Il Cambiamento Organizzativo Filosofie e Modell
2. Le teorie del cambiamento organizzativo
2.2 La teoria biologica
Le difficoltà ed i limiti insiti nell’approccio razionale hanno spinto molti teorici dell’organizzazione ad allontanarsi da concezioni meccaniciste per avvicinarsi a quelle biologiche come fonte di ispirazione per gli studi organizzativi. Nel portare avanti questa linea di indagine, gli studiosi dell’organizzazione hanno prodotto idee nuove per comprendere il funzionamento delle organizzazioni e per evidenziare i fattori che sono importanti per il loro successo.
Mentre sotto l’influenza della metafora come macchina (Morgan 2006), il cambiamento è limitato ad un processo preoccupato esclusivamente del rapporto tra obiettivi, strutture ed efficienza, la teoria biologica concentra l’attenzione su dinamiche più pregnanti, come la sopravvivenza, il rapporto ambiente- organizzazione e l’efficacia organizzativa. Dunque, l’utilizzo di concetti e metafore mutuate dal campo biologico hanno prodotto significativi passi in avanti nella comprensione del fenomeno del cambiamento. Da questa prospettiva, l’associazione tra organizzazione e organismo trova la sua giustificazione nel fatto che entrambi esistono in un ambiente dato, hanno un medesimo ciclo di vita ed il meccanismo della competizione che attraversa la vita organizzativa per il
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reperimento delle risorse ai fini della crescita e della prosperità equivale, sostanzialmente, alla lotta per la riproduzione e sopravvivenza degli organismi stessi. Qui, i sistemi sociali, in quanto diversificati, interdipendenti e complessi, evolvono naturalmente nel corso del tempo: poiché l’evoluzione è basicamente deterministica, le persone hanno poco o nulla impatto nel determinare la natura e la direzione del processo di cambiamento, il quale è, dunque, sia insito nel ciclo di vita dell’organizzazione sia connaturato ai meccanismi evolutivi per selezione naturale.
Il concetto di “ciclo di vita”, divenuta una vera e propria teoria a partire dagli studi di Greiner (1972) e successivamente ripreso da altri (Galbraith 1982; Quinn e Cameron 1983; Jones 2004), ha avuto molto spazio nel pensiero manageriale riguardo al cambiamento, ed è stato utilizzato come dispositivo euristico per spiegare il processo di sviluppo in un’entità organizzativa dalle sue fasi iniziali a quelle finali (Van de Ven e Poole 1995). Mutuato dagli studi di tipo socio- psicologico sul ciclo di vita dei bambini, esso segna le fasi del processo di sviluppo delle organizzazioni (Levy e Merry 1986) al fine di spiegare e strutturare la natura evolutiva del cambiamento, considerato endemico perché connesso ai naturali stadi di sviluppo. È un modello fondato sull’assunto secondo cui il processo organizzativo segue una sequenza regolare caratterizzata da stadi universali: nascita, crescita, maturità, declino e morte sono considerate fasi naturali ed inevitabili del processo di sviluppo dell’organizzazione (Goodman 1982); il cambiamento non si verifica perché le persone ne avvertono la necessità o desiderano cambiare, ma perché appare come una naturale progressione, sequenziale, prevedibile e interminabile verso uno stadio successivo che non può essere, appunto, fermata (Morgan 2006). Questa naturale progressione è tale perche la direzione verso lo stato finale è determinata da una specifica sequenza storica di eventi che è, a sua volta, unitaria (perché segue una singola sequenza di fasi), cumulativa (perché ogni fase ha in se l’esperienza accumulata in quella precedente) e connessa (perché le fasi sono collegate in modo che derivino da un comune sottostante processo). Ciascuno di questi eventi contribuisce al prodotto finale ed è necessario che si verifichino in un corretto ordine perché ciascun pezzo stabilisce la fase per il prossimo: cioè, ciascuna fase è vista come necessario
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precursore della fase successiva. È un tipo di cambiamento prevedibile, quindi, dovuto al susseguirsi naturale degli stadi, ma con un processo interno caratterizzato anche da periodi di rivoluzione: nel muoversi da una fase all’altra nel suo processo di crescita l’organizzazione attraversa periodi di crisi. Ad ogni modo, questi stadi determinano il migliore intervento volto alla gestione del cambiamento.
