7. Politiche socio-assistenziali a confronto: Italia e Regno Unito La natura comparativa di questo studio richiede di ricostruire lo scenario entro
7.1 La riforma dell’assistenza in Italia
L’assistenza sociale in Italia ha tradizionalmente rivestito un ruolo residuale, appartenendo ad un sistema di welfare che ha fortemente privilegiato un approccio mutualistico-previdenziale volto a proteggere, soprattutto su base contributiva, i lavoratori e le loro famiglie dai rischi tipici di una società industriale, con implicito riferimento ad un modello di famiglia caratterizzato da una netta divisione di genere dei ruoli. L’approccio familista tipico dell’Italia, basato
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sull’assunto secondo cui alla famiglia (sulla base del principio di sussidiarietà) sono attribuiti i principali compiti di cura e la responsabilità del benessere dei propri membri, assieme all’esistenza di una rete di istituti di carità e beneficenza di matrice cattolica diffusa sul territorio e chiamata ad intervenire qualora la famiglia non fosse in grado di rispondere ai bisogni dei propri componenti, ha fatto sì che la politica socio-assistenziale non venisse mai potenziata, né tantomeno ha fatto sentire la necessità di una riforma organica dell’intero settore. Peraltro, la credenza sull’efficacia e sulla resistenza della famiglia quale provider di welfare, ha caratterizzato a lungo l’assistenza sociale per il prevalente ruolo dei sostegni monetari rispetto a quello dei servizi, primariamente finalizzati al sostegno di determinate categorie di individui e nuclei familiari svantaggiati riconosciuti come “soggetti di diritto”. Quello dell’assistenza, dunque, si è storicamente caratterizzato come un settore del welfare sottodimensionato rispetto agli standard europei, e negli ultimi anni la spesa relativa è diminuita (Ranci Ortigosa 2006).
Gli antecedenti significativi
In Italia la riforma dell’assistenza si concretizza attraverso la legge 328 del 2000, Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e
servizi sociali, che, promuovendo il superamento della tradizionale impostazione
categoriale delle politiche assistenziali attraverso la realizzazione di politiche universalistiche, identifica alcuni cambiamenti che investono: i princìpi e le finalità delle stesse, l’architettura istituzionale e organizzativa delle competenze, i destinatari, i contenuti ed il grado di copertura (Bifulco 2003). Da questo punto di vista, la legge quadro è stata presentata come uno strumento legislativo in grado di porre rimedio agli aspetti di maggiore debolezza del sistema italiano dei servizi socio-assistenziali, quali, appunto, l’elevata discrezionalità che ha storicamente contraddistinto il diritto alle prestazioni e l’elevata differenziazione geografica degli interventi.
La legge di riforma costituisce il primo provvedimento organico adottato a livello nazionale nel settore dell’assistenza dopo la legge 6972 del 1980, passata alla storia come la “Legge Crispi” che concepiva l’assistenza come lo strumento
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attraverso cui tutelare i soggetti economicamente deboli in funzione di due precisi obiettivi: eliminare le cause del pauperismo per eliminarlo dalla società liberale e realizzare finalità di difesa e conservazione della società (Gasparrini Pianesi 1991). Sulla base di tale presupposto la legge Crispi accentuò, rispetto al passato, il controllo dello Stato in questo settore, trasformando l’assistenza da privata a pubblica e realizzando allo scopo una struttura giuridico-amministrativa del settore complessa e laicizzata; tuttavia, l’intervento dello Stato non era certamente quello di emancipare gli individui, piuttosto emarginare l’indigente attraverso un sistema assistenziale teso a creare dipendenze e alimentare disuguaglianze (Rizzo 2002). Nonostante l’affermazione dei principi costituzionali fondamentali, il passaggio da una concezione paternalistica dell’assistenza, intesa come soccorso al povero improntata al paternalismo e al controllo sociale, all’assistenza sociale intesa come diritto riconosciuto e come rete di servizi da organizzare sul territorio, ritarda a realizzarsi a causa della mancanza di una legge organica di riforma, che avrebbe dovuto liberarsi dai retaggi di una concezione di assistenza che la qualifica come semplice aspettativa del cittadino la cui soddisfazione è affidata alla valutazione discrezionale degli Enti, i quali, secondo il principio della buona amministrazione ed in considerazione dei vincoli finanziari, scelgono i soggetti da proteggere e le prestazioni da erogare (Olivelli 1988).
