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Lifelong, lifewide e lifedeep education

L’educazione per il corso della vita

2. Lifelong, lifewide e lifedeep education

Nel riconfermare la ineluttabilità e anzi, in forma pedagogicamente propo- sitiva, la pregnanza e la fondamentalità di un modello di educazione per il corso

della vita, proviamo brevemente a indagare le molteplici dimensioni che la let-

teratura scientifica ha da tempo confermato parlando di educazione in prospet- tiva lifelong, lifewide e lifedeep.

Se pensiamo all’educazione del corso della vita in prospettiva lifelong, quindi innanzitutto come capacità di saper dare continuità formativa ai differenti tempi della vita, diventa pedagogicamente indispensabile investire su modelli educativi capaci di cogliere la continuità nella discontinuità dei differenti tempi di vita di ciascuno, quindi capitalizzando l’intera esperienza ed esistenza del soggetto, al contempo valorizzando la profondità delle forme e dei modi di relazionarsi con se stessi, in modo profondo e critico (Dozza 2012) e con gli altri, alla ricerca degli “ancoraggi” a livello affettivo-emotivo e cognitivo che consentano a ciascuno di capitalizzare tale continuità non solo in funzione dell’occupabilità ma anche e soprattutto in funzione della cittadinanza attiva. Si tratta di un passaggio impor- tante al fine di “recuperare” la pregnanza formativa integrale dei concetti di ap- prendimento ed educazione permanenti, non limitati cioè solo alla dimensione occupazionale ed economicistica cui rimandano i pur importanti documenti eu- ropei e internazionali degli ultimi decenni. Infatti, senza misconoscere l’impor- tanza che in ogni caso tali documenti hanno avuto rispetto alla promozione di un modello di formazione permanente e degli adulti, è indubbio tuttavia che l’atten- zione si sia spostata principalmente su quegli interventi formativi diretti innanzi- tutto agli adulti, al fine di sanare il gap formativo (evidente negli elevati tassi di analfabetismo di base e/o di analfabetismo di ritorno) che una parte considerevole di adulti continuava a registrare, con pesanti conseguenze sul piano dell’inseri- mento/mantenimento nel mercato del lavoro.

Non si tratta, ovviamente, di trascurare o sottostimare gli aspetti legati alla dimensione occupazionale, con i conseguenti problemi di inoccupazione gio- vanile e di disoccupazione adulta, in un momento di crisi del mercato del lavoro e più in generale di crisi economico-finanziaria in dimensione globale. È però importante ricondurre la prospettiva dell’educazione lifelong alla complessità sistemica del soggetto in formazione, a partire dall’infanzia e valorizzandone l’esperienza per l’intero corso della vita, diffusa, disseminata e approfondita nella molteplicità dei luoghi di vita e di esperienza.

Se poi pensiamo all’educazione del corso della vita non solo come formazione intragenerazionale (continuità tra i propri personali tempi di vita) ma anche inter- generazionale (come capacità di consentire l’interlocuzione continua tra persone che vivono contemporaneamente differenti età della vita), la formazione non può che configurarsi come un modello in cui bambini, adulti e anziani siano disponi- bili realmente a riconoscere la rispettiva alterità senza viverla in forma contrap- positiva ma anche senza annullarla, considerandola al contrario come occasione preziosa per una riscoperta continua dei prestiti che ciascuno può fare all’altro: il bambino rispetto all’adulto e questi rispetto all’anziano e così via. Pensiamo in particolare alla vecchiaia e alla possibilità di poter continuare a concepirla e a viverla come tempo di permanente interlocuzione con gli altri, a dispetto di un modello che la definisce come età di destrutturazione fisica e mentale. Al contra- rio, promuovendo un modello educativo – che poi diventa culturale e sociale, quindi anche politico – che promuova la consapevolezza «dell’“essere differen- temente” della terza (e quarta età). Soggetti, gli anziani, rivendicanti il diritto ad essere ancora, e forse ancor di più, attivi, critici, dialoganti e contestativi, [desi- derosi di] continuare a poter agire efficacemente “nella rete”, in quella prospet- tiva ramificata e diversificata dei legami che sono alla base della società stessa in cui tutti – dall’infanzia alla vecchiaia – convivono e condividono aspettative, pro- getti, rappresentazioni […]». (Pinto Minerva 2012, pp. 43-44).

Pensiamo anche all’età adulta e al fatto che la possibilità di vivere in forma equilibrata ma dinamica questo tempo della vita sia legata proprio alla capacità di risolvere “conflitti” inespressi rispetto al tempo personale (a quello presente, a quello precedente e quello seguente) e ai tempi di vita degli altri, ridefinen- done i termini (non più rigidamente contrapposti o separati) ma senza annul- larli. Il riferimento è all’appiattimento generazionale che vede ragazzi, giovani e adulti accomunati da medesime dinamiche: nel modo di vestire, parlare, com- portarsi, nelle relazioni e negli affetti. In tal modo annullando la necessaria asimmetria educativa che deve contrassegnare l’adulto (in quanto genitore, edu- catore) dal bambino/adolescente/giovane (in quanto figlio/alunno) con la con- seguente fuga dalla responsabilità educativa per chi, per età e per ruolo, ha il dovere di assumerla (l’adulto) e chi per le stesse ragioni deve imparare ad as- sumere (il giovane). Occorre quindi riflettere sul fatto che il superamento di un

modello standardizzato e fisso di organizzazione del tempo della vita, che ve- deva contrapposti i differenti tempi di vita dividendoli tra fase ascendente, api- cale e discendente, si sia forse trasformato non già in una più equilibrata rites- situra delle trame relazionali, comportamentali, esperienziali tra persone di dif- ferente età ma, spesso, in un suo “congelamento”. Non si tratta, infatti, per ogni tempo della vita (che sia l’infanzia o la giovinezza, l’età adulta e quella anziana) di “fermare il tempo” – per paura di vederselo sfuggire (l’adulto e l’anziano) o per paura di doverlo affrontare (il giovane, schiacciato oggi da prospettive spesso defuturizzanti) – quanto piuttosto di imparare a gestire le inevitabili, an- che se spesso necessarie e utili, transizioni (Biasin, 2013).

