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Ma noi abbiamo la “buona scuola”

Una scuola secondaria che formi talent

2. Ma noi abbiamo la “buona scuola”

Il documento del Governo su “la buona scuola” si fa apprezzare per molti motivi. Manca, tuttavia, una proposta di ordinamento complessivo del sistema scolastico, segnatamente di quello secondario. Poco male, se ve ne fosse uno chiaramente delineato e plausibile nel merito. Sfortunatamente, la pur ampia produzione normativa di questi ultimi quindici anni è rimasta priva di un chiaro riferimento culturale. Così l’assetto attuale della scuola italiana è un guazzabu- glio, eccentrico rispetto ai due principali modelli di ordinamento presenti in Europa (e non solo).

Il primo − adottato da paesi come la Germania, l’Austria, la Svizzera, l’Olanda – è usualmente (ma anche impropriamente) detto duale ed è caratte- rizzato da una differenziazione precoce (in pratica, dalla fine delle elementari) e incisiva dei percorsi scolastici, intesa a garantire strette connessioni con il mercato del lavoro. Il secondo modello, spesso definito comprensivo e adottato nei paesi scandinavi e nel Regno Unito, è caratterizzato da una contenuta e po-

sticipata differenziazione degli indirizzi scolastici individuali (a partire dai se- dici anni), volta ad assicurare una consistente base formativa comune e l’egua- glianza delle chance di istruzione.

L’Italia si propone come laboratorio di un terzo modello. La canalizzazione è abbastanza precoce: alla conclusione della terza media, ovvero di massima a 14 anni. Nella secondaria superiore esistono quattro grandi comparti: (i) istru- zione liceale; (ii) istruzione tecnica; (iii) istruzione professionale; e (iv) forma- zione professionale regionale. Tutti questi comparti sono articolati in indirizzi: sei nei licei, undici nell’istruzione tecnica, quattro nell’istruzione professionale, molteplici nella formazione professionale regionale. Per di più, molti indirizzi, nella secondaria superiore strettamente intesa, sono ulteriormente suddivisi in percorsi. E la formazione professionale regionale, nell’interpretazione esten- siva dell’obbligo formativo datane dalla riforma Moratti, comprende anche l’apprendistato. Quanto ai contenuti, prevale una sorta di “licealizzazione” ne- gli indirizzi tecnici e professionali della secondaria superiore (con scarse inte- razioni fra scuola e lavoro a cui la legge n. 107 intende porre rimedio con una decisa misura sull’alternanza scuola-lavoro). Nessuna barriera esiste verso la prosecuzione degli studi all’università, se non per la formazione professionale regionale. Ciononostante, la scuola italiana è ben lungi dall’essere compren- siva. L’obbligo scolastico è enunciato fino ai 16 anni, ma di fatto è contratto a 15 per effetto della possibilità di iniziare a tale età l’apprendistato. L’obbligo formativo è fissato a 18 anni, ma appunto può essere assolto nella formazione professionale regionale o nell’apprendistato. E, quel che più conta, solo l’ob- bligo di frequentare le cinque classi delle elementari e le tre della media infe- riore è fatto valere con decente fermezza fino ai 14 anni. Il resto è largamente dichiarato piuttosto che agito.

Per quanto concerne la struttura portante dell’ordinamento scolastico. la legge n. 107 fa trasparire una vaga preferenza per il modello tedesco1, con

1 Quali sono gli aspetti del modello duale tedesco che potrebbero migliorare la situazione ita-

liana? Questa domanda il nostro paese se la sta ponendo sia con il recente protocollo di intesa tra Italia e Germania che ha attivato una task force bilaterale per lo studio e la diffusione del modello duale, sia con il piano del governo sulla “buona scuola” che, nel capitolo “Fondata sul lavoro”, si richiama espressamente al modello tedesco di apprendistato. Il duale tedesco è un modello di successo dal punto di vista dell’occupazione giovanile e dei risultati ottenuti nella riduzione della dispersione scolastica, ma nel suo impianto generale non privo di limiti. Il limite più importante consiste nella canalizzazione rigida e precoce – a 11 anni – degli studenti tra Gymnasium (liceo che permette l’accesso all’università), Realschule (scuole tecniche che permettono l’accesso all’istruzione tecnica superiore) e Hauptschule (scuole professionali). È noto che la stessa Ger- mania, per favorire una maggiore mobilità sociale, ha iniziato a superarlo istituendo la scuola comprensiva Gesamtschule, che però copre solo una minoranza della popolazione scolastica (circa il 20 per cento). Ma sono indubbi i successi del modello duale, vissuto come una conquista dei lavoratori, che garantisce ai giovani alti livelli formativi, anche di carattere terziario, e buoni

espressioni quali “via italiana al sistema duale”, “affiancare al sapere il saper fare, partendo dai laboratori”. L’unica indicazione circostanziata riguarda la “alternanza scuola-lavoro obbligatoria negli ultimi tre anni degli istituti tecnici