I primi cambiamenti si verificano alla fine degli sessanta quando si introducono le linee guida per il rinnovamento del settore dell’assistenza pubblica: il superamento del criterio della povertà come requisito per l’accesso ai servizi, l’adozione del criterio di scelta tra più servizi per bisogni complessi, la fissazione di standard minimi di servizi (ovvero l’adozione del criterio dell’eguaglianza delle prestazioni per bisogni eguali) ed il carattere preventivo dell’assistenza sociale. Il momento più significativo nel processo di riordino del settore fu l’emanazione del dPR 616 (1977) che, assieme al decentramento amministrativo, riuscì a riformare il settore facilitando il passaggio da un sistema assistenziale frammentato e disarticolato ad un sistema organicamente strutturato: l’aspetto più importante fu la valorizzazione del concetto di servizio sociale, inteso come complesso unitario di servizi organizzati sul territorio il cui scopo è quello di eliminare le cause di emarginazione sociale e di assicurare ad ogni cittadino una situazione di benessere
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globale (Rizzo 2002); in altri termini, servizi e prestazioni non sono più la risposta assistenziale ai bisogni individuali e categoriali, ma inizia a costituirsi come strumento di promozione sociale che pone a suo fondamento la centralità della persona - che nella sua globalità e nelle sue esigenze di sviluppo deve essere tutelata. Da questo momento in poi, numerosi sono i provvedimenti che tentano non solo di realizzare il sistema di sicurezza sociale disegnato dalla stessa Costituzione, ma di attuare il processo di costruzione del welfare locale, prevedendo e realizzando servizi sociali più accessibili dal punto di vista territoriale e più diversificati dal punto di vista dei bisogni.
Tuttavia, la mancanza di una legge quadro di riforma del settore ha fatto sì che la tutela dei soggetti più deboli fosse rimessa all’attività normativa delle singole Regioni, con una conseguente legislazione regionale molto eterogenea; ma non solo: il diverso rendimento delle Regioni tanto sul piano normativo quanto su quello operativo ha generato diversi sistemi di protezione sociale, differenziati per capacità e modalità di risposta ai bisogni socialmente rilevanti (Fargion 1997). In altri termini, la non definizione da parte del legislatore nazionale di un sistema di diritti sociali minimi da garantire in modo uniforme su tutto il territorio nazionale ha determinato una differenziazione territoriale significativa per quanto riguarda forme di intervento, soggetti competenti ed esigibilità delle differenti prestazioni.
Il disegno della riforma
La legge 328/2000, mettendo al centro la tutela della persona e della sua dignità, si prefigge, appunto, la creazione di un sistema integrato di interventi e servizi sociali che fa dell’assistenza un sistema attivo di protezione mirato al benessere psicofisico dell’individuo (e non più un intervento riparatore connesso all’esistenza di un bisogno economico e di inabilità al lavoro - secondo quanto dettato dall’articolo 38 della Costituzione), che si realizza attraverso prestazioni coordinate tra i vari settori della vita sociale e l’integrazione tra i servizi sociali e le reti informali (quali la famiglia) al fine di prevenire situazioni di bisogno e per restituire alla persona la sua dignità e la sua funzione sociale, intervenendo su dimensioni di disagio diverse rispetto a quelle su cui si erano concentrate le politiche e gli interventi assistenziali a partire dalla legge Crispi.
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Gli elementi di innovazione introdotti dalla legge ruotano attorno al carattere promozionale dei servizi e degli interventi, alla localizzazione e integrazione tra le politiche, alla cooperazione tra i diversi attori e livelli istituzionali (Bifulco 2003).
Un primo aspetto essenziale della riforma è il tentativo di promuovere il superamento della tradizionale impostazione categoriale delle politiche assistenziali attraverso la realizzazione di politiche universalistiche e selettive, cioè rivolte a tutti gli individui secondo la condizione di bisogno. L’affermazione del principio dell’universalismo selettivo rappresenta un’inversione di tendenza molto importante nel sistema di welfare italiano, caratterizzato da sempre da uno statuto debole e diseguale dei diritti sociali e da una forte disparità dei trattamenti e delle condizioni di accesso a beni e servizi. Questo si realizza con la definizione dei livelli essenziali delle prestazioni sociali che è fatto obbligo di garantire in tutto il territorio nazionale, la cui definizione però, come rileva Saraceno (2005), è molto generica trattandosi più di un elenco di settori di intervento che di tipi o livelli di copertura di intervento. I livelli essenziali, la cui realizzazione effettiva non è esente da problemi (peraltro, acuiti dall’intervenuta riforma costituzionale del 2001), possono essere definiti come diritti individuali (articolo 2 legge 328/200) con pari opportunità nell’accesso e nella fruizione degli interventi e delle prestazioni, rispetto alle quali il compito di fissarne le caratteristiche, i requisiti specifici e la loro declinazione concreta è demandato alla pianificazione nazionale, regionale e zonale (articolo 22 legge 328/2000).
