Implicazioni Organizzative della Legge 328/2000 Programmazione, Partnership e Partecipazione
5. Lavoro inter-organizzativo come risposta alla complessità
5.2 Working across boundaries
Per far fronte ai problemi sociali e ambientali del tempo presente, le organizzazioni spesso sono costrette a lavorare attraverso i confini organizzativi. Il concetto di confine, in termini organizzativi, trova le sue radici all’interno della teoria dei sistemi socio-tecnici. La questione dei confini nel lavoro collaborativo è centrale perché alcune caratteristiche delle partnership includono: mancanza di strutture stabili, relazioni di autorità ambigue, confini poco chiari (ad esempio, compito e tempo), elevato grado di complessità, appartenenze e scopi ambigui e mutevoli (Prins 2002). Per tali ragioni, working across boundaries è un processo emergente nel quale il compito primario deve essere negoziato e sviluppato tra gli
stakeholders e dove complessità ed incertezza possono provocare un certo livello
di ansietà per diverse ragioni (diversità, potere, conflitto, fiducia, competizione, manipolazione, identità). Conseguentemente, una questione critica da esplorare è
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come i partecipanti stabiliscono i confini attorno alle loro pratiche collaborative: chi è incluso e chi è escluso, se e come diversità, complessità ed interdipendenza sono rappresentate dalla collaborazione (Prins et al. 2006).
Le prospettive utilizzate per la comprensione dei processi e delle dinamiche proprie del lavoro inter-organizzativo fanno riferimento alle scuole di pensiero del
Tavistock Institute ed hanno il merito di consegnare sia un linguaggio sia degli
strumenti per comprendere e sostenere, come ricercatori e come consulenti organizzativi, lo sviluppo delle relazioni multi-organizzative: la tradizione socio- tecnica le studia attraverso la categoria di working across boundaries dove sono essenziali i concetti di confine e di compito primario; l’approccio socio-ecologico, risaltando il concetto di popolazione organizzativa, allarga notevolmente la prospettiva attraverso cui guardare ad esse; l’approccio psicodinamico costituisce una lente molto importante attraverso cui identificare le dinamiche e le sfide emotive del lavoro collaborativo (Neumann e Prins 2011).
Il punto di partenza dell’approccio socio-ecologico fu l’intuizione di Trist ed Emery (1965) circa il fatto che l’ambiente esterno alle organizzazioni iniziava a cambiare piuttosto rapidamente. Essi lo definirono turbolento a causa dell’elevata competizione tra le organizzazioni che, agendo indipendentemente ed in diverse direzioni, iniziava a produrre conseguenze imprevedibili e dissonanti all’interno del più ampio ambiente sociale. Partendo da ciò, sostennero che il livello di complessità raggiunto era tale da rendere ogni approccio autoritario o di tipo
laissez-faire mal adattativo e non funzionante; le turbolenze ambientali ponevano
problemi a cui le organizzazioni erano incapaci di rispondere da sole: per questo la capacità nuova richiesta era quella inter-organizzativa (Trist 1983-a). In un simile scenario, Trist elabora la nozione di “area inter-organizzativa” riferita a “popolazioni organizzative connesse da un campo”, un concetto che sottintende il processo attraverso cui più organizzazioni (che costituiscono una popolazione) si (ri)uniscono attorno ad un’area quando si coinvolgono in un set di problemi che costituisce un ambito di preoccupazione per i suoi membri (ibidem). Questa definizione è assai significativa perché mette in evidenza l’importanza e l’utilità dei principi socio-ecologici. In primo luogo, permette di considerare l’ambiente a tutti i livelli (micro-meso-macro); questi livelli, che possono essere considerati
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come cerchi concentrici di influenza circostanti al sistema (individuo, gruppo, organizzazione), hanno differenti e significativi effetti sull’identificazione del problema. Pragmaticamente, questo si traduce nella possibilità di identificare tutti gli stakeholders che hanno un interesse nell’area e considerare il problema da tutti i punti di vista; e dal punto di vista del ricercatore/consulente lavorare con tutti gli
stakeholders diviene la sfida principale. In secondo luogo, questo approccio pone
al cuore dell’analisi la centralità dell’inter-dipendenza attraverso nelle e tra le popolazioni organizzative (connesse dal campo): nei sistemi socio-ecologici non esiste la forte direzione di un capo/leader, ma esiste un ordine che emerge da mutui aggiustamenti tra le parti, che sono gli stakeholders; l’identificazione di uno scopo prevalente, che emerge dalla loro percezione di “essere nella stessa barca”, dipenderà soltanto dalla loro capacità di giungere ad una condivisa comprensione della questione (ibidem).
