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Interpellazione e riconoscibilità

Proviamo a pensare alla situazione in cui a una persona viene imposto un nome senza che essa lo sappia, che è dopotutto la condizione in cui si trova ognuno/ognuna di noi all'inizio, o, a volte, anche prima dell'inizio. Il nome costituisce socialmente una persona, ma la costituzione sociale di una persona ha luogo senza che essa lo sappia. In realtà, ci si può anche immaginare in modi che sono esattamente il contrario del modo in cui si è socialmente costituiti e costituite: si potrebbe, per così dire, incontrare quel sé socialmente costituito a sorpresa, ricavandone timore, piacere o addirittura uno shock. E un incontro del genere mette in rilievo come il nome eserciti un potere linguistico di costituzione in modi che sono indifferenti a chi porta quel nome. Non occorre conoscere o registrare un modo di essere costituiti o costituite perché quella costituzione funzioni in modo efficace138.

In apertura a questo lavoro è stato osservato che il campo semantico della corporeità permette di comprendere la “violenza linguistica” perché modalità diverse di attribuzione di un nome rendono un corpo variamente accessibile all'esistenza sociale. Le etichette offensive sembrano agire allo stesso modo di misure restrittive di tipo fisico, a causa dell'impossibilità, per l'ingiuriato, di prevederle in anticipo, o replicare loro: l'ingiuria, sopraggiunge perlopiù in modo inatteso, unilaterale, non controllabile; talvolta scavalca persino i limiti temporali della

137 J. BUTLER, Parole che provocano, cit., pp. 6-7.

vita del singolo che la subisce e produce un effetto traumatico in quelli che verranno dopo di lui.

In disaccordo con Hegel, Louis Althusser inverte la sequenza logica di sviluppo della scena prima esaminata. Non è il riconoscimento a precedere l'interpellazione sociale, bensì il contrario: la voce interpellante è ciò che si impone performativamente su un corpo, che per prima lo “crea” come “quel corpo”, legando per sempre la possibilità della sua esistenza all'identificazione ricevuta.

Richiamandosi al saggio del 1970, intitolato Ideologia e apparati ideologici di Stato, Butler trova in Althusser la versione dell'interpellazione che le consente di penetrare al meglio la problematica del riconoscimento nel mondo contemporaneo. Althusser condensa infatti la propria idea di “revisione” dell'assoggettamento hegeliano in un racconto dal sapore archetipico, «abbastanza “concreto” perché sia riconosciuto, ma abbastanza astratto perché sia pensabile e pensato»139:

l'ideologia “agisce” o “funziona” in maniera tale che “recluta” soggetti tra gli individui (li recluta tutti), o “trasforma” gli individui in soggetti (li trasforma tutti) con questa operazione molto precisa che noi chiamiamo l'interpellare che possiamo rappresentarci nel modo stesso del più banale interpellare poliziesco (o no) di ogni giorno “ehi, Lei laggiù!”. Se supponiamo che la scena teorica immaginata avvenga per la strada, l'individuo interpellato si volta. Con questa semplice conversione fisica di 180 gradi, egli diventa soggetto. Perché? Perché ha riconosciuto che questo interpellare era diretto “proprio” a lui, e che “era proprio lui che veniva interpellato” (e non un altro). […] Naturalmente, per comodità e chiarezza di esposizione del nostro piccolo teatro teorico, abbiamo dovuto presentare le cose sotto forma di una sequenza, con un prima e un dopo, sotto forma dunque di una successione temporale. […] Ma in realtà le cose si svolgono senza nessuna successione. L'esistenza dell'ideologia e l'interpellare gli individui come soggetti sono la stessa ed unica cosa140.

Althusser mette in scena la performatività del linguaggio per mostrarci in atto la creazione sociale di un soggetto. Pur contestando al filosofo francese il taglio “illocutorio” che pervade il senso di questa immagine141, Butler è interessata all'idea per cui essere interpellati non

139 L. ALTHUSSER, Ideologia e apparati ideologici di Stato, in «Critica marxista», 8, 5, 1970, pp. 23-65, p. 56.

140 Ivi, pp. 56-57.

141 Nel capitolo IV de La vita psichica del potere Butler critica la scena interlocutoria althusseriana per il suo legame irrisolto con una «interpretazione religiosa dell'interpellazione»: ella sostiene che, più che servire da

esempio illustrativo di come funziona l'ideologia in generale, le metafore teologiche assurgono a paradigma

dell'intera teoria. La “voce” della legge statale che si manifesta nella figura del poliziotto è una

secolarizzazione acritica dell'autorità dell'interpellazione divina, esemplificata dalla scena del battesimo di Pietro. In questo modo, secondo Butler, Althusser finisce per elaborare una teoria che «non offre in effetti alcuna illuminante via d'uscita dall'ideologia» perché in essa il potere si presenta come «una forma di autorità alla quale è impossibile resistere»: J. BUTLER, La vita psichica del potere, cit., pp. 132-133. Proprio sulla

significa essere riconosciuti, nella pratica quotidiana della vita sociale, per “ciò che si è”, perché, al contrario, nessuna “essenza” propria o “identità” caratteristica può essere comunicata per mezzo dei termini sociali del riconoscimento. Al di fuori di questi termini, infatti, non esiste propriamente nessun “nome” che possa ratificare il riconoscimento della nostra esistenza.

Formulato in una maniera ancora più radicale, secondo Butler «si “esiste” non solo grazie al riconoscimento che si ottiene, ma, in un senso che viene ancora prima di tutto ciò, nell'essere

riconoscibili»142. Questo senso dell'essere riconoscibili che “viene prima” dell'imposizione di

un nome non è per niente analogo al riconoscimento di tipo “hegeliano”: non si tratta di riconoscere, nell'altro, la sua umanità. «Costituire l'oggetto di un appello non significa semplicemente avere il riconoscimento di quello che già si è, ma vedersi conferire il termine stesso attraverso cui il riconoscimento dell'esistenza diventa possibile»143. Tale termine può

essere il “nome” di “essere umano”, ma anche quello più specifico di “essere umano sessuato”, cioè i nomi di “uomo” o “donna”.