Peraltro, le transizioni sono ormai una caratteristica costitutiva della vita contemporanea, in tal senso rappresentano una condizione stabile che bisogna imparare a governare, e quindi una vera e propria sfida per i singoli, per i gruppi di appartenenza (famigliari, sociali, professionali) e per le comunità di riferi- mento, via via più ampie. Una sfida che richiede un impegno quasi quotidiano e che coinvolge più dimensioni della persona, soprattutto quando queste transi- zioni comportano dei veri e propri “ribaltamenti” di vita personale e famigliare, implicando anche la ridefinizione dei legami affettivi e quindi interferendo con la vita di più persone. Infatti, anche quando la transizione è diretta verso un progresso e un cambiamento migliorativo, essa rimane un evento comunque traumatico e stressante proprio perché costringe a rimettere in movimento si- tuazioni, progetti, legami consolidati nel tempo.

Guadagni e perdite, stabilità e trasformazione, certezze e incertezze si con- fondono tra loro e rischiano di implodere quando non vengono “accompagnate” da capacità cognitive ed emotive idonee a governarle in forma critica ma co- struttiva. La formazione, quindi, nella sua duplice e intrecciata versione educa- tiva e istruttiva, deve poter fin dai primi anni e per l’intero corso della vita ren-

dere leggibili le transizioni, al fine di poterle esplorare e governare senza soc-

combere di fronte all’angoscia esistenziale che di primo impatto ne deriva. La crucialità – e al contempo la difficile e impegnativa gestione formativa – degli eventi transitori che ormai interessano la quasi totalità delle persone, in particolare degli adulti, pone improrogabili risposte (mai definitive) al sapere pedagogico, in quanto sapere fondativo sulla formazione degli uomini e delle donne per l’intero corso della loro vita. La funzione di accompagnamento alla transizione diventa imprescindibile proprio perché, per dirla con un gioco di parole, non è abituale l’“abitudine” al cambiamento, anzi si avverte la difficoltà a gestire anche piccoli cambiamenti, se questi vanno ad alterare prassi consoli- date e quindi “rasserenanti”. La gestione stessa del passaggio richiede dunque interventi di sostegno formativo nel governo di una situazione di transizione durante la quale sono state abbandonate le sponde del certo ma non è ancora

stata raggiunta l’altra riva, una sorta di “guado [che può diventare] spaesante” (Demetrio) in assenza di ancore o di bussole con cui sapersi e potersi orientare.

In tale prospettiva, la formazione viene ad assumere specifica funzione di guida e di supporto se consente alla persona in transizione – nei differenti mo- menti che accompagnano l’intero corso della vita, dall’infanzia fino alla vec- chiaia – di apprendere forme e di padroneggiare strumenti da utilizzare concre- tamente e costruttivamente nella gestione degli eventi transitori. In tal modo avendo la capacità di agire su tutte le variabili che compongono una transizione, a partire da quelle più interne e personali del soggetto (le risorse emotive e co- gnitive, le caratteristiche personali e sociali) a quelle esterne e materiali (l’evento in sé, i tempi e i luoghi coinvolti, le ricadute in termini di immagine sociale ecc.). Trattandosi poi di una variabile oramai costitutiva dell’esistenza stessa – in coerenza con strutture sociali e economiche permanentemente mobili – la formazione di habitus mentali ed emotivi attrezzati a gestire le transizioni comporta appunto la capacità di re-agire in forma flessibile ma non superficiale ai cambiamenti richiesti senza subirli ma, al contrario, imparando a governarli. Facendo in modo che lo “scarto” esistente tra il prima e il dopo si risolva con continuità in un miglioramento e in nuovo consolidamento, investendo sulle risorse disponibili (sui punti forti) e imparando a controllare quelli mancanti (i punti deboli), trasformando il disequilibrio in nuovo equilibrio. In altre parole, ciò significa mettere al centro la persona «con i suoi bisogni, esperienze, appar- tenenze, identità» (Dozza, 2012, p. 21)

Questo può avvenire se a una educazione lifelong e lifedeep si accompagna anche una educazione lifewide, quindi diffusa nella molteplicità dei contesti di vita. Il modello di riferimento è quello del Sistema formativo integrato, a cui Franco Frabboni (Frabboni, Pinto Minerva, 2013) ha dedicato buona parte dei suoi studi e ricerche ma che appare, forse, oggi ancora largamente inattuato, dal momento che la realtà concreta si presenta invece strutturata più come sistema policentrico che “realmente” integrato. Anzi, l’impressione pare essere quella di un affievolimento di quel vento della partecipazione che aveva visto, qualche decennio fa, dialogare costruttivamente tra loro le differenti istituzioni (fami- glia, scuola, territorio nella molteplicità delle agenzie intenzionalmente educa- tive), con il sopraggiungere di situazioni ed eventi che sembrano preludere al sopravvento di forme di chiusura difensiva (o al più di occasioni di socialità ristretta, interne cioè a singoli gruppi di appartenenza) piuttosto che di dialogo aperto e reciprocamente costruttivo tra persone, sistemi, organizzazioni.

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