• Non ci sono risultati.

Il 31 ottobre 1534, «tra le cinque et sei hor di notte», il duca Alfonso I d’Este «passò di questa a più felice vita».1 Due giorni dopo, il novello successore Ercole e il fratello Ippolito (futuro cardinal

Ferrare) scortarono il feretro del padre fino al monastero delle monache del Corpus Domini, dove avvenne l’inumazione: nel nutrito corteo funebre – rigorosamente maschile – affollato di «nobili e gentilhomini di Ferrara», il cronista annota anche la presenza di due bambini, «Alphonso et Alphonsino figliuoli dil ditto duca morto», abbigliati con «gramalie nere» e «tuti incapuzati».2 Che la Ferrara all’altezza del quarto decennio del Cinquecento ospitasse la corte più filogallica d’Italia è dimostrato, di riflesso, anche dal dettaglio vestimentario appena restituitoci dalla cronaca, tutt’altro che secondario: il cappuccio da penitente su un ampio mantello nero a strascico è, infatti, quello del gran lutto, secondo una tradizione che da borgognona si era fatta francese e internazionale.3 Col grand deuil à la bourguignonne le stirpi signorili manifestavano un cordoglio vissuto tutto nell’esteriorità, intesa come signum di un potere costruito nel corso della vita, militare, diplomatica o ecclesiastica che fosse.

La presenza alla cerimonia mortuaria dei due imberbi dolenti, platealmente riconoscibili per via di certi elementi segnici, ha un valore semiologicamente forte, perché decodificava il loro posizionamento nella struttura parentale agli occhi del popolo, degli agenti diplomatici forestieri e degli stessi membri della composita famiglia regnante: la compartecipazione di tutti i rampolli fissava un’immagine di floridezza generazionale e di concordia domestica, elementi beneauguranti

1 G.M. DI MASSA, Memorie di Ferrara (1582-1585), a cura di M. Provasi, Deputazione Provinciale Ferrarese di Storia Patria, Ferrara, 2004, p. 84.

2 Ibidem. L’assenza della componente femminile nel corteo testimonia quanto fosse ancora persistente la dimensione

misogina della virilità intesa come cifra culturale, derivante dal mondo feudale e cavalleresco; inoltre, gli stessi manuali funebri di ambito europeo prevedevano per le donne sei settimane di veglia e preghiera privata: cfr. G.RICCI,

Povertà, vergogna, superbia. I declassati fra Medioevo e Età moderna, Bologna, Il Mulino, 1996, p. 94.

3 C.BEAUNE, Mourir noblement à la fin du Moyen Age, in La mort au Moyen Age, Strasbourg, 1977, p. 135; G. RICCI,

per le sorti del Ducato. In realtà, il trionfo dell’apparenza mascherava una latente discordia che condusse a un opposto epilogo. Quei giovani maschi estensi discendevano, sì, dal medesimo padre, ma da madri diverse: Ercole, Ippolito e Francesco erano figli di Lucrezia Borgia, Alfonso e Alfonsino dell’ingentilita Laura Dianti (Tav. I e Tav. II).

Per la storia politica, originariamente in buona parte storia dinastica, le genealogie avrebbero costituito la metafora centrale, il criterio ordinatore della narrazione e non si può pensare di avviare alcuna riflessione prescindendo dalle modalità di organizzazione della parentela, da quelle di edificazione della memoria, dal ruolo centrale ma ambiguo rivestito dalle nozze nelle prassi successorie della famiglia ducale, nonché dalla loro originaria utilità per la costruzione di un dominio politico. In un’epoca governata ancora da teorie procreative tardomedievali consideranti il matrimonio come seminarium civitatis, all’interno del quale il sangue materno contribuiva a qualificare l’elevatezza ed il rango sociale dei discendenti,4 era giocoforza impensabile che l’altero nipote di un papa accettasse di condividere (senza remore) col nipote di un confezionatore di berretti gli stessi spazi nella gerarchia socio-politica di una delle più vetuste schiatte d’Italia. Con la morte di Alfonso I si spezzò quella linea di concordia e obbedienza filiale da lui fortemente sostenute, con esiti felici diremo, se nel terzo canto della terza edizione del Furioso (1532) questa volontà pacificatoria verso i maschi generati dalle due madri compariva esplicitamente perfino nel vaticinio presagito dalla maga Melissa al cospetto di Bradamante, tramite il quale Ariosto nominò senza alcuna distinzione, e con identici elogi, i cinque figli del duca:

[…]

