• Non ci sono risultati.

Ciò a cui Judith Butler si riferisce con la formula foucaultiana di «discorso-inverso»355 è, a

livello linguistico e sociale, il fenomeno che segna con maggior evidenza il verificarsi di questi atti di resistenza “dialettica” al regime normalizzatore. Pur riconoscendo a Foucault di aver tematizzato la necessità di una resistenza immanente al discorso, Butler gli contesta di non aver saputo cogliere per intero le ragioni per cui ciò deve accadere. Secondo Butler, Foucault non tiene conto del fatto che il desiderio appassionato è sempre un desiderio di

linguaggio: è il desiderio con cui ciascuno ambisce a ottenere un'identità nel linguaggio. Così

come è giusto non esaltare il potere di resistenza dell'inconscio psichico o dell'immaginario, e non è sufficiente attribuire a queste dimensioni psichiche “altre” rispetto al sociale tutto l'onere dell'opposizione, allo stesso modo non si deve sottostimare la forza con cui il desiderio di soggettivazione di chi è escluso da essa possa portare a un'appropriazione “rovesciata” della norma, con esiti imprevedibili.

Secondo Butler, benché questo motivo sia stato da Foucault sottostimato, è proprio in virtù di esso che ha senso appoggiare la proposta foucaultiana di una rioccupazione e risignificazione radicale di quegli epiteti, appellativi, luoghi linguistici e in generale significanti discorsivi che limitano l'esistenza a certe forme di possibilità: le offese mobilitano perché fanno leva sull'attaccamento narcisistico ai termini che rendono possibile l'esistenza sociale, quindi la proliferazione sovversiva del discorso avviene a causa del desiderio di impadronirsi di quei termini per modificarne le condizioni di utilizzo.

La risignificazione e la ricontestualizzazione politica di termini linguistici offensivi o già appartenuti ad ambiti disciplinari ghettizzanti possono venire perciò recuperati da coloro che ne sono i bersagli e, fatti propri, esibiti in chiave provocatoria. Ciò è possibile perché, pur ritenendo il linguaggio un'importante forma di agency sociale, Butler è convinta che esso «non “agisce” direttamente o causalmente “su” colui o colei cui si rivolge […]. In realtà, il

fatto che certi enunciati offensivi siano simili a un'azione potrebbe essere proprio ciò che trattiene questi ultimi dal dire ciò che vogliono dire o dal fare ciò che dicono»356.

L'equivocità è una caratteristica del linguaggio intrinseca, sostanziale, niente affatto contingente. Deriva dalla disgiunzione strutturale di significato e significante, i due volti incommensurabili del segno legati tra loro da un rapporto differenziale. Questa peculiare condizione “bifronte” della parola è una caratteristica non trascurabile in quanto, da una parte, ostacola la fluidità della comunicazione, rendendo possibile il capovolgimento e il deragliamento di un significato, ma, al contempo, garantisce sempre la possibilità del verificarsi di uno “scacco” del parlare ingiurioso e subordinante357.

Questo parlare può mancare il proprio bersaglio – e di fatto manca continuamente il proprio bersaglio – poiché l'istanza che viene reiterata nel pronunciare l'epiteto offensivo è, da un punto di vista retorico, “soltanto” un significante, il cui legame con il significato può essere sovvertito e modificato a seconda del contesto di emissione e delle convenzioni in uso fra i parlanti. Il significato è, nella lingua, l'elemento da discutere, indicato attraverso segni ma mai esaurito in essi.

Come spiega Jacques Derrida, colui che si pone come soggetto interpellante deriva il proprio potere da una citazionalità o iterabilità che è caratteristica propria di tutti i sistemi di segni differenziali, dal linguaggio verbale ai codici inconsci delle rappresentazioni collettive, propri di una data cultura e di una data epoca storica. Ciò che un parlante fa, nel momento in cui si esprime linguisticamente, è introdursi, mediante il suo atto, in una comunità storico- linguistica di parlanti, grazie al fatto che l'atto stesso da lui compiuto è citazionale.

D'accordo con Derrida, Butler afferma che l'atto linguistico è una pratica ritualizzata. Come nel dettato nietzscheano non troviamo “ein Tat” [un atto] ma solo “das Tun” [il fare], allo stesso modo possiamo dire che l'atto è un'astrazione del fare nella misura in cui manca di concretezza rispetto alla storia delle convenzioni costitutive da cui è mosso. L'atto linguistico presente riecheggia atti precedenti e da questa “tradizione” autorevole deriva la forza della sua azione presente. Con linguaggio hegeliano si potrebbe forse asserire che l'agente rappresenta il momento astratto mentre l'essenziale è, in un primo tempo, celato, reso invisibile dall'apparire del singolo parlante; l'essenziale è, in questo contesto, il fare storico e sociale che affonda le proprie radici nell'agire dei gruppi e delle identità reali. La transitività che crea i soggetti attraverso la nominazione, allora, invece di avere la propria origine nel

356 J. BUTLER, Parole che provocano, cit., pp. 102-103.

357 Su questi temi, oltre al classico F. DE SAUSSURE, Cours de linguistique générale, Payot, Paris 1972; trad. it.

di T. De Mauro, Corso di linguistica generale, Laterza, Roma-Bari 1967; cfr. anche J. DERRIDA, Linguistique

et grammatologie, in Id., De la grammatologie, Minuit, Paris 1967; trad. it. a cura di G. Dalmasso, Linguistica e grammatologia, in Id., Della grammatologia, Jaca Book, Milano 1969, pp. 49-108.

soggetto, è una caratteristica dell'intero processo di stratificazione dei significati, che si sostanzia di citazioni successive, di riprese, di trasformazioni, di adulterazioni.