Un secondo aspetto considera l’architettura istituzionale delineata dalla riforma che ha posto a suo fondamento l’integrazione, sia tra gli attori (istituzionali e non) sia tra settori (sanità, assistenza, educazione, formazione, lavoro), per impedire sovrapposizioni di competenze e la settorializzazione delle risposte (articolo 22 legge 328/2000). L’integrazione determina una nuova architettura istituzionale che si realizza attraverso:
- la concertazione e la collaborazione tra i diversi livelli di governo (Stato, Regione, Provincia, Comune) secondo il principio di sussidiarietà verticale, - la concertazione e la collaborazione tra pubblico e Terzo Settore secondo
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- la partecipazione delle comunità locali e dei cittadini secondo i principi di cittadinanza attiva (Bifulco 2003).
La collaborazione sussidiaria, verticale ed orizzontale, non ha solo lo scopo di contenere i costi dei servizi, ma anche di rendere questi ultimi maggiormente efficienti ed efficaci in virtù della loro personalizzazione: essa impone la com- partecipazione e la cor-responsabilità politica, finanziaria ed operativa tra i diversi attori; modifica il ruolo della amministrazioni pubbliche che non detengono più il monopolio delle politiche; complessifica i rapporti tra il livello centrale ed i livelli periferici realizzando forme di partnership tra pubblico e privato (De Leonardis 2003). Si tratta, quindi, di promuovere una programmazione integrata degli interventi socio-assistenziali che, realizzando una più razionale redistribuzione delle responsabilità tra i vari attori (istituzionali e non), riesca ad aggredire i nodi dell’impianto categoriale della protezione sociale (Bifulco 2005).
Un terzo aspetto importante della legge è rappresentato sia dal riconoscimento della centralità del Comune quale istituzione più vicina ai cittadini, e per questo, più capace di comprenderne i bisogni e programmarne risposte adatte (ad esso è assegnata, quindi, la titolarità di funzioni amministrative relative agli interventi sociali espletati a livello locale), sia dalla valorizzazione della comunità, come rete di soggetti diversi pubblici e privati, di risorse formali e informali, di relazioni di reciprocità e fiducia, di nuove si(e)nergie e di nuove responsabilità (Franzoni e Anconelli 2006). Nello spirito della legge, i Comuni assumono una centralità strategica nella fase della programmazione sociale territoriale del sistema integrato dei servizi, e devono promuovere attivamente la costruzione di reti decentrate di integrazione tra le varie forme di intervento nel territorio, fondate su partnership tra diversi tipi di attori che lo animano. Nel nuovo quadro istituzionale delle competenze degli Enti locali, posta la centralità del Comune (che attraverso il Piano di Zona stabilisce gli obiettivi strategici e le modalità di intervento, le risorse e le modalità organizzative, le modalità di integrazione tra servizi e prestazioni, le forme di coordinamento tra gli attori coinvolti), la legge 328 ha tentato di porre rimedio all’estrema disomogeneità infranazionale delle iniziative locali che ha storicamente contraddistinto il settore dei servizi. Questo tentativo si è tradotto nell’assegnazione allo Stato delle funzioni essenziali di
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programmazione, indirizzo e coordinamento assieme al diritto di legislazione esclusiva nell’ambito dell’individuazione dei livelli essenziali ed uniformi delle prestazioni (articolo 9); a tal fine viene predisposto uno strumento chiave di programmazione centrale, il Piano Nazionale degli interventi all’interno del quale vengono individuate le priorità di intervento e vengono definite le caratteristiche generali delle prestazioni e dei servizi che devono essere realizzati. In sostanza, la legge quadro ha tentato di attuare una sorta di ri-centralizzazione delle funzioni legislative in materia di assistenza, seppur dentro una cornice di decentramento e sussidiarietà (verticale e orizzontale) che attribuisce agli Enti locali competenze normative e di governo molto estese. Alle Regioni sono attribuite le competenze di programmazione, coordinamento e indirizzo degli interventi sociali (articolo 8), nonché il compito di individuare gli ambiti territoriali all’interno dei quali devono essere attuati gli interventi (di norma, ma non sempre, coincidenti con i distretti sanitari); esse devono adottare le indicazioni contenute nel Piano Nazionale e formulare un Piano Regionale degli interventi e dei servizi sociali (coerente con gli obiettivi del piano sanitario nazionale) al fine di realizzare l’integrazione tra le diverse forme di intervento. Il ruolo delle Province risulta essere limitato al concorso nella programmazione e a compiti conoscitivi e di analisi dell’offerta assistenziale (articolo 7): la dimensione provinciale, stretta tra quella dei distretti e quella comunale, ha quindi assunto una funzione residuale.
