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Interpellazioni primarie, narrazione e sopravvivenza

Il richiamo all'evento della nascita, rilevante per l'ingresso nel mondo dei codici sociali, ci introduce in un campo di saperi che ha fatto dell'indagine del simbolico il proprio problema centrale. Insieme all'analisi althusseriana delle forme ideologiche del dominio, la teoria butleriana dell'interpellazione si interseca con lo scenario psicoanalitico degli investimenti primari.

Nei classici del pensiero psicoanalitico Butler ritrova un'idea di soggetto non auto-fondato, limitato nella sua conoscenza di sé, le cui condizioni di emergenza non possono mai essere totalmente raccontate147. Freud e i suoi successori spiegano l'opacità del soggetto a se stesso

come una conseguenza della sua struttura relazionale: ogni relazione della vita adulta, infatti, si richiama a forme di relazionalità primarie, risalenti ai primi rapporti con il mondo esterno e alle prime esperienze affettive. La psicoanalisi insegna che queste forme di relazionalità originanti sono difficilmente recuperabili a una conoscenza consapevole e riparabili solo con fatica; il transfert che si verifica nell'ambito di una terapia psicoanalitica, ad esempio, rappresenta la possibilità di rivolgersi a un “tu” immaginario, all'interno di una struttura interlocutoria implicita, attraverso la quale diventa possibile trasferire e rielaborare forme di relazionalità anteriori e più arcaiche.

Tale relazionalità precoce viene a configurarsi come una vera e propria forma di dipendenza. L'altro, non importa se immaginario o esistente, campeggia sulla scena interlocutoria e, con la sua domanda rivolta verso di noi, la definisce. L'“io”, che narra la propria storia in risposta alla domanda dell'altro, è solo erroneamente supposto come preesistente a quella domanda. L'“io” non è anteriore all'interpellazione dell'analista, al suo incoraggiamento a parlare, più di

quanto non lo sia il sé del neonato rispetto alle ripetute interpellazioni degli adulti. Questo perché, per Butler come già per Althusser, «i termini stessi in cui diamo conto di noi, in cui ci rendiamo intelligibili a noi stessi e agli altri, non dipendono da noi: sono intrinsecamente sociali, definiscono norme sociali, un dominio “costrittivo”, di non libertà e di sostituibilità al cui interno le nostre singole storie possono essere raccontate»148.

La narrazione di qualsiasi storia, fosse anche la più intima, può avvenire soltanto nel rispetto di norme riconoscibili di narrazione biografica: la scelta del momento di “inizio”, l'attraversamento di luoghi e tempi descrivibili, l'articolazione coerente di sequenze nel rispetto di una struttura causale e di nessi logici. «Nella misura in cui l“'io” accetta , sin dal principio, di narrarsi attraverso queste norme, accetta anche di capovolgere la sua narrazione ricorrendo a un'esteriorità, e quindi di disorientarsi nel corso del racconto attraverso modi di dire che hanno una natura impersonale»149.

A questo, occorre aggiungere che i resoconti delle esperienze inaugurali di un soggetto sono sempre riattivazioni postume affette da quella che Freud definirebbe Nachträglichkeit, vale a dire un “principio di posteriorità”150: l'origine diventa accessibile solo retroattivamente e

secondo modalità fantasmatiche, dato che chi narra non era realmente presente agli eventi di cui sta narrando. L'“io” viene introdotto come voce narrante all'inizio della “sua” storia, ma non può realmente rendere conto in maniera definitiva e adeguata di come sia divenuto un “io”: le dimensioni retoriche della scena interlocutoria “inaugurale” sono il dialogo, la convocazione, l'ingiunzione; irriducibili a ogni narrazione in prima persona, queste dimensioni retoriche non sono mai interamente recuperabili attraverso i termini narrativi stessi.