Ciascun stakeholders in una relazione multi-organizzativa può essere compreso nei termini di persona-in-ambiente, un concetto (socio-ecologico) che sottintende quello di mutua influenza e/o reciproca causalità, ovvero la persona plasma e/o influenza l’ambiente di cui è parte, ma allo stesso tempo da esso è plasmata e/o influenzata a sua volta. Questo concetto conduce dritto a quello di confine, che l’approccio socio-tecnico usa per studiare le relazioni inter/multi-organizzative. Il confine, è stato detto, separa ciò che è dentro da ciò che è fuori l’organizzazione e regola gli (inter)scambi con l’ambiente esterno, dai quali dipende la sua sopravvivenza; più esattamente è definito come la “regione” in cui sono presenti ruoli ed attività di mediazione riferite alle relazioni tra l’interno e l’esterno (Miller e Rice 1967). In quanto “punto di incontro”, è soggetto a continue (ri)negoziazioni e (ri)definizioni all’interno di un processo intersoggettivo: i confini separano e connettono, costringono e rilasciano, limitano e permettono, contengono e creano ansietà (Prins et al. 2006). Dal punto di vista socio-tecnico, attraversare un confine organizzativo significa in primo luogo “negoziare una relazione” dalla cui qualità dipenderà non solo la qualità del compito primario, la sua interpretazione ed il suo svolgimento, ma anche tutte le dinamiche di gruppo. Se la relazione negoziata è sufficientemente buona per il compito, allora le dinamiche (ed i conflitti) saranno negoziabili. Un aspetto cruciale del lavoro a cavallo dei confini
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riguarda il non riconoscimento del tempo e degli sforzi necessari (incluso quello emotivo) per iniziare ad immaginare le relazioni e pensare a come farle funzionare.
Rice (1965), in un suo studio sulla leadership, ha esplorato questo aspetto, riferendosi in qualche modo al concetto di persona-in-ambiente, identificando il numero dei confini organizzativi che i singoli devono attraversare per formare un gruppo di lavoro multi-organizzativo; questi studi hanno messo in evidenza come la leadership nei gruppi e nelle organizzazioni equivalga alla funzione svolta dall’Io nel gestire i confini tra mondo interno e mondo esterno della persona.
Figura 4. Diagrammatic representation of relation between individual small group and large
group organisations. Fonte: Rice (1965), op. cit. p. 15 The small group
Ep G
g
Individual member of the group
Pn P3 P2 P1 The individual P p Ep
The large group
Ep L
Individuals and small group
l G1 G2 G3
- 103 - Nel diagramma:
La dinamica rappresentata nel diagramma evidenzia che così come esiste un confine tra mondo interno e mondo esterno della persona, esiste un confine tra realtà interna e realtà esterna dell’organizzazione; questo implica un passaggio continuo di confine perché il confine dell’individuo diventa il mondo interno del piccolo gruppo, il quale diventa il confine dell’organizzazione e così via.
