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Il Cambiamento Organizzativo Filosofie e Modell

2. Le teorie del cambiamento organizzativo

2.5 La teoria della cultura organizzativa

Lo studio e l’interesse per la cultura organizzativa nasce e si consolida sulla base della necessità di comprendere e spiegare perché certi valori e certe credenze rivestono una certa importanza per i membri dell’organizzazione. La cultura organizzativa è divenuta nel tempo un approccio al cambiamento estremamente importante: al suo cuore vi è l’idea che il cambiamento emerge quando queste credenze e questi valori fortemente mantenuti dai soggetti iniziano a modificarsi.

La cultura organizzativa è il concetto più difficile da definire tra tutti i concetti della teoria organizzativa. Morgan (2006) rileva come il termine cultura è una traslazione metaforica del concetto di coltivazione, ossia quel processo di cura e di sviluppo del terreno. Il suo significato è stato, dunque, metaforicamente esteso alla coltivazione della mente e dello spirito umano: secondo la metafora culturale (Hatch 1997) la società coltiverebbe, attraverso le proprie istituzioni, la mente e lo spirito degli esseri umani così come i coltivatori curano i propri raccolti attraverso la semina e la potatura. I primi tentativi di definire la cultura sono rintracciabili all’interno di alcune discipline accademiche quali la sociologia e l’antropologia, quest’ultima interessata, particolarmente, a comprendere e interpretare i modelli comportamenti dei gruppi. Queste idee di origine antropologica, circa l’esistenza

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di valori e credenze tanto radicate negli individui da plasmarne i comportamenti nel mondo sociale, iniziarono ad avere una certa popolarità nel mondo accademico suscitando l’interesse dei teorici e dei pratictioner del cambiamento organizzativo: attraverso la comprensione del legame e dell’interazione dinamica tra gli individui e le loro proprie circostanze culturali, questi studiosi iniziarono a realizzare che gli interventi più efficaci nel implementare il cambiamento entro le organizzazioni sono quelli che riescono a modificare profondamente le credenze e i valori che informano l’agire, individuale e organizzativo. Conseguentemente, la chiave del cambiamento sta tutta nel processo di modifica degli elementi culturali che creano e ricreano la realtà organizzativa.

La prima nozione del concetto di cultura entra nella letteratura accademica sul

management grazie ad un articolo di Pettigrew (1979) che dà origine a tre

successivi decenni di studi sulla cultura organizzativa, concentrati particolarmente su come consapevolizzare e neutralizzare l’influenza che i valori comuni e le credenze radicate hanno nel realizzare cambiamenti radicali. Benché la cultura organizzativa sia stata definita ed interpretata in diversi modi, è possibile rintracciare quelli che sono gli elementi comuni a tutte le definizioni, ovvero a) resiste alla flessibilità, b) è determinata dai membri dell’organizzazione, c) è da questi condivisa profondamente, d) è un fenomeno poco consapevolizzato, seppur molto potente nel determinare i comportamenti umani. La cultura è, quindi, un sistema coerente di assunti e valori fondamentali che distinguono un gruppo e ne orientano le scelte; è per sua natura persistente e non modificabile, e lo è tanto più quanto più il sistema di valori ha radici antiche ed è condiviso (Gagliardi 1995).

Uno degli studiosi più influenti è Schein (1992; 1999), che adotta un approccio di tipo socio-psicologico all’interno del quale la cultura riflette i principali assunti umani e le credenze condivise dai membri dell’organizzazione: la sua formazione è descritta in termini di processo sociale d’apprendimento che assolve due specifiche funzioni: risolvere i problemi concreti e ridurre l’ansia. Tutte le risposte che l’organizzazione elabora, e che sono evidentemente risposte culturali, sono contemporaneamente dirette a risolvere i problemi per i quali gli assunti sono stati creati ed appresi e a ridurre l’ansia che il problema irrisolto genera: ogni assunto che si inscrive nel codice culturale di un’organizzazione ha la funzione di offrire

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l’illusione di controllare gli eventi (Kelley 1971), di semplificare la realtà, di rendere prevedibile il futuro.

