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Produttività della legge n 3: paranoia generalizzata

In Sorvegliare e punire Foucault esprime questo concetto parlando di «un insieme di nuovi oggetti che vengono a raddoppiare, ma anche a dissociare, quelli giuridicamente già definiti e codificati»204: l'oggetto raddoppiato, in quel contesto specifico, è il reato commesso, al quale

il potere psichiatrico e quello medico sovrappongono la pericolosità del suo autore, la sua natura criminale, il grado della sua pazzia o la perversione della sua anima.

Se non è più al corpo che si rivolge la pena nelle sue forme più severe, su che cosa allora stabilisce la sua presa? […] Non è più il corpo, è l'anima. Alla espiazione che strazia il corpo, deve succedere un castigo che agisca in profondità sul cuore, il pensiero, la volontà, la disponibilità. […] I vecchi protagonisti del fasto punitivo, il corpo e il sangue, cedono il posto. Un nuovo personaggio entra in scena, mascherato. Finita una certa tragedia, inizia una commedia con figure d'ombra, voci senza volto, entità impalpabili. L'apparato della giustizia deve ora mordere su questa realtà senza corpo205.

Lo Stato e l'esercito che si sono occupati della revisione delle politiche relative al discorso gay hanno violato, con i loro decreti, sia i diritti protetti dal Primo Emendamento della Costituzione degli Stati Uniti, sia il rispetto della privacy e la clausola dell'Equal Protection. Stabilendo che le dichiarazioni circa la propria omosessualità costituiscono un esempio di performativo illocutorio, quindi una condotta, essi stabiliscono il fatto che tale condotta meriti un trattamento equiparabile a quello riservato allo hate speech, costituendo entrambi casi di offesa attraverso il linguaggio. Nella considerazione dell'omosessualità, l'equiparazione di discorso e condotta consente ad alcuni indirizzi legislativi di aggirare la clausola della libertà di parola e altri diritti per imporre il silenzio sul tema scomodo di una sessualità “deviante”; al

204 M. FOUCAULT, Sorvegliare e punire, p. 21.

contrario, le stesse istituzioni giudiziarie tendono a minimizzare o negare il problema della violenza razziale contro le minoranze etniche, utilizzando questa volta il Primo Emendamento come scudo per giustificare una quieta condiscendenza nei confronti del razzismo.

Entrambi i casi costituiscono un esempio di interpretazione conservatrice del diritto; nel caso delle minacce a sfondo razziale, in particolare, ciò che si teme sono i disordini sociali, la sollevazione collettiva e la rappresaglia vendicativa di coloro che si trovano quotidianamente esposti alle ingiurie di un razzismo ancora molto forte. La maggior parte delle sentenze giudiziarie che hanno a che fare con questo tema, negli Stati Uniti, si concludono con l'applicazione di differenti unità di misura ai discorsi d'odio e alle aggressioni fisiche. Con alcune significative eccezioni, quali ad esempio la croce in fiamme, macabra eredità della tradizione punitiva del Ku Klux Klan. Pur rientrando senza ombra di dubbio tra le “condotte”, dal momento che il suo utilizzo ha uno scopo esplicitamente intimidatorio – quello di annunciare una punizione corporale imminente –, sovente la comparsa di una croce in fiamme è lasciata impunita dai tribunali in quanto “legittima espressione di un'opinione personale”. Ovunque alberghi un conflitto tra discorsi sociali e culturali diversi si offrono occasioni per il proliferare della paura e, con essa, di nuove zone di esclusione. Quando l'escluso arriva ad assumere il volto del “male radicale”, la rappresentazione dell'estraneo può finire per sconfinare in quella dell'inumano.