Nelle collaborazioni multi-organizzative vi sono, quindi, confini che devono essere attraversati e forze (individuali e di gruppo) che devono essere governate; ciò implica che se attraversare un confine significa entrare in “relazione con”, un’implicazione è che una relazione negoziata in modo non sufficientemente buono ostacoli la formazione del gruppo, o crei dei gruppi con problemi spesso inconsapevoli.
In questo processo, la negoziazione sull’interpretazione del compito richiede ciò che Miller definì passaggio dalla relatedness alla relation (Brunner 2001), il passare dall’organizzazione nella mente all’organizzazione reale. “Gruppo” e “organizzazione” non sono entità dotate di una realtà oggettiva, ma idee e/o costrutti che le persone hanno in mente e che vengono condivisi in modo esplicito o implicito (Miller 1989). Le relatedness sono correlazioni mentali inconsce che influenzano i sentimenti ed il comportamento dei singoli membri all’interno di un complesso sistema sociale; sono percezioni, sentimenti e opinioni che non sono necessariamente basate su interazioni faccia-a-faccia, ma hanno a che fare con simboli e storie (Neumann 2000). La actual relation è la relazione reale tra
P = mondo interno dell’individuo incluse tutte le parti che lo determinano come insieme dinamicamente inter-relate tra di loro
P = funzione della leadership esercitata dall’Io EP = ambiente esterno all’individuo
g = mondo interno del piccolo gruppo basato su relazioni inter-personali G = funzione di leadership del piccolo gruppo
EP = ambiente esterno del piccolo gruppo
l = mondo interno del gruppo largo composto dalle sue relazioni inter-personali e di gruppo
L = leadership del gruppo largo EP = ambiente esterno del gruppo largo
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membri ed organizzazione che si raggiunge quando l’organizzazione nella mente è esplicitata e confrontata con l’organizzazione reale.
L’organizzazione nella mente (organisation-in-the-mind) è esattamente ciò che l’individuo percepisce nella propria mente rispetto a come attività e relazioni sono organizzate, strutturate e connesse. È un modello interno a se stessi basato su personali esperienze di interazioni, relazioni e attività che consegnano immagini, emozioni e valori capaci di influenzare, positivamente o no, la propria percezione delle dimensioni organizzative (management, leadership, partnership). È, dunque, una realtà soggettiva, un insieme di esperienze tenute in the mind che va distinta da ogni altra realtà out there (Hutton et al. 1997) - è l’idea dell’organizzazione che, attraverso esperienza ed immaginazione, forma lo spazio psichico interiore dell’individuo influenzando le sue modalità di interazione con l’ambiente. Questa differenza (relatedness/relation - organisation in the mind/as it intended to be) è rilevante perché, specie nel caso di lavoro inter-organizzativo, esplicita come in un gruppo le possibilità di fraintendimento sono molto elevate, dovute al fatto che A comunica qualcosa a B che B riceve con significati diversi, sulla base dei quali agisce. A assume che l’immagine di organizzazione che possiede nella propria mente corrisponda perfettamente a quella posseduta da B e viceversa, ma verosimilmente A parlerà di “quadrati” e B risponderà “triangoli” (ibidem).
Figura 5. Schema della dinamica relatedness/relation. Fonte: Hutton et al. (1997) op. cit. p.3
http://www.grubb.myzen.co.uk/attachments/034_Organisation%20in%20the%20mind%20Print%2 0Version.pdf
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L’immagine ed il significato di organizzazione di A è sostanzialmente un mix di esperienze ed idee che sono personali ed uniche e che determinano quella particolare forma (modello) nella sua mente. Allo stesso modo, il modo con cui B fa esperienza del proprio ambiente è ugualmente unico perché filtra gli stimoli e le informazioni in esso presenti attraverso la propria cultura, le proprie dinamiche, il proprio modo di relazionarsi ed agire che appartengono al proprio mondo interno, e fanno vedere o sentire o capire “triangoli” al posto di “quadrati”.