Se le cose stanno così, possiamo comprendere meglio l'analisi retorica nietzscheana nella sua funzione decostruttiva della pratica linguistica: secondo Butler, infatti, Nietzsche tratta di «quella metalessi attraverso cui il soggetto che “cita” il performativo è prodotto

temporaneamente come origine tardiva e fittizia del performativo stesso»358. Butler interpreta

questa nozione come il movimento con cui la citazionalità del linguaggio, richiamata da ogni performativo enunciato ma nascosta in esso, permetta, di fatto, di “istituire” l'apparente “sovranità” del soggetto, operativa nelle parole da esso pronunciate.

Il soggetto sovrano mette in scena se stesso come l'origine di un'autorità che in realtà è derivata; tale autorità deriva da una storia che, per la sua temporalità, non può essere messa sotto processo. Ciò che il potere giuridico tenta di celare, secondo la filosofa americana, è l'impossibilità di punire efficacemente, di bloccare e contenere in via definitiva un male che non ha un'origine circoscrivibile e, pertanto, non è passibile di incriminazione. Il soggetto è un dispositivo che permette di occultare la genealogia che lo ha formato e di distribuire e localizzare il peso della responsabilità della storia: «la giuridicizzazione della storia, dunque, è ottenuta proprio attraverso la ricerca di soggetti da perseguire legalmente che potrebbero essere ritenuti responsabili e, dunque, che potrebbero risolvere temporaneamente il problema di una storia fondamentalmente non perseguibile»359.

Con ciò Butler non intende sostenere che i soggetti non siano mai perseguibili o punibili per le loro parole o azioni. L'autrice sta, di nuovo, dislocando la domanda: secondo il suo metodo di indagine, è opportuno chiedersi non più chi dobbiamo punire, ma cosa significa punire, o ritenere la punizione giuridica l'unica risposta appropriata a un torto subito. In altre parole, a che cosa si rinuncia quando il discorso politico è schiacciato su quello giuridico e l'opposizione politica viene messa fuori gioco dal procedimento giudiziario.

Ciò a cui si rinuncia, ovviamente, è la possibilità di contribuire a ridefinire i termini della giustizia sociale e di agire in contrasto con il pensiero e la pratica dominanti. La capacità di agire politicamente, infatti, non può prescindere per Butler dal passaggio attraverso la critica delle cornici di riferimento: gli universali che sorreggono il nostro pensiero e il nostro linguaggio. Ogni concezione dell'universalità che ritenga di poter offrire se stessa attraverso una definizione o una formula dimentica, il più delle volte, di essere il frutto di un ben preciso processo storico che l'ha fatta emergere. Uno dei meriti innegabili ascrivibili al lavoro di

358 J. BUTLER, Parole che provocano, cit., p. 70.

Michel Foucault, ad esempio, è di aver mostrato l'articolazione storica di ogni criterio di universalità oggi in uso, e come esso sia emerso contestualmente a ben precise esclusioni geografiche, sociali, psichiche e sessuali, e a ben precisi processi storici di disciplinamento. Il linguaggio che voglia contestare un principio ritenuto fondamentale o “universale”, e che desideri argomentare contro quella presunzione di universalità, deve spesso scontrarsi con vari livelli di censura stabiliti dal linguaggio performativo del legislatore, dalla norma socialmente accettata, dal sentire comune tradizionale. Ammettere la difficoltà, se non l'impossibilità, di far coincidere interpretazioni diverse sostenute da attori sociali diversi in un pubblico dibattito, anche internazionale, equivale ad ammettere il carattere instabile e sempre lacerato di ogni concezione dell'universalità.

La pratica della critica, allora, deve consistere nella facoltà di appropriarsi di un significante circolante all'interno di un contesto e nel trasferirlo all'interno di un nuovo contesto. De- contestualizzare un termine significa allo stesso tempo ri-semantizzarlo, legarlo a un diverso significato mediante un'operazione che tuttavia è – per principio – sempre fallibile e provvisoria.

Se si rischia sempre di avere un significato diverso da quello che si pensa di enunciare, allora si è, per così dire, vulnerabili, in uno specifico senso linguistico, a una vita sociale del linguaggio che eccede l'ambito del soggetto che parla. Questo rischio e questa vulnerabilità sono propri del processo democratico nel senso che non si può conoscere in anticipo il significato che l'altro assegnerà al nostro enunciato, quale conflitto interpretativo potrebbe sorgere e quale sia il modo migliore di definire tale differenza. Lo sforzo di trovare un accordo non trova una soluzione a priori, ma solo attraverso una concreta lotta di traduzione che non ha alcuna garanzia di successo360.

Così come l'unico principio non discutibile all'interno di una Costituzione fondata sul libero scambio delle idee deve essere l'impossibilità di abrogare questo stesso principio, così una nozione di universalità aperta alle contestazioni è, secondo Butler, l'unica universalità sostenibile poiché non fa esclusioni in via preliminare. Nei casi in cui questo succede, e viene dichiarato un presunto “stato d'eccezione” in cui la libertà di espressione e altre libertà sono sospese, una forma di totalizzazione inizia a prendere piede e il diritto non sembra più in grado di garantire la propria autoconservazione.

Tuttavia, secondo il ragionamento illustrato, nessuna totalizzazione può mai riuscire a imporsi del tutto, perché l'inizio della trasgressione risiede già nella messa in pratica della regola. La minaccia di un'uniformità imposta per via autoritaria è peggiore, secondo Butler, della

minaccia del “deteriorarsi” di una situazione linguistica, ma è proprio il deterioramento strutturale di ogni paradigma linguistico che dovrebbe garantire una vita limitata a ogni violenza dell'universale.