L'attacco alle Torri Gemelle dell'11 settembre 2001, con tutti gli eventi che ne sono seguiti, ha messo gli Stati Uniti d'America di fronte alla visione della propria precarietà e alla rabbia vendicativa di un nemico potente, imponderabile, insidioso. Di fronte a un paese che, a distanza di qualche anno, si trova ancora in pieno stato d'agitazione, Butler scrive: «il fatto che fossero stati violati i confini degli Usa, che fosse emersa una vulnerabilità intollerabile, che fosse stato pagato un terribile prezzo in vite umane era ed è tuttora motivo di paura e di lutto […]. Il rischio di poter subire noi stessi un danno, o che altri possano subirlo, l'essere esposti alla morte per il semplice capriccio altrui sono fattori che causano paura e angoscia»206.

La reazione politica degli Stati Uniti è consistita nell'immediata denuncia di un “danno subito” e di un'aggressione imperdonabile, nel consolidamento di discorsi nazionalisti, nella sospensione dei diritti di cittadinanza e costituzionali e nello sviluppo di meccanismi impliciti ed espliciti di censura. La popolazione in entrata e in uscita dal territorio nazionale è stata da quel momento sottoposta a controlli senza precedenti, le persone sono state fermate sulla base di sospetti, di una somiglianza, di un colore della pelle misto. È iniziata un'epoca di giustizia sommaria e di detenzione illimitata per i prigionieri di guerra; il diverso è stato sempre più

stigmatizzato in nome della sicurezza nazionale e della lotta su scala mondiale a un nemico dal volto indeterminato, definito dal nome enfatico di “terrorismo”.

Lo spettacolo delle Torri Gemelle è stato un evento più che semplicemente visibile e percettibile: ne è stato fatto un fenomeno mediatico. L'orrore della strage e l'insopportabile malinconia provocata dal lutto deve rammemorare in continuazione che il nemico è in grado di infliggere colpi a tradimento nel cuore di un Paese libero; dopo anni di guerre condotte lontano dai propri confini nazionali e di politica interventista nei territori altrui, la percezione visiva dei cittadini statunitensi è stata scossa in profondità da una visione di morte reiterata e martellante. In questo clima, una semplice supposizione di “pericolosità” è sufficiente a giustificare una denuncia e un procedimento immediato al limite della legalità nei confronti di qualcuno; la popolazione islamica, o presunta islamica, viene trasformata in bersaglio di un facile sospetto; il pregiudizio razzista, incoraggiato dall'allerta governativa, si trasforma facilmente in percezione fondata, arrogandosi il diritto di controllare, sorvegliare e denunciare chiunque appaia “diverso”. In Vite precarie, Butler racconta:

si tengono in stato di detenzione centinaia di arabi residenti in America o di cittadini arabo- americani, talvolta sulla sola base del cognome; alle frontiere si vessano cittadini, statunitensi e non, per il fatto che un funzionario “percepisce” un potenziale problema; individui di origine mediorientale subiscono aggressioni per strada; alcuni professori universitari vengono presi di mira. Quando Rumsfeld ha periodicamente gettato nel panico o ha “allertato” gli Stati Uniti, non ha detto alla popolazione cosa cercare, ma solo di aumentare il livello di sorveglianza rispetto ad attività sospette. Questo panico privo di oggetto si trasforma troppo rapidamente in sospetto nei confronti di tutte le persone con la pelle scura, specialmente gli arabi o chi gli assomiglia, da parte di una popolazione non sempre abituata a distinguere, per esempio, tra sikh e musulmani, tra ebrei sefarditi o ebrei arabi e pakistani-americani. Sebbene “supporre” la pericolosità di un individuo sia considerata, in questi dibattiti, una prerogativa dello stato, tale gesto rappresenta anche una potenziale licenza di affidarsi a percezioni fondate sul pregiudizio, nonché un virtuale mandato a intensificare modalità di osservazione e giudizi di tipo razzista in nome della sicurezza nazionale207.

E tuttavia, ancora una volta, si è in dubbio se questi protagonisti siano veramente determinabili come soggetti o non siano piuttosto qualcosa di diverso, un puro principio di violenza, una razionalità omicida, appartenente al campo del non umano, «come se quello di Bin Laden fosse il volto del terrore stesso, come se Arafat fosse il volto dell'inganno, o come se il volto di Hussein fosse il volto della tirannia contemporanea»208.

