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Autonarrazione della storia personale 6.7 Messa in scena della propria morte a Koyasan

ASPETTI TERAPEUTICI: DAL CONTESTO SOCIALE

6.8 Autonarrazione della storia personale 6.7 Messa in scena della propria morte a Koyasan

La strategia terapeutica

6.1

In Italia è tra il 2007 e il 2008 che sono stati registrati i primi casi di Hikikomori ma identificare una data precisa non vuol per forza significare che il problema sia sorto dal nulla ma è ipotizzabile che fosse presente da tempo ma semplicemente non gli era stata posta la giusta attenzione da parte di professionisti e famiglie.

Dal 2008 ad oggi si stanno muovendo diversi specialisti multidisciplinari che cercano di mettere a confronto diversi punti di vista appartenenti ad approcci psicoterapeutici differenti, allo scopo di capire non tanto il paziente ma la persona con i suoi sintomi e la sua storia personale. Da quando è emerso il fenomeno in italia, così come in Giappone, gli interrogativi e le riflessioni non si esauriscono anzi l’approccio nei confronti della reclusione viene sempre messo in discussione sia dal punto di vista terapeutico che multidisciplinare. Tutt’oggi in Italia non esistono specifiche strategie atte alla prevenzione nei confronti di questa condizione.

Sembra, anche, utile supportare i soggetti nell’identificazione di propri talenti e cercare di valorizzarli, oltre che provare a stimolare in loro il desiderio di apprendere o dedicarsi a qualcosa che li appassiona. E tutto questo dovrebbe partire dalle istituzioni scolastiche, che non dovrebbero portare alla standardizzazione ma piuttosto alla valorizzazione dei singoli talenti che ogni individuo possiede.

Studi e ricerche hanno confermato l’importanza di una comunicazione efficace all’interno della famiglia e che per arrivare a questa è necessario essere aperti a idee e sentimenti altrui. Infatti, la qualità della comunicazione è fondamentale per un corretto funzionamento familiare e benessere psicologico, emotivo e sociale.

“La maggior parte dei professionisti che lavorano nel sociale e che hanno a che fare con i giovani sono sempre più costretti a fare i conti con nuove forme di disagio caratterizzate da identità fragili, da un Sé mal strutturato e da relazioni

patologiche di dipendenza.” (Bagnato, 2017, p. 45)

In qualsiasi azione terapeuta adottata la comunicazione si è basata su: > Pazienza, evitando qualsiasi tipo di forzatura;

> Gentilezza, non dimostrarsi intimidatori o supponenti ma empatici; > Sostegno, cercando di evitare il giudizio;

> Niente panico, occorre mantenere la calma; > Ascolto efficace, anche dei silenzi;

> Perseveranza, nonostante la presenza di varie barriere da loro erette; > Essere neutrali, non prendere le parti di nessuno;

> Assenza di categorie e ruoli, per garantire un rapporto alla pari, > Evitare regole e organizzare il tempo, in modo da evitare ansie e stress; > Rispettare la privacy e spazi personali, per evitare barriere o reazioni negative > Slow communication, consentire il recupero della vita quotidiana ma a brevi passi > Stimolare una conversazione, cercando di partire da suoi interessi

> Nessuna domanda sul passato, per non far insorgere emozioni negative legate a quegli eventi > Non farli vergognare della propria storia personale

> Non alimentare la rabbia o violenza, con domande inopportune o invadendo la loro privacy. > Accompagnarli durante tutto il percorso, non abbandonandoli ma continuare a stargli vicino.

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In tal senso la comunicazione può dividersi in aperta o problematica:

- La comunicazione aperta è distinta da uno scambio di messaggi chiari e dalla volontà di risolvere problemi servendosi di empatia e sostegno.

- La comunicazione problematica è caratterizzata da una chiusura ed evitamento delle difficoltà che possono venire a verificarsi.

Stare male può rendere faticosa qualsiasi conversazione, soprattutto in persone fragili e vulnerabili, per queste ragioni direzioni cui dovrebbe virare una terapia sono molteplici ma per prima cosa è necessario entrare in contatto col mondo interiore della persona, fino a che non si instauri un rapporto di fiducia. Non c’è terapia farmacologica ma solo cura intesa come dialogo e ascolto, anche dei silenzi.

