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Implicazioni Organizzative della Legge 328/2000 Programmazione, Partnership e Partecipazione

3. Come studiare la programmazione

3.3 Programmazione come cambiamento sistemico

L’analisi della letteratura italiana ha messo in evidenza i quadri teorici di riferimento entro cui collocare i tipi di programmazione. Pur riconoscendo l’importanza del definire approcci diversi, che peraltro richiamano implicitamente una sequenza evolutiva attraverso la quale è possibile identificare nell’approccio dialogico non solo un valore positivo, ma anche il punto di approdo, almeno a livello teorico, di un percorso di cambiamento cognitivo e culturale che riconosce e accoglie l’incertezza e la complessità sociale in tutte le sue forme, rimane aperta una domanda che ha a che fare con il senso ed il fine della programmazione; ciò che manca è, in altri termini, una sua estensione, una sua migliore qualificazione. In aggiunta, un tale livello di astrazione non aiuta neppure a sciogliere un interrogativo di comprensione riguardo al modo con cui concettualizzare e distinguere il processo di programmazione rispetto al processo decisionale, quale sia cioè la differenza tra questi due processi posto che in qualche modo entrambi conducono ad una decisione: gli studi disponibili sulla programmazione in Italia, infatti, ne mettono in risalto l’outcome in termini di decisioni che vengono prese e che, dentro il ciclo di governance, diventano azioni concrete da realizzare. Essa riguarda, quindi, l’aspetto politico come ha rilevato De Ambrogio (2007), e si distingue dalla progettazione perché quest’ultima riguarda primariamente la scelta dei mezzi reali da impiegare per dare attuazione alla decisione.

Le fonti estere permettono di dare consistenza alla programmazione, che più pragmaticamente è possibile rappresentarsi e studiare come modo per introdurre cambiamenti. Nondimeno, lo studio del dibattito britannico, che pur vede alcuni accademici impegnati nell’identificazione delle differenze tra programmazione e decisione, risolve l’ambigua questione della natura della relazione che intercorre tra questi due processi1.

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Rispetto alla controversa questione che riguarda la differenza e la natura della relazione tra processo di programmazione e decisione, il contributo di Osborne e Gaebler (1992) in particolare permette di considerarli come fusi in un unico processo, il processo decisionale strategico. Con questo si vuole sostenere che la programmazione è un modo dinamico di decidere: non si tratta di attendere di risolvere l’incertezza che accompagna la decisione, ma di stabilire qual è il livello di incertezza che si riesce ad accogliere per assumere le decisioni; coloro che programmano, quindi, operano in modo pragmatico, sono orientati all’azione (al cambiamento), si affidano a processi di apprendimento dall’esperienza in modo riflessivo e flessibile, attribuiscono importanza a tutto il processo, fino all’attuazione delle decisioni medesime

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I limiti degli approcci formali alla programmazione sono divenuti sempre più evidenti a causa della crescente complessità ambientale; nel 1965, Emery e Trist per la prima volta usarono la parola “turbolento” per descrivere un ambiente (esterno) emergente che iniziava a modificarsi e a caratterizzarsi per crescenti livelli di incertezza, prodotti da un dinamismo ambientale dentro cui iniziavano a prendere forma frequenti e drammatici shift nei valori sociali che incoraggiavano l’instabilità. In questo scenario, l’atto del governare cambia significato, e viene individuato nella capacità di creare le condizioni affinché la cooperazione tra più soggetti (istituzionali e non) possa svolgersi in modo proficuo ed in modo tale che, attraverso l’interazione, si sviluppi un processo di apprendimento collettivo. Emerge, quindi, la necessità di un certo stile di programmazione, uno che possa superare le manchevolezze di quelli, che in un contesto stabile e certo, risultavano essere più appropriati.

