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Il valore formativo degli experiential learning

2. Pratiche di experiential learning

2.2. Problem Based Learning (PBL)

Il Problem Based Learning (PBL) è una strategia didattica che fa dell’ap- prendimento autodiretto la chiave di volta della sua implementazione, identifi- candolo come la modalità di acquisizione delle informazioni più efficace (Thompson, 2010). Se da un lato il PBL presenta importanti punti di contatto con l’IBL, dall’altro evidenzia con esso anche precise differenze. Le similitu- dini tra le due metodologie didattiche riguardano (a) il focalizzarsi su una que- stione aperta, (b) il puntare a sviluppare le capacità analitiche dei soggetti e (c) il vedere la condivisione delle conoscenze e delle competenze dei singoli come uno strumento essenziale per raggiungere tale obiettivo (Mas, 2002; Kirschner, Sweller, Clark, 2006; Hmelo-Silver, Suncan, Chinn, 2007). Dall’altro lato PBL e IBL si distanziano per tre aspetti principali:

− il punto di partenza: il PBL ha lo scopo di spingere i soggetti ad analizzare criticamente un problema specifico partendo dalla disamina di un caso pa- radigmatico; mentre nell’IBL il punto di origine non è necessariamente le- gato a un’esperienza reale;

− il problema: nel PBL la soluzione del problema rappresenta il sine qua non dell’intera strategia didattica, mentre nell’IBL il focus risiede principal- mente nella fase di analisi del problema, più che nella sua soluzione; − il ruolo del docente: nel PBL il docente è essenzialmente un facilitatore, una

sorta di “catalizzatore” dei processi di apprendimento: egli sostiene i sog- getti nell’acquisizione delle conoscenze fornendo loro, quando necessario, spunti di riflessione e verificando che essi rimangano focalizzati, ma lascia che siano essi stessi a dirigere il loro processo di apprendimento, portandoli così a sviluppare capacità di auto-regolazione. Nel IBL invece il docente ha un ruolo più attivo, ponendosi come una sorta di “regista” dell’attività: egli infatti non si limita a fornire suggerimenti, ma indirizza fattivamente il la- voro di analisi critica degli studenti attraverso indicazioni operative e osser- vazioni critiche precise che hanno lo scopo di indirizzare il lavoro del gruppo (Mas, 2002; Kirschner, Sweller, Clark, 2006; Hmelo-Silver, Suncan, Chinn, 2007).

La strutturazione delle fasi che caratterizzano il PBL non è univocamente definita: secondo alcuni studiosi essa è riassumibile in sette step, secondo altri invece si polarizza su tre grandi aree. Una posizione tra esse intermedia è quella che vede questa strategia organizzata in cinque “macro-fasi”. Nella prima fase gli studenti vengono divisi in piccoli gruppi e il docente definisce le “regole di ingaggio” dell’attività, chiarendo il ruolo che egli ricoprirà all’interno dell’atti- vità e l’obiettivo che essa intende perseguire. In seguito il docente presenta un problema pratico preso dall’esperienza reale, dandone una definizione più am- pia possibile. Dal terzo step gli studenti diventano maggiormente protagonisti:

all’interno del gruppo di appartenenza, i soggetti dapprima analizzano critica- mente il problema che è stato loro presentato, individuando gli elementi che ritengono centrali, e in seguito esplicitano le conoscenze che possono essere utili nella sua risoluzione, individuando le aree che devono essere maggior- mente indagate. Nella quarta fase gli studenti si dedicano individualmente alla ricerca delle informazioni necessarie a individuare una soluzione pratica, met- tendo poi in comune, all’interno dei gruppi, ciò che hanno appreso al fine di individuare una soluzione comune. Nello step finale gli studenti sottopongono la soluzione individuata a una puntuale disamina, presentandola all’intero gruppo-classe e raccogliendo eventuali punti di miglioramento dai feedback of- ferti dal docente e dai membri degli altri gruppi (Edens, 2000; Wood, 2003; Mortari, 2009; Thompson, 2010).