È raro che chi si ritiri voglia parlare delle persone intorno a loro, piuttosto è più semplice parlare con loro di ciò che gli interessa o li appassiona. Una volta che si è creata una base relazionale sicura si potrà tentare di aiutare il paziente a ritornare alla realtà. Ma la reclusione stessa rende difficile l’instaurarsi di un contatto e per tale ragione entrano in gioco soluzioni alternative quali: visite domiciliari, contatti telefonici o via internet, sessioni di gioco condivise, ascolto di musica, terapie creative. Inoltre, gli elementi che risultano fondamentali emersi dai diversi tipi di approcci terapeutici sono:

- Trovare anche solo un amico con cui parlare; - Riuscire ad esprimere se stesso;

- Sentirsi parte di un gruppo;

- Condividere la propria storia con qualcuno che si reputa pari; - Non sentirsi giudicati dagli sguardi o dalle opinioni; - Qualcuno che sa o prova a capire aiuta sempre.

Assolutamente il ricovero e l’internamento rappresentano i modi peggiori per affrontare questa problematica. Occorre non dire parole ma solo aspettare. Il paziente Hikikomori non ha alcun bisogno di aiuto, lui dice di star bene e ne è fermamente convinto: è il soggetto antiterapeutico per eccellenza, visto che si oppone ad ogni tentativo di contatto e promuove il silenzio.

Quindi non bisogna attendere che si decida in autonomia ad uscire di casa per raggiungere lo studio del terapeuta ma piuttosto che il contrario: il terapeuta deve accettare la sfida e cercare di entrare nella vita di quella persona, facendosi strada passo dopo passo oltre quella porta chiusa.

Occorre lavorare anche con le figure genitoriali, cercando di migliorare la comunicazione interna della famiglia. Combattendo con la tendenza dei genitori a non riconoscere il problema o sottovalutarlo. L’intervento medico non è semplice: spesso c’è un rifiuto da parte del soggetto per paura d’essere rinchiuso in un ospedale psichiatrico; oppure i genitori vorrebbero che il terapeuta risolvesse il problema velocemente non accettando che affinché un recupero efficace avvenga c’è bisogno di tempo, a volte anche molti anni.

La pazienza è impegnativa e richiede costante attenzione oltre che prudenza nell’agire. Solo attraverso un costante sforzo di autoriflessione e comprensione a parte di tutti, soprattutto della famiglia, è possibile ottenere risultati.

Anche i genitori hanno bisogno d’essere ascoltati dagli esperti così da riuscire a lasciarsi alle spalle il disagio e le preoccupazioni di cui si sono fatti carico per poter aiutare il figlio. Infatti, il supporto della famiglia è essenziale per offrire incondizionatamente senso di sicurezza, essendo l’unico riferimento a cui far affidamento del giovane Hikikomori.

“Ma pazienza e perseveranza possono davvero generare buoni frutti poiché il terreno non è arido, il ragazzo anche se sembra apatico, nei confronti delle azioni e dei genitori è invece estremamente ricettivo ed è sensibile a tutto ciò che gli accade attorno” (Ricci, 2008, p. 62)

Solitamente sono le madri che per prime contattano i centri di consultazione, associazione o terapisti, e si prodigano nella ricerca di informazioni su quanto sta capitando al figlio per comprendere come agire e migliorare la situazione. Quando il problema inizia ad insorgere accade quasi sempre che venga considerato un evento inaspettato dai famigliari; nonostante ci siano stati magari momenti di chiusura, fragilità, vergogne inaspettate o soffrenze di vario tipo.

Questi segnali apparenti però non sono molti e vengono considerati solo postumi, così si genera un conflitto genitoriale: avevano visto dei sintomi ma hanno taciuto, facendo finta di niente. A sentirsi maggiormente in colpa sono solitamente le figure materne perché sono loro che più di tutti hanno intuito naturalmente il malessere iniziale del figlio. Solo quando capisce che non è un problema legato strettamente a lei ma è un problema di natura sociale, inizia a sentirsi meno in colpa.

All’interno della terapia, oltre la madre, è necessario coinvolgere anche il padre e il rapporto del figlio col computer. La figura paterna è quella che tipicamente viene considerata dalla madre un alleato, un soccorritore, che può aiutare a prendere misure di sicurezza in una situazione ormai diventata ingestibile e risulta così l’interlocutore più competente. Ma non sempre imporsi da parte del padre risulta l’atteggiamento più corretto. Si rischia così di aumentare l’attrito in famiglia e la crisi, per tale ragione è necessario un incontro tra le parti.