Molte delle spiegazioni a questo genere di dinamiche sono ricondotte agli studi di matrice psicoanalitica, in particolare alla teoria delle relazioni oggettuali di Melanie Klein e alla teoria dello spazio transazionale di Donald Winnicott. Non è questa la sede per la discussione di questi approcci, che pur sono utili sia a comprendere il perché di questi differenti modi di vedere (differenza tra le menti di A e B e differenza tra l’immagine dell’organizzazione nella mente e quella che è intesa essere da quelli che l’hanno progettata) sia per garantirsi degli strumenti con i quali lavorare col concetto di organisation-in-the-mind (non dimenticando peraltro che queste teorie costituiscono il background su cui si basa il Metodo
Tavistock). Quello che qui preme rimarcare, però, è il concetto seguente: la
negoziazione della relazione e quella sull’interpretazione del compito è principalmente negoziazione sulle aspettative reciproche e sulle rappresentazioni mentali del compito; per ogni membro questo implica il riconoscimento del ruolo che ciascuno ha nell’interpretazione del compito, la consapevolezza di come questo influenzi le rappresentazioni collettive e di come queste, a loro volta, influenzino lo svolgimento del compito stesso.
Un aspetto che necessita d’esser considerato, messo efficacemente in evidenza dalla prospettiva psicodinamica, riguarda le difese sociali contro la collaborazione multi-organizzativa. Questa prospettiva fornisce una lente d’osservazione capace di mette a fuoco l’influenza che dinamiche inconsapevoli hanno sul lavoro inter- organizzativo. Occorre premettere un distinguo fondamentale: una cosa è essere membro formale di un “gruppo di scopo” (cosa relativamente facile) - si tratta di essere soggetti impiegati in un sistema di attività (Miller e Rice 1967) -, altra cosa è la membership psicologica che necessita di molto più tempo per potersi sviluppare (McCollom 1995). La fase di costruzione di questa appartenenza
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confronta i partecipanti con la paura di perdere la propria identità, di essere ignorati, di essere sopraffatti da attori più forti o di essere esclusi dal processo (Prins et al. 2006). Il pionieristico lavoro di Isabel Menzies (1960) ha dimostrato come le ansie inconsce prodotte dalla natura del compito sono spesso riflesse nella struttura organizzativa, e come gli aspetti del sistema sociale e della cultura lavorativa forniscono difese contro queste ansie. Uno studio che permette di rimette sul tavolo della riflessione il concetto di organizzazione nella mente, cioè l’istituzione intesa come l’insieme degli aspetti soggettivi ed intersoggettivi che creano il modo con cui un’organizzazione viene vissuta e pensata dalle persone e dai gruppi che ne fanno parte, o che con essa interagiscono (Lawrence 1979). Questi aspetti soggettivi, costituiti da un tessuto emozionale fatto di sentimenti, miti e fantasie, relazioni interiorizzate, specifiche angosce e difese, hanno il potere di influenzare i comportamenti concreti, le relazioni tra i ruoli (Vigorelli 2005) e lo svolgimento del compito primario. Zagier Roberts (1994) sottolinea questa doppiezza propria di ogni organizzazione, identificando un sistema a doppio compito: uno che coincide con la missione istituzionale, uno con le attività di difesa dall’ansia. Segue che il lavoro organizzativo soddisfa i bisogni inconsci delle persone (appartenenza, sicurezza, identità) oltre che produrre beni e servizi (tangibili o immateriali), e tutto ciò che può minacciare l’appagamento di questi bisogni è generatore di angosce (primitive) di fronte alle quali nel sistema si generano delle difese: le organizzazioni diventano, nei termini di Menzies, apparati difensivi contro queste angosce. Il bisogno dei membri di usare l’organizzazione nella lotta contro l’ansia porta allo sviluppo di meccanismi di difesa socialmente strutturati che vengono incorporati, come elementi propri, nella struttura, nella cultura e nel modo di funzionare dell’organizzazione stessa. Questi meccanismi di difesa costituiscono il tentativo degli individui di esternare e concretizzare nella realtà oggettiva i propri tipici meccanismi psichici di difesa (Menzies 1960), ovvero meccanismi e comportamenti difensivi individuali confluiscono nelle norme e nei modelli culturali del gruppo o dell’organizzazione e sviluppano nel tempo un sistema sociale di difesa quale risultato delle interazioni e degli accordi inconsci tra i membri sulla forma che la propria istituzione deve assumere, facendola diventare una realtà esterna con cui sia i