Vedi d’Alfonso i cinque figli cari, alla cui fama ostar, che di sé il mondo non empia, i monti non potran né i mari: gener del re di Francia, Ercol secondo è l’un; quest’altro (acciò tutti gl’impari) Ippolito è, che non con minor raggio che’l zio, risplenderà nel suo lignaggio; Francesco, il terzo; Alfonsi gli altri dui ambi son detti. Or, come io dissi prima, s’ho da mostrarti ogni tuo ramo, il cui

4 J.F.BESTOR, Teorie procreative e loro influenza sul concetto di parentela nell’Antichità e nel Medioevo, in La

valor la stirpe sua tanto sublima, bisognerà che si rischiari e abbui

più volte prima il ciel, ch’io te li esprima: […] (III, 58-59).

Con il «divino» vate reggiano il complesso legame che assicura il rapporto poesia-politica si fa più stringente, non solo a causa della straordinaria capacità affabulatoria e lirica del capolavoro letterario, ma anche per la condivisione diretta al programma genealogico e di struttura della corte che Ariosto sperimenta sul piano ideologico, poetico e della prassi politica.

In terra italica, e nel periodo compreso traXV e XVIsecolo, era abbastanza diffuso il fenomeno rappresentato dal numero anche cospicuo di figli generati fuori del matrimonio da membri di un casato eminente e mantenuti o reinseriti in posizioni diverse all’interno della famiglia paterna, poi utilizzati quali esponenti riconosciuti nelle attività e funzioni pubbliche svolte nel casato stesso, oppure a volte elevati ai vertici della compagine familiare o, addirittura, all’esercizio del potere sovrano:5 celebre è il «ne font point grant differance au pays d’Italie d’ung enfant bastard à ung légitime» pronunciato da un incredulo Philippe De Commynes, che – al seguito di Carlo VIII nella campagna d’Italia –6 commentava sgomento l’amorale realtà delle strutture familiari più nobili, «je dis toutes ces choses pour monstrer ce qui n’est ensuyvoy de la mutation de ces mariages et ne scay qu’il en pourra encores advenir».7

Il largo ricorso alla prole e alla parentela agnatizia extraconiugale nella costruzione della rete di relazioni e nella edificazione dei supporti necessari all’azione politica, costituisce senza dubbio un indicatore di un’ancóra persistente fiducia della solidarietà familiare. L’inserimento nella famiglia paterna del figlio spurio implicava il conferimento di una particolare posizione all’interno dell’agnazione, con la conseguenza di coinvolgere l’intero lignaggio nei rapporti di guarentigia, di comunanza, di soggezione rispetto al nuovo membro.

5 A.SPAGNOLETTI, Matrimoni e politiche dinastiche in Italia tra gli anni Trenta e gli anni Cinquanta del Cinquecento, in L’Italia di Carlo V. Guerra, religione e politica nel primo Cinquecento, Atti del convegno internazionale (Roma, 5- 7 aprile 2001), a cura di F. Cantù e M.A. Visceglia, Roma, Viella, 2003, pp. 97-113.

6 PH.DE COMMYNES, Memoires, VII, II, p. 1302, in Historiens et Chronaqueurs du Moyen Age, Paris, 1952.

7 Ivi, p. 1309. Sul caso estense, vedasi J.FAIR BESTOR, Bastardy and Legitimacy in the Formation of a Regional State

L’ostensione del nominativo, poi, valeva come una pubblica dichiarazione d’intenti in una società aristocratica e cavalleresca come quella ferrarese. Il nomem attribuito al figlio appare in parecchi casi rivelatore dell’animus con cui questi viene accolto dal genitore e del relativo proponimento di costituire, proprio attraverso la scelta onomastica, una precisa ipoteca in vista dell’inserimento a titolo più o meno ampio del nuovo venuto nella famiglia.8 La sua collocazione di fatto e, a volte,

pleno iure, all’interno della casa paterna e l’accettazione da parte dei congiunti, sembrano facilitate dalla posizione di forza tenuta dal padre che riesce a imporre la propria volontà agli altri componenti: esattamente ciò che fece Alfonso I d’Este nell’atto conclusivo della propria vita nei riguardi dei due ultimigeniti, battezzati col suo stesso nome, in forma estesa (Alfonso, nato il 10 marzo 1527) e diminutivale (Alfonsino, nato il 16 settembre 1530).9

Per comprendere meglio i meccanismi di funzionamento alla base di prassi e consuetudini interne alle strategie dinastiche, occorre infatti addentrarsi in precise fonti testuali di natura giuridica, quali lasciti, legati, atti dotali e compravendite immobiliari.