Emery (1973) identifica un tipo di programmazione che caratterizza come adattativa ed attiva (active adaptive planning), in cui l’adattamento attivo implica il tentativo consapevole di influenzare le condizioni future in un ambiente sociale che è molto più complesso e molto meno stabile di quello assunto dai modelli tradizionali. Programmare per produrre un nuovo stato presuppone che si conosca bene dove si è e dove si vuole andare, quale sentiero conduce da “qui” a “lì” e quali mezzi sono necessari per poter percorrere questo sentiero; questo processo richiede una notevole quantità di conoscenze, che sono tanto più meno disponibili quanto più il contesto è in continuo cambiamento; come rileva Emery, una tale condizione apre le porte al dilemma secondo cui più la società cambia, più è necessario programmare, ma meno conoscenza è disponibile per poterlo fare. L’attenzione ricade sul tema della conoscenza, cioè, quale conoscenza “esperta” è necessaria per programmare cambiamenti in una società che si modifica. Questo è il punto importante che mette in evidenza come il processo di programmazione non può limitarsi a sequenze razionali, ma è un processo di apprendimento: gli approcci tradizionali semplificano i problemi cercando di risolverli attraverso conoscenze esistenti e facendo della programmazione sociale qualcosa di molto più vicino ad un puzzle che ad un’attività di problem-solving; al contrario, una buona programmazione dovrebbe implicare processi di ricerca dentro i quali i

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soggetti possono identificare e riconoscere i valori che il cambiamento deve servire, dar vita a cambiamenti che permettano apprendimenti e concepire meccanismi di partecipazione sociale. In questa concezione di adattamento attivo, l’accento è, quindi, sulle conoscenze, che richiamano un concetto presente nelle scienze organizzative, “apprendere ad apprendere”, che mette in risalto i processi cognitivi e culturali nei processi di apprendimento. Concluderà Emery che il risultato significativo di questo stile di programmazione non è il piano razionale, ma la possibilità di realizzare comunità di programmazione.

Fu attorno alla metà degli anni sessanta dello scorso secolo che iniziò a farsi strada il concetto-modello di programmazione strategica, che andò presto incontro a delle rigidità e, conseguentemente, a dei fallimenti. Fin dal suo apparire, i

manager la considerarono come la one best way per concepire ed implementare

strategie che avrebbero aumentato la competitività. Così è stato per lo scientific

management di Taylor, ad esempio, con il quale la programmazione divenne

un’attività sempre più formalizzata, e meno strategica, per via della natura analitica che le venne attribuita (identificare missione, visione e valori dichiarati; condurre un’analisi situazionale basata su valutazioni interne e esterne; stabilire gli obiettivi coerentemente con la missione ed i risultati della valutazione; identificare strategie per realizzare gli obiettivi; sviluppare piani specifici di azione per ottenere ogni obiettivo). È stato dato per scontato, in altri termini, che il processo di programmazione coincidesse con la rigida definizione di piani attraverso cui stabilire azioni da realizzare per raggiungere gli obiettivi ed il successo. Negli anni novanta, quando gli ambienti divennero evidentemente più instabili ed incerti, la programmazione assunse un nuovo imprinting: meno burocratica, più enfasi sull’innovazione e maggiore coinvolgimento dei manager di linea e degli stakeholders. Questo nuovo stile ha incoraggiato le organizzazioni a sviluppare strutture più flessibili, meccanismi di partecipazione e apprendimento organizzativo (Galer e Heijden 1993). Qui, la programmazione si sgancia da previsioni e pronostici ed inizia a configurarsi come un’attività di esplorazione che sviluppa nuove visioni sul futuro a cui tendere, spingendo i manager a confrontarsi con l’incertezza che inizia ad essere vista come una componente

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positiva capace d’ispirare pensiero ed azioni sulla base del fatto che il futuro non è ancora determinato.

Tra i vari studiosi, Osborne e Gaebler (1992) considerano la programmazione strategica una disciplina che consente di esaminare la situazione presente e gli sviluppi futuri, di stabilire degli obiettivi, di definire una strategia per realizzarli e di misurarne i risultati; posta in questi termini, questa potrebbe penetrare nella cultura organizzativa ed offrire alle persone la reale comprensione di ciò che è importante ed indicare la direzione verso la quale dirigersi. Il loro lavoro è significativo quando distinguono tra organizzazioni guidate dalla missione