Althusser, infatti, non dimentica che l'insieme degli attributi che vanno a comporre la misura canonica dell'“umano” è un insieme formulato sempre in termini linguistici. Ogni determinazione di ciò che può rientrare nell'“umano”, ogni esercizio di codificazione di questo status sarà, inavvertitamente o meno, il frutto di una selezione, a fronte di un insieme molto più vasto di definizioni possibili che resteranno escluse, impensate. La scelta di ciò che debba essere incluso nella categoria dell'umano, per Butler come per Althusser, opera al servizio di divisioni sociali e strategie normative “ideologiche”, dove per “ideologia” si intende l'apparire “naturale” e “ovvio” di qualcosa che, se osservato da un punto di vista critico, rivela la propria non-originarietà e non-ovvietà. Il concetto di “natura”, come il concetto di “umano”, appaiono piuttosto come l'effetto combinato – e inconsapevole – di pratiche, rituali, discorsi e idee facenti parte dell'apparato ideologico di appartenenza.

Scrive Althusser: «L'ideologia è una “rappresentazione” del rapporto immaginario degli

individui con le proprie condizioni di esistenza reali»144; con ciò egli intende che gli individui

che si trovano a vivere secondo un'ideologia – sia essa religiosa, morale, giuridica, politica, estetica –, vivono in una determinata rappresentazione del mondo che può essere definita “deformata” dall'immaginazione perché non descrive il rapporto reale di questi individui con le loro reali condizioni di esistenza – cioè, secondo la teoria marxista, con i rapporti di

tematizzato, e cioè la natura di questa “inclinazione” dell'essere umano a lasciarsi vincolare dall'interpellazione autoritaria: cfr. infra, capitolo IV.

142 J. BUTLER, Parole che provocano, cit., p. 7.

143 Ibidem.

produzione e di classe. L'individuo “ideologico” vive con questi rapporti reali in un rapporto immaginario che consiste, specificamente, nel pensarsi libero, in tutta coscienza, nelle proprie convinzioni, scelte, fedi, e nei propri atti. In realtà,

l'esistenza delle idee della sua fede è materiale, in quanto le sue idee sono i suoi atti materiali

inseriti in pratiche materiali, regolate da rituali materiali essi stessi, definiti dall'apparato ideologico materiale che produce le idee di questo soggetto. I quattro aggettivi “materiali” riportati

nella nostra proposizione devono naturalmente ispirarsi a modalità diverse: la materialità di uno spostamento per andare alla messa, di una genuflessione, di un gesto del segno della croce o di mea

culpa, di una frase, di una preghiera, di una contrizione, di una penitenza, di uno sguardo, di una

stretta di mano, di un discorso verbale esterno o di un discorso verbale “interno” (la coscienza), visto che non si ha una sola e una stessa materialità145.

Il momento in cui un discorso è “materialmente” pronunciato, in questo contesto, produce automaticamente la “norma materiale discorsiva” che fissa i termini della legittimità sociale dell'interpellato, cioè i termini della sua riconoscibilità. Quando il medico dichiara “è una bambina” piuttosto che “è un maschietto”, egli produce performativamente per la collettività il sesso del neonato e, con questa dichiarazione, lo introduce ufficialmente nella vita pubblica. Addirittura, come Althusser ricorda nel saggio citato, si può dire che ogni individuo sia “sempre-già” soggetto ancora prima di nascere. Già durante il periodo in cui attendono la sua nascita, i familiari eseguono una serie di rituali “ideologici” che garantiranno al nascituro uno spazio e un ruolo in seno alla famiglia. «È acquisito in anticipo che porterà il nome del padre, avrà dunque un'identità, e sarà insostituibile» e che, dopo la nascita, «quello che era un soggetto-futuro deve “trovare” il “suo” posto, vale a dire deve “divenire” il soggetto sessuale (maschio o femmina) che egli era già prima»146.

La forza dell'interpellazione originaria è richiamata e riattualizzata all'interno di ogni interpellazione successiva ed è questo il fatto che conferisce certezza e coerenza a un'identità. E tuttavia, secondo Butler, proprio la ripetitività a cui è soggetto il nostro nome, fa sì che esso non possa essere realmente qualcosa di definitorio, di necessitante, o “l'ultima parola” su di noi, come Althusser sembra voler sostenere. L'interpellazione sociale, per Butler, inaugura il soggetto nel linguaggio, ma ve lo introduce dotato di un equipaggiamento minimo e provvisorio: essa è in via di principio sovrascrivibile da nuovi differenti appellativi, anche ingiuriosi. Il “nome” regala un posto nel mondo, non è detto che quel posto sia un luogo

145 Ivi, p. 53. 146 Ivi, p. 58.

ameno e sereno, o che tale resti per sempre; esso è solo il primo di molti nomi che riceveremo nella vita e ci protegge solo in parte.

L'ingiuria, l'offesa, la minaccia sfruttano quel margine di vulnerabilità che ogni interpellazione sociale lascia sempre aperto. In quel margine di riqualificazione si insinua la possibilità, per il soggetto, di essere messo fuori controllo, confinato in una zona di abiezione. L'interpellazione sociale ci richiama alla vita, ma questa è sempre una “vita precaria”, instabile, mai salda sulle proprie fondamenta. Il riconoscimento sociale può venire a mancare e con esso l'autorizzazione a muoverci entro il perimetro a noi noto.