit., p. 7.

un atto degno di riprovazione e non può esserci “atto” al di là di un discorso di responsabilità e, secondo Nietzsche, senza l'istituzione di una pena»125. Secondo questa ipotesi, quindi, esiste

un potere capace di indurmi a sperimentare un timore reverenziale nei confronti dell'autorità e, tramite il rimorso, capace di obbligarmi a un esame “rammemorante”, e a una confessione pubblica, della mia colpa. Un simile potere, in altre parole, è all'origine di quell'operazione di

metalessi che mi rende “soggetto”, e cioè una grammaticalizzazione della responsabilità in

base a una retorica dell'azione sovrana.

Generalizzando: è mediante un certo tipo di discorso politico che alcuni eventi possono essere isolati e classificati come offese, come reati, anomalie, pericoli e che alcuni soggetti possono essere considerati devianti, anormali, criminali, oltraggiosi. Le soggettività che, in misura maggiore di altre, all'interno di una società detengono la facoltà di emettere sentenze performative degne di peso e risonanza – ad esempio l'istituzione giudiziaria e il sistema punitivo, i mass media, il mondo intellettuale, il sistema scolastico con il suo “canone”, la comunità scientifica – hanno il potere di negoziare nel proprio dominio ciò che costituirà la norma sociale e ciò che costituirà la sua trasgressione.

Tali istituzioni, interpretando un'intenzione o un pensiero come un atto, trasformando un'azione singola in una tendenza, e infine equiparando le “azioni” ai loro “responsabili”, hanno spesso la possibilità di emettere facilmente a carico di alcuni soggetti una sentenza sociale che pesa come una sanzione. Se, ad esempio, il potere giudiziario mette in atto una strategia discorsiva per cui parole e atti diventano una cosa sola, ciò che si può ottenere è che: il soggetto responsabile di una condotta discorsiva diventa un soggetto pericoloso; una rivendicazione pubblica di omosessualità diviene un veicolo di contagio e il suo autore un seduttore immorale; l'uomo di colore vittima di un'aggressione razzista costituisce un potenziale sobillatore di rivolte sociali, un agente di disordine; lo straniero un terrorista, un nemico pubblico.

Una simile strategia discorsiva proviene, secondo Butler, da «una struttura morale che opera attraverso una determinata economia di invenzione ed efficienza paranoide»126. Infatti, mentre

la paura contraddistingue il rapporto tra esseri umani capaci, almeno in una certa misura, di riconoscersi a vicenda, di identificarsi e soggettivarsi l'uno rispetto all'altro nel momento dell'interazione – anche quando quest'ultima consiste in una minaccia verbale o in un'aggressione fisica –, la paranoia evoca un senso di pericolo indefinito, una minaccia potenziale, diffusa, non riconducibile a un'unica fonte, né a intenzioni accertate; identificato il

125 Ivi, p. 65. 126 Ibidem.

pericolo in tutti i volti e in tutte le azioni sospette, il senso di precarietà si allarga a macchia d'olio e diviene la condizione emotiva più caratteristica della contemporaneità.

La paura conserva una connotazione attiva, perché risveglia l'istinto di autoconservazione; chi ha paura non nega l'alterità, ammette la sua presenza. Addirittura riconosce all'alterità il potere di ferire, di colpire e quindi di avere un ruolo importante nella vita dell'io. Di fronte a una minaccia riconoscibile, la risposta più istintiva è la fuga: la speranza di potersi portare in salvo induce nell'organismo una serie di comportamenti e strategie coerenti, atti a proteggere il nucleo vitale dell'io127.

La paranoia costituisce una strategia difensiva posta in essere contro una paura insopportabile, i cui livelli sono diventati troppo alti per essere gestiti e padroneggiati consapevolmente. Si tratta di un tipo di difesa molto arcaico, legato ad angosce psicotiche128, attraverso il quale si

tende a trasfigurare l'altro essere umano, e poi di riflesso il mondo intero, per una sorta di rifiuto del male e per un estremo bisogno di ordine e rassicurazione. Promuovendo un movimento di proiezione del “male” da se stessa verso l'esterno, e identificando questo male con l'altro, l'estraneo, il nemico pubblico, con la malattia o l'anormalità, tale economia paranoide penetra nel tessuto delle società contemporanee fino a diventare linfa vitale e principio di razionalizzazione interna.

Una tale economia paranoide funziona mediante il meccanismo della denuncia di “fatti”, laddove questi “fatti” tuttavia “partecipano” di un “fare” che contribuiscono a celare. Un simile “fare” corrisponde all'esplicitarsi dei rapporti di forza fra gruppi e istituzioni, fra la società civile e le strategie che la controllano e la disciplinano. Il potere che è all'opera ogni volta che qualcuno – un giudice, un medico, un insegnante – nomina un soggetto e definisce un'identità, in realtà è più vasto e stratificato del potere di cui un singolo soggetto potrà mai disporre ed è capace di provocare effetti imprevedibili rispetto a quelli che un solo atto può determinare. Come Michel Foucault, anche Butler teorizza un potere non soggettivo, senza nome né designazione univoca. Esso assume, tuttavia, molteplici “volti” e ritratti metaforici, quando opera attraverso il discorso d'odio, la criminalizzazione della delinquenza, la diagnosi di una devianza, l'istituzione di tribunali speciali e di misure di sicurezza eccezionali. Ed è attraverso una sapiente gestione dell'inquadratura di questi “volti” che il potere riesce a

127 Cfr. ad esempio S. FREUD, Triebe und Triebschicksale, in Id., Metapsychologie, 1915; trad. it. a cura di C.L.

Musatti, Pulsioni e loro destini, in Id., Opere di Sigmund Freud, cit., 1976, vol. 8, pp. 13-35, p. 15. 128 Cfr. M. KLEIN, Notes on Some Schizoid Mechanisms, 1946; trad. it. di A. Guglielmi, Note su alcuni

meccanismi schizoidi, in Ead., Scritti 1921-1958, Boringhieri, Torino 1978, pp. 409-434. Vedi anche: M.

KLEIN, Some Theoretical Conclusions Regarding the Emotional Life of the Infant, 1952, trad. it.: Alcune

conclusioni teoriche sulla vita emotiva del bambino nella prima infanzia, in Ead., Scritti, op. cit., pp. 460-

493; M. KLEIN-J. RIVIERE, Love, Hate and Reparation, The Hogarth Press, 1953; trad. it. di F. Molfino,

diffondere il sospetto paranoico e a creare le contrapposizioni sociali grazie alle quali poi prolifera, si accresce, si diversifica e si specializza.