(mission-driven organisations) ed organizzazioni guidate dalle regole (rule-driven organisations), facendo ricadere in quest’ultima categoria le organizzazioni del

settore pubblico che loro studiano, per le quali è auspicato lo spostamento nella prima attraverso lo smantellamento e l’affrancamento dalle regole accumulate nel tempo e dalle attività obsolete. Questo passaggio, secondo gli autori, è necessario per il fatto che l’imprevedibile può essere accolto e sfruttato positivamente solo se le organizzazioni posseggono regole flessibili. E, sebbene non definiscono i criteri utili a distinguere i due tipi di organizzazione (lasciando aperto l’interrogativo se sono ugualmente organizzazioni orientate alla missione quelle che pur avendo una chiara missione di fatto non la seguono), l’aspetto significativo risiede nell’esistenza di culture organizzative differenti che hanno implicazioni diverse riguardo al modo di cambiare ed innovare. Interessante e connessa al senso che qui viene dato alla programmazione come modalità di cambiamento, è la loro menzione riguardo agli ostacoli che si frappongo nei processi di passaggio da una forma di organizzazione all’altra: sono le regole incorporate in una serie di (sotto)sistemi (budget, personale, acquisti, finanza) che determinano le percezioni e guidano i comportamenti dei soggetti; segue che il reale cambiamento si verifica solo se l’amministrazione pubblica deregolamenta questi sistemi in modo tale che la visione sulla missione non sia più un miraggio. Questo processo, che è cambiamento culturale, è ciò che successivamente Osborne rielabora assieme a Plastrik (1997) come passaggio da organizzazioni burocratiche ad organizzazioni imprenditoriali, ovvero verso culture basate sull’utilizzo strategico delle risorse per massimizzare efficienza ed efficacia; il loro concetto del “re-inventare il

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governo” (reinventing government) esplicita, dunque, l’idea della trasformazione delle organizzazioni pubbliche verso adattabilità e capacità di innovazione, possibile solo attraverso il cambiamento degli obiettivi, delle responsabilità, delle strutture e delle culture. Al processo del re-inventare essi aggiungono una componente importante alla programmazione strategica, ovvero il consenso necessario tra tutti gli stakeholders per apportare i cambiamenti. Suggeriscono che il consenso riguardo alla visione sullo stato futuro abilita ciascuno ad usare la propria iniziativa e ad agire in risposta ai vincoli ed alle opportunità ambientali senza la decisione e/o la verifica del leader su ciò che dovrebbe esser fatto; e, in questo senso, distinguono l’atto dell’indirizzare da quello del condurre: programmare è indirizzare, e indirizzare attiene più specificamente alla fissazione degli obiettivi, alla definizione di una strategia per conseguirli, alla scelta di una forma organizzativa che permetta di farlo nel miglior modo possibile.

Prima ancora di Osborne e Plastrik, che esplicitamente riformulano il concetto di programmazione affermando che indirizzare (programmare) in un ambiente sempre più turbolento e complesso non coincide con la creazioni di piani ma con la scelta e la valutazione di strategie, Mintzberg (1994-a) aveva messo in evidenza come le strategie di maggiore successo fossero le visioni, e non i piani. Egli fu uno dei maggiori critici della programmazione formale, cercando di limitarne lo spazio teorico attraverso la discussione delle fallacie su cui è basata:

 la fallacia della previsione - la credenza che coloro che programmano possono predire ciò che avverrà nell’ambiente circostante;

 la fallacia del distacco - ritenere che strategie efficaci possono essere prodotte mediante processi formalizzati da manager distaccati rispetto alle pratiche ed al contesto in cui opera l’organizzazione;

 la fallacia della formalizzazione - l’idea che le procedure formalizzate possono produrre strategie in considerazione della loro funzione di operazionalizzare quelle già esistenti (ibidem).

Il fallimento della programmazione formale è, quindi, spiegato dal fatto che ha promosso strategie estrapolate dalle esperienze passate non tenendo in debita considerazione l’alto rischio di fallimento implicato in tale operazione, perché ciò che ha ben funzionato nel passato non è necessariamente funzionante nel presente.