«Se l'altro è sin dall'inizio sempre là, […] allora la vita si costituisce attraverso una fondamentale interruzione, ossia è interrotta prima che si dia la possibilità di qualsiasi

continuità»151. La possibilità di una sintesi storica sensata è compromessa dall'esistenza di una

rottura all'origine di quella stessa storia: ogni storia personale è inaugurata da una rottura dell'indistinto, realizzatasi nel momento in cui ciascuno è stato trascinato in una struttura simbolica e sociale, prima ancora di riuscire ad orientarvisi.

Come scrive Bourdieu altrove, «nel caso dei campi sociali […] non si entra nel gioco con un atto cosciente, si nasce nel gioco, con il gioco, e il rapporto di credenza, di illusio, di

148 Ivi, p. 33. 149 Ivi, p. 74.

150 Cfr. J. LAPLANCHE-J.B. PONTALIS, Vocabulaire de la psychanalyse, Presses Universitaires de France, Paris

1967; trad. it. a cura di G. Fuà, Enciclopedia della psicanaisi, Laterza, Bari 1968, pp. 389-393. 151 J. BUTLER, Critica della violenza etica, cit., p. 73.

investimento è tanto più totale, incondizionato, quanto più si ignora come tale»152. La lingua è

un gioco che si apprende dall'interno, non a partire dalle regole ma dall'uso in atto che altri ne fanno. Si impara a pensare «in questa lingua» piuttosto che «con questa lingua»153. Ciò

determina il fatto che i presupposti in cui nasciamo e che strutturano la nostra prima esperienza del mondo ci restano innanzitutto sconosciuti, impensati, non coscienti. Essi tendono a riprodursi attraverso i singoli, con la forza dell'habitus contingente che caratterizza una certa classe e una certa epoca storica.

Con toni che ricordano Bourdieu, Butler afferma che il linguaggio viene acquisito mediante una complessa forma di mimesi, sulla base di modelli di interpellazione che ci sono imposti da altri prima che riusciamo a farne uso. Tali modelli comprendono segni tattili e uditivi, spostamenti, cure di vario genere, che si “depositano” nella formazione di ciascuno e lo costituiscono come oggetto di attenzioni e soggetto di desideri. Anche la violenza, l'abbandono, l'oltraggio, il vuoto e il silenzio sono modi di chiamare in causa; nell'uno e nell'altro caso, secondo Butler, si tratta sempre di un'intrusione o “inscrizione” primaria, che lascerà nella vita di ognuno tracce enigmatiche e parzialmente illeggibili, ma comunque capaci di pesare e condizionare le azioni future.

Ispirandosi all'opera di Jean Laplanche154, Butler può proporre un'associazione tra l'effetto di

questa primaria interpellazione e l'inconscio. Il “mio inconscio”, secondo Laplanche, si forma come una sorta di “precipitato” delle richieste e sollecitazioni sensoriali ed emotive che il mondo adulto muove nei confronti del neonato, ancora sprovvisto di un “io”. Ovviamente parlare di un “mio inconscio” significa utilizzare una terminologia autocontraddittoria, dal momento che l'inconscio non è predicabile come qualcosa che si possiede e la teoria di Laplanche mira a sottolinearne proprio l'estraneità ontologica rispetto all'io. L'inconscio, per Butler, oltre a essere una sfida retorica alla grammatica dell'appartenenza, è precisamente ciò che sottolinea l'espropriazione dell'io, il suo decentramento rispetto alla richiesta dell'altro, che ci vivifica nello stesso momento in cui ci sommerge con le sue manifestazioni variegate, enigmatiche, imperscrutabili. L'inconscio assume il ruolo di espediente psichico che rende possibile il contenimento e la gestione di questa alterità così esorbitante.

Parallelamente allo sforzo di reprimere gli aspetti “eccessivi” e opprimenti delle manifestazioni del mondo adulto, l'io tenta di negoziare la propria individuazione: esso emerge nella sua separatezza e riflessività solo a causa – e per mezzo – di un insieme di

152 P. BOURDIEU, Le sense pratique, Minuit, Paris 1980; trad. it. di M. Piras, Il senso pratico, Armando Editore,

Roma 2005, p. 104. 153 Ivi, p. 105.