207 Ivi, pp. 100-101. 208 Ivi, p. 170.

Quando il male è rappresentato attraverso un volto, «questo volto è il male, e il male che tale volto è si estende al male che pertiene all'umano in quanto tale – il male generalizzato»209.

Chiunque può venire sospettato di essere una pedina di quel volto, chiunque diviene potenziale autore di una violenza inarrestabile, al punto che, in nome dell'emergenza nazionale e di ragioni di massima sicurezza, la giustizia ha finito per tramutarsi facilmente in vendetta e ai talebani prigionieri di guerra detenuti in patria e a Guantanamo Bay sono stati a lungo negati i diritti all'assistenza legale e alla possibilità d'appello e di rimpatrio, sanciti dalla Convenzione di Ginevra.

Il trattamento riservato ai detenuti di Guantanamo è il risultato indicativo di quella che è l'interpretazione degli Stati Uniti d'America di ciò che può definirsi “l'umano”: secondo Butler, le vite imprigionate e spogliate dei diritti umani fondamentali sono viste attraverso «una lente razziale ed etnica […] in maniera tale da considerarle meno che umane o comunque estranee rispetto alla comunità umanamente riconosciuta»210. Questa negazione, ad

alcune vite, della titolarità dei diritti umani universali trova la sua giustificazione teorica nella presunta “pericolosità” dei soggetti in questione e nella rivendicazione da parte dello stato della propria libertà sovrana di dispiegare a piacimento e di protrarre indefinitamente le misure di sicurezza considerate indispensabili. La pubblicizzazione di fotografie e documenti sulla condizione di vita a Guatanamo Bay ha mostrato al mondo detenuti incappucciati e vessati da maltrattamenti, abbrutiti, ritratti come animali fuori controllo, per i quali il solo trattamento possibile è la privazione totale della libertà. L'analogia implicita con la condizione animale richiama l'idea che questi detenuti specifici non siano considerati come altri esseri umani che partecipano a una guerra, e quindi degni di un regolare processo e punibili secondo le disposizioni della legge, bensì vadano imprigionati al fine di impedire loro di uccidere di nuovo. Le giustificazioni fornite dai rappresentanti del Ministero della Difesa insinuavano che la detenzione fosse la sola cosa che avrebbe potuto impedire a costoro di uccidere, come se questa fosse la loro inclinazione naturale, l'omicidio la loro propensione spontanea. «Sono meno che creature umane, e tuttavia, in qualche modo, assumono una forma umana. Rappresentano, per così dire, un equivoco dell'umano, giustificando così lo scetticismo sull'applicabilità della tutela e delle garanzie legali»211.

Un argomento al quale i discorsi governativi sono ricorsi di frequente per giustificare la detenzione preventiva senza imputazione legale è stato l'analogia con la pratica dell'ospedalizzazione coatta dei malati di mente che costituiscono un pericolo per sé e per gli

209 Ivi, p. 174. 210 Ivi, p. 80. 211 Ivi, pp. 97-98.

altri. Una simile analogia spoglia la rappresentazione del terrorismo di un valore politico e le attribuisce unicamente il valore della “devianza” mentale e dell'assenza di ragione, che come tale deve essere curata con mezzi adeguati, diversi dalle regole internazionali per il trattamento dei prigionieri di guerra.

I terroristi sono come i malati di mente perché la loro mente è insondabile, perché sono fuori dalla ragione, fuori dalla “civiltà” […]. In realtà bisogna chiedersi se siano solo alcune azioni intraprese dagli estremisti islamici a essere considerate al di fuori dei confini della razionalità intesa secondo i canoni della civiltà occidentale, o piuttosto tutte le convinzioni e le pratiche connesse all'islam che diventano, di fatto, segni di malattia mentale nella misura in cui si allontanano dai modelli egemonici della razionalità occidentale. Se gli Stati Uniti considerano il ricovero coatto dei malati di mente un precedente adeguato della detenzione indefinita, allora presumono che certe norme dei meccanismi mentali siano presenti in entrambi i casi212.