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membri anziani sia i nuovi devono confrontarsi. L’aspetto più importante del sistema sociale di difesa è la sua capacità di aiutare l’individuo ad evitare le esperienze di ansia, di senso di colpa, di dubbio e di incertezza, e a questo fine vengono eliminate situazioni, avvenimenti, compiti, attività e relazioni che evocano ansie connesse con i residui psicologici primitivi della personalità (ibidem). Il meccanismo dell’evitamento dell’ansia è stato considerato con particolare interesse, a partire dagli studi di Menzies, anche da autori come Bion (1961) e Jaques (1955), i quali lo ritenevano disfunzionale al comportamento maturo dei gruppi e poco utile a modificare l’ansia e ridurla in modo concreto. Piuttosto, questi autori introducono l’ipotesi che la qualità delle relazioni e dello svolgimento del compito primario, nonché un adeguato rapporto tra la realtà interna e la realtà esterna, sia strettamente connessa con le tecniche impiegate per il contenimento dell’ansia. Per cui la comprensione del sistema sociale di difesa è un importante strumento diagnostico e terapeutico per facilitare il cambiamento sociale. Bion e Jaques, in particolare, sottolineano l’importanza della comprensione di questi fenomeni e collegano le difficoltà che si incontrano nel portare avanti un cambiamento sociale con la difficoltà di tollerare l’ansia che si scatena quando si ristrutturano le difese sociali. Come ha sostenuto Eric Miller (2003), sono studi che non solo mettono in luce la verosimiglianza che strutture disegnate per obiettivi razionali hanno una funzione difensiva, ma più efficacemente aiutano ad identificare la complessità degli sforzi nel cambiamento organizzativo: molta resistenza al cambiamento è resistenza all’eliminazione delle difese.
6. La partecipazione
Quanto fin qui detto apre ad una riflessione sul tema della partecipazione. Un concetto che fin dalla sua prima apparizione negli studi di Kurt Lewin guadagnò credibilità teorica e pratica, specie come metodologia base lo sviluppo dei gruppi e dell’organizzazione, ma la cui applicazione reale rimane problematica.
La partecipazione è la condicio sine qua non dei processi di programmazione migliorando le potenzialità del processo stesso; non è solo un obbligo di legge, è
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precondizione affinché si attui un cambiamento di paradigma per il miglioramento generalizzato del sistema dei servizi. È definita come “condizione per l’efficacia” (Pennisi 2007), intendendo che la mancata inclusione di soggetti significativi ne farà probabilmente degli oppositori, anche nel caso in cui essi concordassero sul contenuto di determinate decisioni, perché ogni processo decisionale è anche un processo di riconoscimento sociale degli attori in gioco.
Rispetto agli altri approcci, il vantaggio essenziale di un approccio dialogico alla programmazione consiste nel miglioramento dell’efficacia dovuto ad una maggiore vicinanza, tendente alla coincidenza, fra utenti delle politiche e decisori (De Ambrogio 2007). Tale vicinanza aumenta le possibilità di costruire ipotesi di lavoro e percorsi progettuali più ricchi e adeguati ai problemi e alle istanze sociali. Com’è stato sostenuto (Balducci 1995), la partecipazione è la strada più adeguata per favorire l’innovazione attraverso l’interazione fra competenze diverse, favorire l’integrazione di conoscenze e competenze differenti, sfidare il paternalismo amministrativo e professionale, concepito in termini di separazione rigida tra chi progetta e chi è oggetto di intervento, e sviluppare senso di appartenenza nei partecipanti verso il percorso di progettazione. Il coinvolgimento di soggetti portatori di capacità ed esperienze diversificate tende a costruire risposte originali e creative ai bisogni piuttosto che replicare modelli standardizzati e generalmente inefficaci nel trattamento di problemi complessi e delicati.