154 J. LAPLANCHE, Le Primat de l'autre en psychanalyse. Travaux 1967-1992, Flammarion, Paris 1997; trad. it.

relazioni e processi sollecitati dal mondo adulto e dai suoi schemi normativi. Ciò significa che per Butler esiste una convergenza tra la scena politica che vincola fin dall'inizio la vita dei soggetti e la scena psicoanalitica, che di questi vincoli indaga le prime manifestazioni. Come per Althusser, anche per la psicoanalisi la soggettivazione si verifica in seguito a un investimento di potere “primario”. Ciò avviene per una forma di “violazione” della dimensione sensibile del neonato, fondamentalmente passiva e ricettiva delle impressioni opprimenti ed enigmatiche, talvolta traumatiche, che il mondo circostante gli comunica. A causa delle sue limitate capacità motorie e della sua estraneità al mondo dei segni “adulti”, il bambino piccolo si trova indifeso, incapace di articolare in modo chiaro le proprie risposte. Proprio come nella scena di interpellazione althusseriana, anche nella condizione neonatale una voce autorevole designa un soggetto e lo riveste performativamente di attributi, di una responsabilità, di un ruolo, di cui egli dovrà “rispondere” per l'avvenire. La voce interpellante svolge in entrambi i casi una funzione adamitica di ri-chiamo all'esistenza, assegna una forma, un ruolo – e una colpa – “propri” a ciascun essere.

Althusser, con un evidente richiamo a Nietzsche, scrive che «l'esperienza mostra che le telecomunicazioni pratiche dell'interpellare sono tali che l'interpellare non manca praticamente mai il suo uomo: richiamo verbale, o colpo di fischietto, l'interpellato riconosce sempre che era proprio lui che veniva interpellato. Si tratta però lo stesso di un fenomeno strano, e spiegabile solo – malgrado il gran numero di coloro che “hanno qualcosa da rimproverarsi” – con il “sentimento di colpevolezza”»155. E tuttavia, questo sentimento di

colpevolezza è anch'esso conseguenza della vita sociale, di una «precoce esposizione al mondo adulto, […] di messaggi e significanti che vengono imposti da questo ambiente e producono impressioni primarie opprimenti e ingovernabili, per cui non è possibile alcun adattamento già dato»156. Così come non esiste alcun “io” prima di questo momento di

interpellazione transitiva, non esiste alcuna “colpa” al di fuori dell'ingiunzione a confessare. La necessità di raccontarsi, cioè di auto-rappresentarsi, deriva sempre, come abbiamo appreso da Nietzsche, dal trovarsi di fronte a un'istituzione punitiva che ingiunge di render conto di sé, investendo quel sé di un valore esplicativo causale. «Il problema, allora, di chi sia

responsabile di una determinata ingiuria precede e dà inizio al soggetto e il soggetto stesso è formato nell'essere designato ad abitare quello spazio grammaticale e giuridico»157.

Secondo Butler, in altre parole, «raccontare una storia su di sé non equivale a rendere conto di

155 L. ALTHUSSER, op. cit., p. 57.

156 J. BUTLER, Critica della violenza etica, cit., pp. 98-99.

sé»158, perché oltre che parlare del soggetto, il linguaggio racconta anche una realtà sociale,

interlocutoria, ossessionata, oppressiva, persuasiva. Essere soggetti significa infatti avere la possibilità di assumersi le proprie responsabilità, cioè la possibilità di descrivere, nel linguaggio che si è ricevuto in dote, la natura del nostro coinvolgimento in una determinata serie di eventi. Questa possibilità, tuttavia, ci è imposta nostro malgrado e ci vincola al punto da non permettere a nessuno di recidere il legame primigenio con il linguaggio e con la scena interlocutoria. La conclusione è che «la narrazione non scaturisce ex post dall'agire causale, ma costituisce il prerequisito necessario per ogni resoconto di una forma di azione morale»159.

