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Riconoscimento mancato e paranoide

Abbiamo visto che gli atti performativi si presentano come forme del discorso autoritario: oltre a eseguire ciò che dicono nel momento in cui lo dicono, pretendono di conferire un valore vincolante all'azione così eseguita. Il tempo dell'azione performativa sembra essere il presente assoluto della voce divina che interpella senza preavviso e reclama immediata risposta. Di più, sembra un presente che istituisce il tempo e proietta il proprio effetto nel futuro, in quanto, chiamando per nome, impone insieme al nome anche una storia a colui che prima non ce l'aveva.

L'individuo particolare riceve un nome che dovrebbe essere per l'appunto il mezzo della sua “individuazione”, ciò che lo rende riconoscibile come “proprio lui” o “proprio lei”; al contempo, però, il nome introduce l'essere singolare nella vita più vasta del genere. Anche quando si tratta di un “nome proprio”, il nome è comunque un universale, scelto all'interno di un bacino di nomi già disponibili, in uso da tempo, per convenzione, come “nomi propri” all'interno di una lingua. Un simile nome, lungi dall'essere il contrassegno della specificità di “questa” vita, cancella la peculiarità del singolo perché è incapace di renderne conto129.

Tuttavia, in cambio della rinuncia a questa specificità, dona all'interpellato l'esistenza, ossia il riconoscimento nell'universale, il suo essere “leggibile” all'interno di un codice sociale condiviso e storicamente determinato.

Nella storia del pensiero politico, Hegel ha indubbiamente fatto scuola e la sua versione della teoria del riconoscimento è diventata paradigmatica per tutte le discussioni successive. Nella

Fenomenologia dello Spirito, ciò che un lessico posteriore ha definito “interpellazione

sociale” e il cosiddetto “riconoscimento” possono essere considerati due momenti distinti. L'interpellazione, cioè l'accesso al codice di segni che rende possibile la vita politica di una comunità, è presentata come successiva rispetto a un preliminare riconoscimento di ciò che

129 Con questi stessi argomenti, ispirati al capitolo della fenomenologia di Hegel dedicato a La certezza

sensibile. Ovvero il Questo e la mia opinione, Butler contesta ad Adriana Cavarero l'esito aporetico della sua

proposta etica: dal momento che è impossibile che il singolare si dia attraverso categorie non universali – o al di fuori di esse – Butler ritiene che il “tu” radicale teorizzato dalla filosofa italiana non riesca comunque a sfuggire mai del tutto alla generalizzazione imposta dal linguaggio. Cfr. J. BUTLER, Critica della violenza

etica, cit., p. 49 e ss.; A. CAVARERO, Tu che mi guardi, tu che mi racconti. Filosofia della narrazione,

l'Altro è, ossia della sua essenza umana.

La socialità, di per sé, è un concetto che nella Fenomenologia fa la sua comparsa in modo quasi casuale, al termine di un lungo discorso intorno all'appetito e al desiderio di possesso degli oggetti del mondo. L'altro uomo, inizialmente, non è distinguibile da questi oggetti e non gode di un'attenzione speciale da parte dell'io protagonista del percorso fenomenologico. La sua specificità inizia a valere soltanto in un secondo tempo, come ciò che potrebbe garantire all'autocoscienza un appagamento duraturo dei suoi desideri, a fronte del carattere effimero del godimento fornito dalla consumazione degli enti inanimati. Scrive Hegel:

l'essenza del desiderio è un altro dall'autocoscienza […]. In virtù dell'autonomia dell'oggetto, allora, l'autocoscienza può ottenere l'appagamento solo quando l'oggetto stesso compie in sé la negazione; ed è necessario che l'oggetto compia in sé questa negazione di se stesso perché esso è, in sé, il negativo, e ciò che è deve esserlo per l'altro. Ora, quando è in sé stesso la negazione, e con ciò è nello stesso tempo autonomo, l'oggetto è coscienza. […] Nella negatività di sé stesso […] l'oggetto dell'autocoscienza è altrettanto autonomo, è per se stesso genere, flusso universale nella peculiarità della propria figura singola e separata: questo oggetto è autocoscienza vivente. Adesso si tratta di un'autocoscienza per un'autocoscienza. [...] In tal modo, per noi, è già dato il concetto dello Spirito. E la coscienza farà appunto esperienza di ciò che lo Spirito è: sostanza assoluta che, nella perfetta libertà e autonomia della propria opposizione, cioè delle diverse autocoscienze essenti per sé, costituisce l'unità delle autocoscienze stesse: Io che è Noi, e Noi che è Io130.