Ovviamente, non vanno dimenticati quelli che sono i rischi insiti in certi modi di consentire ed organizzare la partecipazione nei processi di programmazione: non basta, certamente, mettere dei soggetti attorno un tavolo perché si produca un buon processo programmatorio, né va esclusa la possibilità reale di manipolazioni e/o strumentalizzazioni della partecipazione per favorire interessi specifici ed impliciti di soggetti più potenti del setting partecipativo.
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Figura
6. Quale partecipazione. Fonte: Battistella et al. (2007), op. cit. p. 42
Arnstein (1969) in un suo lavoro sul coinvolgimento dei cittadini nei processi programmatori utilizza l’immagine di una scala di partecipazione articolata su otto livelli, guardando alla partecipazione nelle scelte governative come ad un
continuum lungo una scala di potere. Secondo l’autore la partecipazione del
cittadino è una condizione assoluta per il suo potere: ciò significa che esiste una fondamentale differenza tra il vuoto rituale partecipativo e l’avere il reale potere necessario per influire sull’esito di un processo. Ogni processo che non trasferisca potere è manipolazione dell’opinione pubblica: non si è raggiunta alcuna partecipazione significativa finché non entra in gioco la democrazia diretta. La scala della partecipazione classifica i diversi livelli di coinvolgimento dei cittadini nei processi decisionali partendo dalla totale esclusione fino alla completa inclusione.
Strategie di interazione
Sollevazione del problema Disegno della soluzione Ratifica ed Attuazione e decisione Apertura del processo Bassa Alta PARTECIPAZIONE Definizione collettiva delle regole del gioco e dei frame, e disegno delle soluzioni Attori: esprimono interessi e competenza rispetto al problema CONSULTAZIONE Presentazione ed adeguamento delle soluzioni Attori: esprimono interesse rispetto alla soluzione proposta
RELAZIONI PUBBLICHE Distribuzione di
informazioni
Attori: formali ed opinione pubblica
Costruzione collettiva
Negoziato
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Figura 7. Arnstein’s ladder. Fonte: http://www.citizenshandbook.org/arnsteins_ladder.pdf
Arnstein attribuisce un valore di merito positivo alla partecipazione. I gradini più bassi della scala, quelli in cui l’amministrazione pubblica rilascia informazioni sul proprio operato per consolidare il proprio potere, viene considerato un tentativo di manipolare, “trattare” o placcare l’opinione pubblica. In questi livelli di non partecipazione, si avviano processi che attribuiscono un ruolo del tutto passivo ai cittadini e che sono finalizzati esclusivamente a far accettare ed ottenere il consenso su scelte politiche già effettuate. Sempre ai livelli bassi si collocano forme di coinvolgimento della cittadinanza che hanno carattere formale, non permettendo ai soggetti di intervenire sulle decisioni prese; in tal caso si parla di falsa partecipazione o partecipazione apparente per alludere a circostanze nelle quali l’introduzione, in un gruppo fortemente omogeneo, di componenti di minoranza ha una funzione solo simbolica: garantisce una parvenza di equità ma neutralizza il reale potere d’influenza della minoranza sulla maggioranza. Soltanto risalendo la scala, i cittadini acquistano potere reale d’influire sulle decisioni e i cambiamenti che li riguardano. Il punto critico per cui la partecipazione rischia di ridursi alla ripetizione di rituali vuoti o manipolativi è dato dal fatto che il
Citizen Control DelegatePower Partnership