Da quello emerso nei testi e nelle parole degli specialisti riguardo i padri italiani, rispetto a quelli giapponesi, è che si tratta per la maggior parte di uomini molto presenti, orgogliosi e severi che hanno sempre seguito i figli, intervenendo nel progetto educativo. Invece, sempre stando alle parole degli esperti, se da un lato c’è una figura maschile non più assente ma severa, dall’altro ci sono le madri italiane che sono troppo affettuose.

I concetti un tempo fulcro del modello maschile, come virilità e machismo, vengono scardinati e il padre un tempo portatore di questi canoni si rivela fragile, inadeguato e debole: non più un eroe ma un fantoccio. Quindi non si tratta più di imporre divieti o limiti ma di insegnare a se stessi e ai propri figli che il

“Forse il bambino di cui erano madri orgogliose, era in realtà molto più insicuro di quanto ci si potesse aspettare e, dietro l’apparenza, coltivava dolorose incertezze, sembrava in difficoltà con i fallimenti e le frustrazioni, e questo sarebbe potuto diventare un grosso limite in futuro.”

(Spiniello, Piotti, Comazzi, 2015, p. 134)

[...] quando la legge non riesce ad essere imposta, quando i limiti non vengono dati, l’intera funzione paterna entra in una crisi insuperabile. Questo è quello che si vede in ognuna delle nostre figure paterne tanto che c’è un’immagine che riassume perfettamente queste dinamiche: uno dei nostri ragazzi ha associato alla tavola paterna del Rorschach l’idea di uno spaventapasseri.” (Ibidem, 2015, p. 145)

“Si tratta di aiutarlo a capire che quello che il figlio cerca non è il padre perfetto ma, all’opposto, un padre capace di riconoscere i propri limiti senza rimanerne distrutto.”

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fallimento e l’incompletezza fanno parte dell’esistenza, imparando entrambi ad accettare l’imperfezione.

Altro elemento fulcro in questo tipo di contesto è la relazione con internet, computer e videogames. Ad esempio, sebbene vengano fornite dai genitori delle direttive e regole su orario e tempi di gioco o utilizzo di internet, queste vengono ripetutamente infrante. Finisce così che il computer venga visto come l’antagonista nella vicenda e paragonato ad una sostanza che dà dipendenza. Ma nel caso specifico degli Hikikomori non lo è così: internet e videogames forniscono ancora un modo per rimanere in contatto con qualcuno al di fuori della cerchia familiare e fare esperienza, seppur virtuale. Se, sia madre che padre, sapranno vedere i lati positivi delle nuove tecnologie potranno trovare un nuovo metodo per comunicare e relazionarsi con il proprio figlio.

Essenziale rimane la volontà dei genitori di chiedere aiuto, contattando associazioni e facendo in modo di stimolare l’uscita verso il tanto temuto “fuori”. Sicuramente bisogna accettare che la cura non coincide col far tornare il figlio a scuola ma che sono necessari passi iniziali per arrivare fino a quel risultato.

Va ricordato che purtroppo i motivi di ritiro sono differenti e complessi, ogni storia personale influisce sul livello di ritiro praticato e sullo stato emotivo. Così come in Giappone, anche in Italia spesso passano ore in rete, a guardare telefilm oppure a leggere libri, manga o fumetti. Molti sono in totale isolamento da anni che non sanno più come vivere al di fuori, in questi casi l’intervento specialistico per un possibile recupero richiede tempi molto lunghi. Altri invece ogni tanto succede che escano dalla loro stanza per stare in zone comuni della casa parlando con i genitori.

Bisogna imparare a leggere i primi sintomi e campanelli d’allarme verso l’allontanamento e ritiro sociale, affinché il soggetto sia ancora facilmente avvicinabile e recuperabile, perché più tempo passa in Hikikomori più le problematiche si catalizzano rendendo difficile il recupero. È necessario sia per la famiglia, che per gli insegnanti ma anche per gli amici, imparare a leggere i segnali seppur silenziosi di questa iniziale tendenza.

In generale, quando i genitori dei soggetti reclusi decidono di contattare uno psicologo si susseguono diversi momenti:

1) Inizialmente vengono analizzati il contesto scolastico e familiare,

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