Il punto importante è che l’organizzazione tende a non abbandonare un valore radicato neppure quando gli orientamenti operativi che a quel valore si ispirano non risolvono più i problemi; questo avviene sia perché il riconoscimento dell’inadeguatezza dell’orientamento aumenta i livelli di ansia sia perché il valore appreso, e fortemente mantenuto, non appartiene alla sfera delle cose discutibili. Come rileva Gagliardi (1995), i valori organizzativi possono essere considerati come l’idealizzazione di esperienze collettive di successo nell’esercizio di una competenza e come la trasfigurazione emotiva di precedenti credenze. Il processo di idealizzazione impedisce il disapprendimento di una conoscenza obsoleta anche quando questa viene smentita dall’esperienza: nel momento in cui le credenze diventano valori, il piano scientifico/razionale viene traslato sul piano simbolico/pre-razionale in quanto alla dicotomia scientifica del vero-falso viene sostituita quella del sacro-profano (Bolognini 1984): ciò significa che l’accettazione razionale delle credenze cede all’identificazione emotiva con i valori. Ne segue un processo a catena in cui quando la competenza è appropriata al problema da affrontare si ottiene un’esperienza collettiva di successo che, idealizzata, provoca la stabilizzazione dei valori e del campo simbolico - e questo produce coesione ed efficienza organizzativa. Tuttavia, in tutti i fattori che danno sicurezza e coesione ad un gruppo è intrinseco il rischio della cristallizzazione di valori e credenze di fronte a scenari che, invece, cambiano. Quando le modalità di gestione conosciute e tradizionalmente utilizzate si rivelano inefficaci è necessario avviare una ricerca di alternative, seppur sempre condizionate dagli assunti e dai valori di base: cambiamenti di comportamento coerenti con i valori dominanti possono essere considerati espressione di un apprendimento a ciclo singolo (Argyris e Schön 1996), dove non esiste un’esplorazione di rotte diverse da quelle consentite dalla visione e dai valori di base del gruppo: le organizzazioni non imparano dalle esperienze negative. Il mito dominante, incorporando i valori e l’ethos dell’organizzazione, è una teoria dell’azione e dovrebbe essere scalzato qualora le strategie e le azioni ad esso correlate non producono i risultati sperati, pena la morte dell’organizzazione. Il reale problema, in questi casi, è quello del

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cambiamento culturale, che può realizzarsi attraverso un tipo di apprendimento a ciclo doppio (ibidem), dove l’identità viene ridefinita, una nuova competenza ricostruita e nuovi territori esplorati.

Occorre sempre analizzare il rapporto fra i valori postulati dalle nuove strategie con i valori tradizionali, affinché il gruppo possa accettarle e realizzarle: valori antagonisti implicano l’abiura dell’ideologia precedentemente sostenuta dal gruppo. Questa è una risoluzione improbabile per quelle persone che hanno costruito sui vecchi valori la propria identità personale e professionale. Una tale rivoluzione culturale provoca costi altissimi a livello di investimenti finanziari ed emotivi che, se effettuati, hanno l’effetto di generare la nascita di una nuova organizzazione che non ha più nulla a che vedere con la vecchia. Nel caso in cui, invece, la gestione dei problemi comporti l’adesione a valori integrabili con quelli tradizionali il ventaglio delle opzioni di comportamento verrà reso possibile con l’allargamento del nucleo dei valori di base. La modificazione della scala dei valori comporta la modifica del campo simbolico richiedendo la produzione di miti di riconciliazione che inducano i comportamenti desiderati. Tuttavia questo può realizzarsi solo se l’organizzazione sperimenta un successo collegabile alle credenze della leadership che attua la strategia di sopravvivenza. Il cambiamento culturale in realtà è un processo incrementale attuabile attraverso a) il non antagonismo dei valori e delle credenze ai quali le competenze auspicate s’ispirano con gli assunti e i valori tradizionali, b) l’esistenza di un’esperienza collettiva di successo nell’esercizio delle nuove competenze, c) l’esistenza di una

leadership capace di favorire l’interpretazione retrospettiva e mitica del successo.

L’esperienza gratificante del successo offrirà i materiali e le idee con cui saranno costruiti nuovi simboli e nuovi significati. In tal senso si può dire che le organizzazioni imparano dalle esperienze positive.