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Dopo aver sinteticamente esplorato il dibattito sui tipi di welfare che la ricerca comparativa ha sviluppato, è opportuno richiamare le caratteristiche specifiche che danno forma ai sistemi di welfare attuali, che costituiscono lo scenario all’interno del quale le politiche socio-assistenziali studiate si collocano.

Il welfare inglese

Sebbene il piano Beveridge abbia consegnato al Regno Unito nel suo momento fondativo un welfare universalistico, basato sul diritto sociale del cittadino di avere dei livelli minimi di sussistenza garantiti dallo Stato che deve tutelare e garantire una vasta gamma di diritti (“from the cradle to the grave”), verso la metà degli anni settanta la politica thatcheriana diede avvio allo smantellamento del welfare state, come originariamente inteso, in seguito ad una delle peggiori crisi economiche della storia dell’Inghilterra e di tutto il mondo: l’insostenibilità economica del debito pubblico e la diffusione di una nuova concezione ideologica di tipo liberista, che considerava di esito dubbio ai fini della riproduzione della ricchezza una società troppo assistita dai sistemi di protezione sociale, posero le basi per il definitivo superamento del modello alla Beveridge, che all’inizio degli anni novanta divenne molto più residuale rispetto ai concetti di universalità ed eguaglianza lanciati dallo stesso Lord Beveridge sotto l’immagine efficace dei “cinque giganti” (Fraser 2009). L’intervento pubblico iniziò ad essere limitato ad interventi di maggiore necessità, rispetto ai quali i principali destinatari erano individuati nei bisognosi, nei poveri e nei lavoratori a basso reddito; l’obiettivo dello Stato cambiava in modo significativo, perché non era più l’eliminazione della disuguaglianza, ma il contenimento delle povertà estreme e dei fenomeni di emarginazione sociale. In ragione di ciò, la prova dei mezzi fu reintrodotta e le prestazioni erogate assunsero la forma di trasferimenti di reddito di bassa entità e schemi di assicurazione circoscritti caratterizzati da prestazioni poco generose, non corrispondenti o poco rilevanti per la soddisfazione dei bisogni. Come rileva Esping-Andersen (1990), l’esito finale di questo modo di concepire gli interventi di welfare si tradusse in un rafforzamento del mercato ed in una conseguente riduzione dell’effetto demercificante delle prestazioni.

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Alla fine degli anni novanta, i laburisti fecero della modernizzazione del welfare il proprio obiettivo politico chiave. Il governo Blair promise un nuovo welfare, né troppo socialista né troppo liberista, che avrebbe dovuto segnare il passaggio dallo stato assistenziale del passato ad una società del futuro capace di creare opportunità per tutti. La sua visione e i suoi obiettivi, resi con l’espressione di Third Way, segnavano i tratti di una riforma che costituiva un piano ambizioso per ridisegnare in un modo profondamente diverso il rapporto tra Stato e cittadini: in una società profondamente cambiata non basta dare un minimo vitale ai poveri, ma occorre dare a tutti la possibilità di realizzare appieno il proprio potenziale. Era un’idea di cambiamento, quella dei laburisti, che avrebbe favorito opportunità ed empowerment, invece che dipendenza, perché trovava fondamento in una concezione del lavoro come unico mezzo attraverso cui sollevare le persone dal rischio e dalla condizione di povertà. La priorità fu quella di portare la gente dal welfare al lavoro (“from welfare to work”), di trasformare i cittadini assistiti in cittadini produttori perché l’assistenza deprime il personale livello di autostima. Questa filosofia venne fissata nell’atto “New ambitions for our country: A new

contract for welfare” (Green Paper 1998), nel quale furono espressamente sanciti:  il bisogno di porre fine ad un modello di welfare che incatena le persone in una dipendenza passiva invece di sostenerle nei processi della piena realizzazione del sé,

 il bisogno di rendere i servizi alle persone più attivi e partecipativi nel sostenere gli individui verso la loro piena indipendenza,

 la necessità di valorizzazione le responsabilità individuali e familiari nei processi di cura e sostegno

 il rigetto di un welfare residuale per coloro che vivono in condizioni di povertà.

L’attuale governo, guidato da David Cameron che sembra aver pienamente raccolto l’eredità di Margaret Thatcher, ha in mente una riforma del welfare che avrà l’obiettivo di ripristinare i limiti delle possibilità e della ragionevolezza da cui si è distaccato sotto i governi precedenti; per la nuova coalizione di governo, conservatrice-liberaldemocratica, l’attuale sistema, così com’è, è finanziariamente insostenibile, intrappola le persone in stato di povertà ed incoraggia verso

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l’irresponsabilità. Nelle intenzioni, questa riforma, quindi, sarà la più radicale dai tempi di Beveridge: il documento Dynamic benefits: Towards welfare that works,

(Centre for social justice 2009), contenente un’analisi dettagliata delle riforme

necessarie per rendere lo stato sociale inglese più dinamico e le persone meno dipendenti dal sistema assistenziale, è stato inserito in una legge di riordino complessiva, il Welfare Reform Act (2012)1, che si pone l’obiettivo di:

eliminare il complesso sistema di sussidi, rimborsi e benefit a favore di un sussidio unico di entità inferiore (contributo all’indipendenza personale) per combattere la dipendenza che questo ha prodotto nel tempo

 proteggere solo i più vulnerabili

 introdurre incentivi sostenibili per promuovere l’inserimento lavorativo delle persone.