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Peraltro, questo stile calcolatore, a discapito dello stile partecipato, ha espulso il “pensiero strategico” (strategic thinking) permettendo ai manager d’esser manipolati dalla certezza dei numeri e al processo di mancare dell’entusiasmo creativo delle persone. Secondo Mintzberg (1994-b), il pensiero strategico è una condizione fondamentale della programmazione, è sintesi perché coinvolge intuizione e creatività, il cui risultato è una prospettiva integrata che emerge dai processi di apprendimento compiuti dalle persone ai vari livelli. Connessa a questa visione è il suggerimento che lo scopo specifico della programmazione strategica sia quello di facilitare il pensiero strategico; De Geus (1988) afferma che il valore del processo di programmazione non risiede nel piano in sé, ma nella sua capacità di cambiare i modelli mentali dei manager. Pensiero strategico e programmazione possono essere visti entrambi come processi di apprendimento.

La letteratura sull’apprendimento organizzativo (Argyris e Schön 1996; Fiol e Lyles 1985; Senge 1992) suggerisce che un cambiamento che non sia di facciata richiede un cambiamento nei sistemi di apprendimento, ossia una modificazione degli assunti impliciti che governano le azioni e le stesse pratiche organizzative. Questi studi mettono in luce il ruolo della cultura come insieme di pratiche difensive che plasmano il comportamento individuale e collettivo, incastrandolo in schemi che fungono da scudo da esperienze imbarazzanti o minacciose, possono cioè dar vita a tutta una serie di norme condivise e modelli di pensiero capaci di impedire agli individui di affrontare gli aspetti cruciali della realtà da cui sono confrontati. Emerge, allora, come l’apprendere è condizione necessaria per creare cambiamento e innovazione: processi di double loop learning, che mettono in discussione i valori su cui si fondano le azioni, prima ancora che le modalità comportamentali, rappresentano di per sé luoghi di sperimentazione, all’interno dei quali la consapevolezza degli effetti delle pratiche difensive diviene una competenza sofisticata che consente la reale modifica delle “teorie in uso”, non sempre coincidenti con le “teorie professate” (Argyris 1985). La modifica delle teorie in uso (ciò che gli individui dicono di fare) rappresenta un passaggio essenziale, perché è nello scollegamento tra idea e azione che si apre uno spazio per l’intervento organizzativo che porta verso l’apprendimento, accorciando la distanza che esiste tra ciò che si dice di fare e ciò che realmente viene fatto. Si

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tratta, quindi, di acquisire capacità riflessiva (Schön 1983) rispetto al fare esperienza concreta di ciò che realmente non funziona e sviluppare differenti tipi di abilità, indispensabili per generare nuovi paradigmi o mappe mentali.

In aggiunta, gli studiosi del cambiamento organizzativo problematizzano il rapporto tra la cultura organizzativa e le strategie dell’organizzazione: non sempre l’organizzazione è capace di scegliere strategie che confliggono con i propri assunti di fondo, ma opta, al contrario, per quelle che dagli assunti e dai valori sono consentite; questo pone il problema del cambiamento apparente, quando cioè l’organizzazione si modifica entro i confini della sua identità corrente: un cambiamento basato su modalità di apprendimento di tipo single loop, limitate a comportamenti di tipo reattivo volti a cambiare i corsi di azione per raggiungere gli obiettivi che lasciando invariato il quadro di valori di riferimento e che ri- rutinizzano i comportamenti appresi. Ecco perché non si può parlare di cambiamento se i cambiamenti introdotti non sono riconosciuti, non hanno sviluppato processi di riflessione e non sono stati interiorizzati; se non vanno cioè a sostituire gli assunti profondi ormai obsoleti con altri nuovi e più coerenti. I nuovi modi di fare hanno bisogno di essere interpretati come occasioni di

sensemaking (Weick 1995), ossia come occasioni di riflessione su prassi e

procedure che altrimenti verrebbero date per scontate. Al centro vi sono i processi cognitivi attraverso i quali gli individui attribuiscono un senso al flusso disordinato e informe delle loro esperienze, ed i processi sociali attraverso cui organizzano la propria realtà.

Se i processi di apprendimento sono uno snodo dei processi di cambiamento, ciò rileva come il passare dalla programmazione tradizionale a quella sistemica equivale ad accogliere un processo di apprendimento organizzativo volto al cambiamento in cui si aprono spazi di sperimentazione per la rimessa in gioco delle mappe mentali degli attori implicati e per la (ri)scoperta di alternative inedite in cui l’esperienza contraria emerge ed i modelli cultuali e le routine cognitive radicate diventano materia esplicita di discussione e cambiamento.

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