Il PBL è una strategia particolarmente adatta a sostenere la motivazione ad apprendere, a consolidare le competenze di problem-solving e a costruire un

habitus mentale orientato alla formazione continua, sviluppando nel contempo

le competenze relazionali necessarie al lavoro di gruppo (Lam, 2009). Tuttavia è una strategia didattica che presenta anche alcuni punti critici: in primo luogo il ruolo del docente all’interno del PBL è, come accennato, particolarmente de- licato. Egli deve evitare di assumere un ruolo prevaricante, intervenendo solo ove veda che il gruppo sta perdendo il focus, poiché in caso contrario impedi- rebbe l’attivarsi di dinamiche autonome e critiche. Allo stesso tempo deve però saper stimolare negli studenti un pensiero creativo, evitando comportamenti routinari poiché essi tenderebbero a chiudere, piuttosto che allargare, l’esplora- zione cognitiva del problema (Dolmans et al., 2001; Lekalakala-Mokgele, 2010). Inoltre, sia pure in misura minore, vale per PBL lo stesso punto critico già evidenziato a proposito dell’IBL: infatti, nonostante il PBL parta da un’esperienza tratta da un contesto reale, non prevede una implementazione pratica della soluzione elaborata al suo interno.

2.3. Jigsaw

Utilizzato per la prima volta in ambito scolastico nel 1971 in Texas, ad opera di Elliot Aronson, il Jigsaw è una strategia didattica che utilizza la metafora del puzzle e si basa su due principi cardine: la suddivisione dei compiti utilizzata come strumento per la costruzione del gruppo e l’importanza della collabora- zione tra pari per la realizzazione del progetto educativo (Miyake, Masukawa, Shirouzu, 2001). Questo metodo ha come elemento nodale il suo voler portare la classe a condividere un orientamento basato sul coinvolgimento attivo degli studenti nell’organizzazione, progettazione e definizione dei curricola (Aron- son, 1978).

Un altro aspetto che caratterizza il Jigsaw è il suo rispondere a una organizza- zione in fasi più rigidamente definita, nonché più consequenziale rispetto a quanto avviene nel PBL. Nell’ideazione di Aronson questa metodologia didattica prevede infatti dieci step, a loro volta organizzati in quattro macro-fasi. Nella prima macro-fase, che comprende i primi tre step, il docente divide la classe in piccoli gruppi, composti da non meno di tre persone e da non più di sei, e indivi- dua in seguito il leader, che avrà all’interno di ogni gruppo il ruolo di coordina- tore. Infine presenta brevemente al gruppo classe il tema attorno al quale essi dovranno lavorare, frazionandolo in sequenze in modo che il numero di sequenze sia uguale al numero dei soggetti presenti in ogni gruppo. La seconda macro-fase prevede il quarto e il quinto step: in essa il docente distribuisce le sequenze tra i soggetti, così che i componenti di un singolo gruppo possiedano parti diverse del compito, e lascia a ogni membro del gruppo il tempo necessario a familiarizzare con la sezione a lui assegnata. Nella terza macro-fase, che racchiude gli step 6 e 7, i membri dei diversi gruppi che possiedono la stessa sequenza si riuniscono in una “commissione di esperti” per discutere insieme come meglio affrontare la parte di compito che è stato loro assegnata e come riportare le conclusioni a cui sono giunti ai compagni dei rispettivi gruppi. Infine nella quarta macro-fase, che unisce in sé gli step otto, nove e dieci, gli “esperti” tornano nel loro gruppo con il duplice obiettivo di comunicare al meglio la sequenza loro assegnata agli altri membri e apprendere dai compagni le altre parti del compito. In tale momento il docente ha il compito di osservare i processi di condivisione all’interno dei sin- goli gruppi, intervenendo laddove il leader non riesca a gestire la messa in co- mune delle informazioni raccolte in modo trasversale e proficuo. Terminato ciò, i gruppi rivedono il materiale raccolto e rielaborano un feedback del lavoro svolto (Aronson, 1978; Hedeen, 2003).

Il punto di forza dello Jigsaw consiste nel tendere a costruire una comunità di apprendimento; se utilizzato con costanza e in modo consapevole da parte dell’insegnante, incoraggia al contempo le competenze di problem solving e le competenze relazionali e comunicative degli studenti (Manning, Lucking, 1991). Inoltre il Jigsaw si rivela utile nei contesti in cui è necessario “costruire” il gruppo, in particolare nei cui casi in cui alcuni soggetti rimangano periferici, poiché la strategia lavora al contempo sull’assunzione di responsabilità dei sin- goli soggetti e sul rafforzamento di relazioni di interdipendenza positiva (Pozzi, 2010). I punti critici invece sono legati al fatto che, al fine di massimizzare la sua efficacia, tale metodologia deve essere implementata con costanza e ciò non è semplice visto che si tratta di un’attività time-consuming che inoltre richiede una strutturazione dell’aula logisticamente idonea a un costante riunirsi e scio- gliersi di piccoli gruppi di lavoro.

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