L’elemento di maggiore novità è costituito dal riconoscimento formale del Terzo Settore, che si realizza con l’assegnazione di un ruolo di interlocuzione importante nei processi di programmazione: in considerazione della sua capacità di “sentore precoce” dei bisogni (Franzoni e Anconelli 2006), derivata dalla sua presenza capillare e anche informale sul territorio, la legge quadro lo chiama a partecipare alla costruzione dei Piani di Zona non in ruolo consultivo, ma rendendolo partecipe e responsabile delle scelte strategiche in esso contenute mediante l’adozione dell’Accordo di programma. Il Terzo Settore diventa, quindi, attore fondamentale nel processo di costruzione del welfare comunitario, cessando di essere partner subalterno nei confronti dell’amministrazione pubblica. Per quanto nell’impianto complessivo della legge le istituzioni pubbliche rimangono responsabili delle funzioni di garanzia della risposta ai bisogni sociali e dei servizi
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erogati, viene tuttavia sancita la definitiva assunzione di un modello di welfare locale o municipale all’interno del quale le organizzazioni non-profit svolgono un ruolo importante non solo nella gestione operativa, ma anche nella fase di programmazione zonale degli interventi. In questo modo, la legge innova in modo profondo modelli di pensiero e prassi di regolazione, basati per molto tempo su una concezione strumentale del Terzo Settore conducendo verso una effettiva complementarietà d’azione tra pubblico e non-profit.
In Italia, dunque, il vero passaggio dal welfare state al welfare locale avviene con la legge quadro sull’assistenza che, disegnando una nuova architettura istituzionale e organizzativa del welfare, crea spazi di azione secondo uno schema in cui pubblico e privato si integrano senza supplirsi, per produrre e offrire beni relazionali il cui mezzo simbolico di interscambio non è né il potere, (Stato), né il denaro, (mercato), ma la solidarietà (Pagani e Perino 2000).
Tuttavia, nonostante l’ambiziosità dei fini e dei principi che la ispirano, la riforma sembra presentare anche notevoli elementi di contraddittorietà. In realtà non esiste un obbligo ad adempiere da parte dei Comuni: essi possono, e non
devono; questo può porre notevoli problemi sul grado di effettività dei diritti che
la legge riconosce rischiando di rimanere delle mere enunciazioni (Breda, Micucci, Santanere 2001). Il secondo elemento di problematicità attiene ai livelli essenziali delle prestazioni: il loro statuto, in termini di diritti esigibili, cioè pretese giustificate da un trattamento, è reso debole sia dai criteri di compatibilità economica (è cioè erogabile nei limiti del Fondo nazionale per le politiche sociali e tenuto conto delle risorse ordinarie già destinate dagli enti locali alla spesa sociale) sia dalle scelte regionali su cosa, come e quanto realizzare. Com’è stato ben evidenziato (Bifulco e Vitale 2003), la legge identifica come diritti soggettivi solo alcune misure di sostegno al reddito nei confronti dei disabili e le pensioni sociali. Il problema è, quindi, distinguere tra prestazioni essenziali e livelli essenziali: se le prime sono istituti incomprimibili che identificano un diritto dei destinatari ed il cui finanziamento si realizza per mezzo della fiscalità generale, le seconde sono, appunto, livelli che “salgono e scendono” in funzione della programmazione nazionale e regionale e vanno resi, come si diceva, compatibili con le risorse a disposizione (Mari 2003). In termini più semplici, questo significa
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che i valori di cui si fa portatrice la legge 328 (universalismo e solidarietà, uguaglianza e tutela della diversità) risultano essere difficilmente attuabili in un contesto in cui il godimento dei diritti sociali fondamentali è subordinato ai limiti delle risorse disponibili, e il livello essenziale delle prestazioni (reso problematico dalla riforma del Titolo V della Costituzione) rischia di creare una situazione di eguaglianza al minimo con soggetti deboli a tutela differenziata, cioè soggetti più o meno deboli a seconda delle Regioni di appartenenza (Rizzo 2002).