Stando al brano appena citato, tratto dall'introduzione della sezione La verità della certezza di

se stesso, nel momento in cui posso ri-conoscere l'altro, cioè conoscerlo come un mio simile,

lo sgomento che provavo di fronte all'inesauribilità del mio stesso desiderio è scomparsa perché l'altro in un certo senso mi appartiene, egli è un Io proprio come me. Mentre tutti gli altri enti del mondo mi respingono, chiusi nella loro autonomia rispetto al mio desiderio, l'altro uomo è l'ente che nega se stesso per dirigersi verso le cose; egli cioè unisce autonomia e dipendenza, confine e apertura e, in quanto tale, si rivela essere un'altra autocoscienza, al pari della prima.

L'interpellazione, ossia l'attribuzione, mediante il linguaggio, di un nome che renda soggetti, viene pronunciata proprio in virtù di quel momento cognitivo precedente in cui si è accertato, nell'altro, il possesso dei requisiti necessari al suo coinvolgimento politico: la sua capacità di agire in maniera riflessiva e di interagire con gli altri è garantita dalla condivisione di una medesima struttura autocosciente; in una parola, si è accertata nell'altro la sua umanità.

«Ciascuna [autocoscienza] vede l'altra fare la stessa cosa ch'essa fa; ciascuna fa quello che esige dall'altra, e quindi fa quello che fa, soltanto perché l'altra fa lo stesso. Un'attività unilaterale sarebbe inutile, perché ciò che deve accadere può realizzarsi solo mediante il fare identico di entrambe»131. L'ingresso nel regno dello Spirito, intravisto in anticipo dallo

sguardo del filosofo, rinvia al fatto che le singole autocoscienze potranno riconoscersi l'una nell'altra, e solo in seguito tutte insieme in quell'universale concreto che è il Noi, la comunità dei “simili”. Solo a questo punto si potrà procedere all'istituzione di un linguaggio e di parametri normativi comuni; pertanto, solo a questo punto si potrà parlare di interpellazione sociale nei termini di questo linguaggio.

E tuttavia, questo riconoscimento non è un risultato immediato né scontato, dato che il lettore della Fenomenologia è costretto a percorrere tutta la IV sezione dell'opera prima di pervenire a una dimostrazione del superamento reale di ogni unilateralità. Il concretizzarsi di un riconoscimento reciproco e pieno, che nel passo precedente era solo preannunciato nella forma di un “concetto puro”, avverrà al termine di un lungo itinerario di tentativi fallimentari di interazione sociale. Di questi tentativi fanno parte le figure della lotta per la vita e la morte, la sottomissione politica e sociale del servo, l'alienazione spirituale della coscienza infelice. Sono considerazioni che gettano luce sulle reali possibilità che il riconoscimento delle autocoscienze abbia luogo con successo. In realtà, fin dalle prime prove concrete di rispecchiamento nell'altro, l'esperienza che l'autocoscienza ne ricava è quella estremamente frustrante ed estraniante della perdita di sé.

Per l'autocoscienza, dunque, si dà un'altra autocoscienza. Essa è uscita fuori di sé [außer sich]. Questo «fuori-di-sé» ha un doppio significato: in primo luogo, l'autocoscienza, ritrovandosi come un'altra essenza, ha perduto se stessa; in secondo luogo, con ciò l'autocoscienza ha rimosso [aufgehoben] l'altro: essa, infatti, non vede anche l'altro come essenza, ma vede se stessa nell'altro132.

La prima concettualizzazione dell'intersoggettività, nella Fenomenologia dello Spirito, più che una rassicurante conferma dell'umanità dell'altro, mostra che quest'ultimo può minacciare l'io di alienazione e perdita di sé. Nella sua opera dedicata a Hegel, Butler commenta il passo precedente in questo modo: «l'autocoscienza iniziale cerca di riflettere se stessa nell'altra autocoscienza, ma non si trova esclusivamente riflessa, bensì completamente assorbita. […] L'autocoscienza si convince che l'Altro abbia occupato [...] o, persino, sottratto la sua stessa essenza: in tal senso l'autocoscienza si considera assediata dall'Altro. […] Il fatto che

131 Ivi, p. 277. 132 Ivi, p. 275.

l'autocoscienza possa trovare il proprio principio essenziale incarnato altrove suscita terrore e rabbia»133.