Un gioco di parole può facilmente sintetizzare il modo in cui Butler concepisce l'ambivalenza della soggettivazione: l'atto linguistico che costituisce un soggetto fa tutt'uno con l'atto di questo soggetto di “costituirsi”: dichiararsi colpevole, rispondere all'appello di un'istanza giudiziaria e punitiva. Senza dover ricorrere al rigido impianto della Legge lacaniana, la struttura interlocutoria resta, per Butler, inscindibile da un rapporto con una forma di legalità tale da condizionare la produzione di giudizi su qualcuno e sulle sue azioni; l'interlocuzione primaria, esattamente come l'interlocuzione sociale, non può essere concepita come scevra da ogni legame con la forma repressiva: entrambe possono dar luogo a giudizi violenti e a risposte e resistenze ancora più violente. La paura, in molti casi, può essere dettata dall'eventualità di non avere alcuna storia da raccontare, o di non riuscire a narrare gli eventi salienti della propria vita in un ordine socialmente accettabile.

Affermare, come fa qualcuno, che il sé deve essere narrato, e che solo il sé narrato può essere intelligibile e quindi sopravvivere, equivale a dire che non possiamo sopravvivere con un inconscio. Significa in realtà affermare che l'inconscio ci minaccia con un'insopportabile inintelligibilità, e che per questo dobbiamo opporci a esso. L'“io” che pronuncia un simile discorso, in un modo o nell'altro, sarà sicuramente assillato da ciò che rinnega. […] Che si tratti di una presa di posizione difensiva è piuttosto evidente, […] questa non è altro che la resistenza più diffusa nei confronti della psicoanalisi. Nel linguaggio che articola l'opposizione a un'origine non narrativizzabile, alberga la paura che l'assenza di una narrazione possa dar forma a una certa minaccia, una minaccia nei confronti della vita, e comporti quindi il rischio, o forse addirittura la certezza, di un certo tipo di morte; la morte di un soggetto che non può e non potrà mai pienamente recuperare le condizioni del suo stesso emergere. Ma questa morte, se di morte si tratta, è solo la morte di un certo tipo di 158 J. BUTLER, Critica della violenza etica, p. 22.

159 Ibidem. Quella relazione resiste, anche se nella forma del rifiuto, anche se decido di restare in silenzio o di avanzare una richiesta di cambiamento delle condizioni dell'interpellazione. Quale che sia la forma che assume – verbale, gestuale, simbolica – il codice espressivo condiviso da un gruppo sociale rimane pur sempre un linguaggio. Tuttavia, benché un qualche linguaggio resti sempre in gioco, la “forgiatura coercitiva dell'umano” presenta i limiti che Butler sta tentando di delineare.

soggetto, con il quale non è mai stato possibile inaugurare alcunché: è la morte della fantasia di un'impossibile padronanza, di un controllo assoluto, la morte di ciò che in realtà non si è mai posseduto. In altre parole, è un lutto necessario160.

L'inintelligibile minaccia l'unitarietà del soggetto, ma questo inintelligibile ha origine nell'alterità sociale. Le condizioni sociali di significazione forniscono le cornici necessarie per la narrazione di sé, costituendone al contempo il punto cieco, la traccia di estraneità che affetta l'io, l'angoscia di essere prigionieri dell'altro. L'altro diventa facilmente «il nome che si dà a quell'angoscia e a quella opacità: “Tu sei la mia ansia, ne sono sicura. […] Chi è questo tu che abita in me e da cui non riesco a districarmi?”»161.

Se l'io, secondo Butler, è l'effetto sollecitato dall'interpellazione sociale, l'ambito del sociale è la causa della “costitutiva impressionabilità” dell'io: le norme che mi fanno esistere, sociali nella loro essenza, sono ciò a cui l'io è consegnato in una dipendenza radicale, e contemporaneamente sono ciò che è più difficile ricostruire in una forma narrativa. Questo, per Butler, non significa che sia impossibile o insensato ogni approccio descrittivo o critico alle norme sociali, ai codici linguistici e simbolici che ci “ostacolano” e ci producono autoritariamente. Al contrario, significa che quando si decide di affrontare un simile argomento, occorre fare attenzione e comprendere i limiti di ciò che è possibile fare, che sono i limiti che condizionano ogni possibile azione.