Il welfare italiano

Le elaborazioni sul modello di welfare italiano hanno notevolmente arricchito il dibattito ed allargato i criteri o le dimensioni tipologiche utili a descriverne i tratti salienti. Autori come Leibfried (1992), Ferrera (1996) e Mingione (1997), guardando ai processi di sviluppo del welfare nei paesi del Sud Europa (Italia, Grecia, Spagna, Portogallo), hanno sostenuto la necessità di collocare i sistemi di welfare dell’Europa meridionale in un modello autonomo in considerazione del ruolo centrale della famiglia come welfare provider, delle specificità dell’assetto produttivo e dell’atrofia dei programmi pubblici di welfare.

In Italia, la disuguaglianza derivante dalla contrapposizione tra soggetti forti e soggetti deboli, di cui parla Ferrera, viene smussata ed attenuata dalla famiglia quale sistema di compensazione sociale e rispetto alla quale le istituzioni ne danno per scontata l’esistenza e la resistenza. Il senso e la concezione di indispensabilità della famiglia diviene specificamente tratto caratteristico dei welfare del Sud (Ferrera 1996). Mingione (1997), ad esempio, in riferimento al modello italiano, evidenzia come esso si sia storicamente caratterizzato per la sua impostazione “intensivo familista” in cui il sistema complessivo di protezione si è basato sulle

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responsabilità familiari, accompagnate nel caso da un intervento pubblico orientato più verso trasferimenti di reddito che non servizi, producendo una sorta di auto-addossamento familiare dei compiti di cura. La stessa Naldini (2002) parla di modello “delle solidarietà familiari e parentali” per indicare come il sistema famigliare funzioni, lungo tutto l’arco della vita, attraverso forti relazioni intergenerazionali e di parentela che fungono da ammortizzatore sociale e meccanismo di compensazione rispetto a rischi e bisogni. Famiglia e parentela emergono, quindi, come rete di scambi che rivelano forme di solidarietà e obbligazioni familiari lungo le linee del genere e della generazione. La sottolineatura del ruolo della famiglia come provider di welfare emerge, infatti, anche in relazione ad alcuni studi di genere (Trifiletti 1999; Gonzalez, Jurado e Naldini 2000) che, nel denunciare le disuguaglianze di genere nei sistemi di protezione sociale, hanno proposto una classificazione che mette in evidenza politiche e prestazioni sociali basate su una vera e propria aspettativa istituzionale delle solidarietà familiari. Il welfare mediterraneo, in questa prospettiva, si distinguerebbe proprio in funzione della bassa protezione sociale e della caratterizzazione delle donne come mogli e madri. Incrociando la dimensione della considerazione che lo Stato ha delle donne (mogli/madri oppure lavoratrici) e quella della protezione statale dal mercato (presente o assente) emerge una tipologia di sistemi di welfare, che vede l’Italia ricadere nel modello in cui alla donna è demandato in via pressoché esclusiva il lavoro di cura, non retribuito e non riconosciuto, affidandole un ruolo imprescindibile nell’equilibrio sociale in un contesto più generale in cui l’occupazione delle donne è per lo più full time.

I tratti salienti del welfare italiano consegnano un’immagine capace di determinare lo scenario entro il quale le politiche socio-assistenziali si collocano e, per certi versi, esitano ad innovare: il clientelismo, inteso come scambio politico sulla cui base le prestazioni vengono erogate, il suo carattere dualistico nella sua dimensione territoriale che si esprime in una precisa differenziazione tra le varie Regioni rispetto alla capacità di protezione sociale e di tutela, la prevalenza dei trasferimenti di reddito sulla predisposizione ed erogazione dei servizi, costituiscono gli elementi critici su cui il welfare italiano è stato costruito. Proprio in considerazione del fatto che la gran parte delle risorse pubbliche

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impegnate nel nostro sistema di protezione sociale è costituita da trasferimenti monetari si è parlato di una “distorsione allocativa” del nostro welfare. Il dibattito su questo punto è particolarmente interessante perché, come segnala Ferrera (2000), uno spostamento significativo di risorse sul fronte dei servizi e delle prestazioni non monetarie, quindi una ricalibratura di risorse, pesi e attenzione, richiede un cambiamento di direzione particolarmente faticoso: esso assume il senso di una politica sottrattiva, caratterizzata dalla perdita o dalla cancellazione di spettanze codificate e considerate come dei veri e propri diritti di proprietà (Ferrera 2006); ciò che è in gioco sono, quindi, i consolidati circuiti dello “scambio politico” (Ascoli 2002) poiché una politica redistributiva renderebbe il sistema meno manipolabile clientelarmente, più universalistico e meno differenziato fra i territori; e nello spirito della legge quadro 328/2000 (che dopo molti anni introduce il sistema integrato di interventi e servizi sociali) si porrebbero le basi per l’avvio di una nuova cultura dei servizi, di una nuova modalità di intervento in cui servizi sociali, sanità, politiche del lavoro e della formazione facciano “sistema”, dando vita a un nuovo modo di “farsi carico” dell’altro.