Il terrore e la rabbia sono le due espressioni emotive che accompagnano la presa di coscienza della frustrazione del desiderio di riconoscimento e dell'avvenuta perdita di sé. Essere usciti “fuori di sé” [ausser sich] – nota correttamente Butler – contiene infatti una triplice sfumatura di significati. Indica certamente il senso letterale del riconoscere una parte di se stessi “altrove”, incarnata in un altro individuo come per una sorta di parentela, o in un oggetto esterno che reca l'impronta del lavoro dell'io. In secondo luogo, “ausser sich” è usato nella lingua tedesca per esprimere alternativamente l'estasi o l'ira, due modalità emotive correlate, in quanto la condizione estatica di spossessamento di sé può essere accolta con ira da un soggetto che nutra l'ideale dell'autosufficienza e dell'autoaffermazione134.

L'estasi o l'ira richiamano da vicino le due polarità dell'oscillazione emotiva che, secondo Melanie Klein135, caratterizza la vita psichica del neonato. Ogni sensazione dolorosa e ogni

privazione, l'assenza del seno materno soddisfacitorio – il seno “buono” – e delle sue cure rassicuranti sono vissute dal bambino molto piccolo come l'effetto di un'aggressione attiva da parte di forze ostili, cioè come persecuzione attribuita all'agire frustrante di un seno “cattivo”136. In un continuo alternarsi di sentimenti di gioia estatica e di angoscia persecutoria,

i primi mesi di vita del bambino sono vissuti nell'incapacità di distinguere tra ciò che proviene dall'interno del proprio corpo e le sollecitazioni che lo raggiungono dall'esterno. In questo periodo di tempo, i meccanismi psichici principali sono la scissione relativa all'oggetto – perlopiù il seno materno – e i processi speculari di proiezione e introiezione delle immagini risultanti dalla scissione stessa. Il “seno cattivo”, in particolare, diviene la proiezione di tutta l'aggressività distruttiva del bambino, di tutto il suo odio e la sua paura, e va a costituire il prototipo di tutti gli oggetti persecutori esterni e interni che questi incontrerà nel suo sviluppo. Il dilemma della coscienza hegeliana, intrappolata fra le alternative di un'esistenza estatica e un'esistenza autodeterminata, si rivela per Butler soltanto apparente, in quanto il desiderio di ottenere un riconoscimento da parte dell'altro – che è di per sé già una forma di auto- alienazione – è sempre in una certa misura ostacolato dalla paura di esserne inghiottiti e resi schiavi. Il delirio di persecuzione paranoide viene a bloccare la possibilità di un riconoscimento sociale in quelle situazioni in cui l'altro raccoglie su di sé tutto il timore dell'io per la propria vulnerabilità, e diventa bersaglio d'odio e di aggressione difensiva.

133 J. BUTLER, Soggetti di desiderio, cit., pp. 54-55.

134 Ivi, p. 54.

135 Per le riflessioni di Butler su M. Klein, cfr. J. BUTLER, La vita psichica del potere, cit. pp. 62-63; EAD.,

Frames of War: When Life is Grievable?, Verso, London-New York 2009.

Sulla scorta di queste considerazioni, la riflessione butleriana sul tema del riconoscimento prende apertamente le distanze da qualsiasi ottimismo positivista che consideri il riconoscimento sociale il riflesso “naturale” di uno status ontologico. Più spesso – è la tesi di Butler – accade che il processo dell'interpellazione sia ciò che definisce preliminarmente i parametri di quello status. «Si può pensare», scrive la filosofa, «che, per essere interpellata, una persona debba prima essere riconosciuta, ma qui sembra appropriato il rovesciamento althusseriano di Hegel: l'appello costituisce un essere all'interno del possibile circuito del riconoscimento e, di conseguenza, al di fuori di esso, nell'abiezione».137 In una prospettiva

completamente ribaltata rispetto a quella con cui si apre la sezione sull'Autocoscienza hegeliana, l'interpellazione sociale stabilisce preliminarmente chi farà parte dell'umano e chi non ne farà parte. Essa può svolgersi secondo modalità sulle quali l'individuo non ha il minimo controllo e che possono inchiodarlo a una condizione che non ha scelto, alla quale non sarà in grado di aderire completamente.