Mentre il modello del ciclo di vita segna le fasi del processo di sviluppo di una singola organizzazione (dalla nascita alla morte senza la possibilità di rinascita o rinnovamento), il concetto darwiniano di evoluzione attraverso selezione naturale enfatizza il costante adattamento e cambiamento che, se realizzati con successo, riducono il rischio del fallimento e del declino. Gli studiosi che si identificano nella prospettiva della selezione naturale riconoscono più compiutamente la forza rilevante esercitata dall’ambiente nella sopravvivenza organizzativa; sostengono che occorre prestare più attenzione alle modalità attraverso cui gli ambienti selezionano le organizzazioni. Si verifica, in altri termini, un cambio di prospettiva secondo cui la sopravvivenza dell’organizzazione non dipende più tanto dalla sua capacità di sviluppare strutture che permettono l’adeguamento al proprio ambiente, ma è l’ambiente stesso il fattore cruciale nella selezione delle organizzazioni destinate a sopravvivere o a morire. Questo passaggio ne implica un altro: il focus degli studi abbandona la singola organizzazione e prende in esame popolazioni di organizzazioni, ovvero si concentra sull’esperienza di adattamento di un insieme di organizzazioni presenti nella loro più vasta ecologia. L’ecologia organizzativa, che a ben vedere non si discosta molto dalla teoria del ciclo di vita poiché cerca di spiegare i processi attraverso i quali l’organizzazione cresce e si trasforma nel tempo ed i processi attraverso cui riesce o fallisce, pone alla base dell’analisi organizzativa la teoria evoluzionista di Darwin, secondo cui le organizzazioni dipendono per la sopravvivenza dalla capacità di acquisire risorse necessarie al proprio mantenimento che le costringe a competere dal momento che si è in presenza di una scarsità di risorse; e ciò determina che solo l’organizzazione più adeguata è in grado di sopravvivere. Questa idea, e la voglia di condurre l’analisi a livello di specie di organizzazioni, viene ripresa da Hannan e Freeman (1977) i quali, attraverso la loro idea-teoria della “dipendenza dalla
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densità”, ipotizzano che la nascita e la morte di una data organizzazione dipenda dal numero totale delle organizzazioni presenti nell’intera popolazione, e così facendo pongono al centro dell’analisi i meccanismi della competizione: quanto più alto è il numero delle organizzazioni che operano nello stesso ambito/settore tanto più alto è il livello di competizione che erode la disponibilità dell’insieme finito di risorse disponibili, determinando meccanismi di selezione naturale a discapito delle organizzazioni destinate alla cessazione delle attività.
2.3 La teoria istituzionale
La premessa che sta alla base della teoria istituzionale è quella secondo cui le organizzazioni realizzano cambiamenti quando avvertono il bisogno di farlo per allinearsi con il proprio ambiente. Al pari di quella biologica (particolarmente nell’accezione dell’approccio ecologico), considera l’organizzazione un sistema aperto ed enfatizza l’adattamento all’ambiente come determinante ai fini della sopravvivenza; più specificatamente, questo approccio evidenzia come sia la pressione della conformità ad imporre alle organizzazioni di cambiare, le quali, lungo il processo di cambiamento, elaborano ed incorporano nuove norme. È, dunque, una prospettiva interessante nello studio del cambiamento organizzativo perché spiega l’omogeneità tra organizzazioni appartenenti allo stesso settore, la stabilità di una particolare configurazione organizzativa e mette in evidenza i meccanismi attraverso cui le pressioni istituzionali sfuggono ai tentativi di cambiamento e rafforzano l’inerzia organizzativa.
La teoria istituzionale, nei suoi concetti generali, prestando attenzione al tema delle norme ed al loro potente ruolo nel fissare i modelli comportamentali entro le organizzazioni, consente di comprendere come e perché le organizzazioni si comportano in un certo modo, e cosa sostiene il loro comportamento. Il termine “istituzione”, sociologicamente, rimanda ad un significato di forza e stabilità, così come quello di “istituzionalizzazione” rimanda non solo alla durevolezza di una certa forma organizzativa, ma anche al suo radicamento culturale in un dato contesto (Bonazzi 2002; 2006). Come puntualizzano Meyer e Rowan (1977), che rappresentano la prospettiva del nuovo istituzionalismo, esso è, in definitiva, un