esiti occupazionali. È in proposito significativo che il 15 per cento dei diplomati del Gymnasium, invece o prima di proseguire gli studi all’università, prenda una qualifica professionale con il modello duale. Va comunque detto che l’età di ingresso ai percorsi duali si sta progressivamente innalzando, tanto che oggi l’età media degli apprendisti è di vent’anni, a conferma di una spinta sociale diffusa all’innalzamento dei percorsi di istruzione fino alla conclusione del ciclo secon- dario. La stessa esperienza tedesca consiglia, quindi, di superare i percorsi duali precoci e alter- nativi al percorso scolastico, a favore di percorsi duali “alti”, che inizino almeno non prima degli ultimi due anni della secondaria superiore, come nel caso del recente progetto sperimentale pro- mosso dai ministeri dell’istruzione e del lavoro per il “diploma in alternanza”. Il punto di forza del modello duale è, infatti, la sua capacità di formare competenze per il lavoro curvate sulle esigenze occupazionali di medio periodo del sistema produttivo (di qui l’altissimo tasso di occu- pazione degli studenti/apprendisti duali), ma garantendo nel contempo una buona formazione di base culturale e professionale che permetta di proseguire la formazione lungo il corso della vita e di ottenere una qualifica professionale – spendibile su tutto il territorio nazionale – riconosciuta e apprezzata sia dalle imprese tedesche in sede di assunzioni, sia dal sindacato per quanto attiene la contrattazione dei salari, degli inquadramenti e delle carriere. I punti di maggiore distanza – e di maggior “vantaggio” – del duale tedesco dalla situazione italiana sono nella possibilità effet- tiva di apprendimento in contesto lavorativo (learning by doing) e nel sistema nazionale delle qualifiche, che in Germania sono di competenza dello Stato Federale (mentre l’istruzione è di competenza dei Laender). Ma il possibile sviluppo di percorsi formativi basati sull’alternanza tra i due contesti di apprendimento, la scuola e l’impresa, risponde alle esigenze del sistema forma- tivo italiano di: – ridurre la dispersione scolastica sviluppando metodologie didattiche attive ca- paci di intercettare tutte le intelligenze, centrate sull’“imparare facendo” nei laboratori e in con- testo lavorativo; – ridurre il mismatch tra domanda di competenze delle imprese e offerta del sistema formativo: la formazione delle competenze tecnico-professionali è più aggiornata e alli- neata alle esigenze reali delle imprese e le competenze traversali (considerate oggi le più carenti) si formano soprattutto grazie alle esperienze di apprendimento in contesto; – aumentare l’occu- pazione e l’occupabilità dei giovani grazie al possesso di competenze spendibili, aggiornabili, integrabili; – potenziare la capacità contrattuale, la forza e l’indipendenza dei lavoratori nel posto di lavoro e nel mercato del lavoro attraverso il possesso di competenze alte e trasferibili da un posto di lavoro all’altro; – favorire il riposizionamento del sistema produttivo italiano su qualità e innovazione attraverso il miglioramento delle competenze dei lavoratori, lo sviluppo della ca- pacità formativa dell’impresa, il sostegno alle imprese che puntano sulla qualità del lavoro. La ricerca di una via italiana al modello duale deve però partire dalla specificità di un sistema pro- duttivo che esprime una bassa domanda di competenze, addirittura inferiore a un’offerta di capi- tale umano molto al di sotto della media dei paesi sviluppati. La diffusione delle esperienze di alternanza scuola-lavoro insieme allo sviluppo della capacità formativa delle imprese devono quindi essere considerate parti di una nuova politica industriale che stimoli e orienti la crescita verso le filiere produttive alte. E che sviluppi nelle imprese una nuova cultura nei confronti della formazione delle competenze dei lavoratori come loro interesse prioritario e non come opportu- nità di accesso alle agevolazioni contributive e fiscali, come spesso accade con l’apprendistato, i tirocini, gli stage, etc. Quali sono allora le condizioni per lo sviluppo dell’apprendimento in al- ternanza scuola-lavoro? Oltre alle risorse, occorre garantire piena spendibilità di tutte le compe- tenze apprese in contesto lavorativo e promuovere la capacità formativa dell’impresa.

e professionali per almeno 200 ore l’anno”. Prima di guardare a evidenze em- piriche in favore dell’uno o dell’altro modello europeo, è importante sottoli- neare come l’accostamento di un ipotetico sistema duale italiano a quello tede- sco sia piuttosto fuorviante.

Il sistema tedesco, infatti, con il secondo canale imperniato sull’apprendi- stato (ma che consente di accedere a livelli di istruzione terziaria, vedi Fach-

hochschulen) ben poco ha a che vedere con la tradizione nostrana dell’appren-

distato. Là quest’ultimo si configura come un vero e proprio canale formativo, con almeno un quarto delle ore dedicato all’istruzione scolastica, impegnativo per le stesse imprese. In Italia, si è imposto essenzialmente come un rapporto di lavoro a basso costo, senza un’apprezzabile componente di formazione strut- turata, con un sotto-inquadramento ammesso (e praticato) di due livelli, con oneri contributivi comparativamente molto bassi, senza costi diretti di licenzia- mento (e solo con la “legge Fornero” con modesti costi indiretti).

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