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Dopo questa sorvolata sui riferimenti criptici in funzione allusiva e connotativa leggibili nelle icone di Kreuzlingen e Chantilly, risulta difficile non convergere su una soluzione interpretativa il cui portato potrebbe chiudere alcune parentesi ancora aperte nella letteratura artistica estense: Tiziano e Dosso ritrassero non Laura Dianti, ma Laura d’Este.

La sottigliezza nominale in realtà racchiude il riverbero di dignitas e gravitas di una giovane donna autorizzata ad appropriarsi del nome dell’insigne casata anche nel periodo precedente il fatidico matrimonio in articulo mortis. Tutti gli storici del XIX secolo hanno, infatti, aderito alla tesi di Muratori, secondo cui Laura poté fare uso del cognome dinastico solo dopo la morte del duca Alfonso I, 168 avvenuta il 31 ottobre 1534; allo stesso modo stimarono pure i testimoni a riguardo del secondo capitolo del succitato examen del 1615-1616, che così recitava:

166 Ivi, p. 180, nota 47.

167 Ivi, p. 172, datato agli inizi del terzo decennio: sempre incatenata e schiacciata dalla mano di Lucina, la testa della martora bergamasca sfiora un monile a forma di corno, con chiara funzione beneaugurante.

Vuole et intende di provare che detta Illustrissima et Eccellentissima Signora Laura Eustocchia Dianti sempre dopo la morte di detto Serenissimo Alfonso primo fu chiamata d’Este universalmente da tutti e dalli medemi della Serenissima Casa Estense, il che non si sarebbe fatto se detta Signora Laura veramente non avesse con il mezo del matrimonio seguito fra lei e detto Serenissimo Alfonso guadagnato questo cognome, et così detti testimoni hanno veduto e inteso per tutto il tempo del loro racordare e hanno publicamente inteso dire da loro più antichi, quali referivano così medesimamente havea inteso dai loro antipassati, senza che mai habino inteso o saputo il contrario e così fu, è stato et è publico e notorio, publica voce e fama etc, etc.169

In rappresentanza delle deposizioni riscosse, vale la pena riportare quella del conte Giustiniano Masdoni, particolarmente emblematica per il suo carico d’attendibilità, dato che il ruolo amministrativo ricoperto all’interno della corte estense negli anni a ridosso della devoluzione lo rese «pratico di carte» e di questioni cancelleresche:

Intorno al contenuto di questo capitolo io dico che so d’aver sempre sentita nominar e chiamare generalmente da tutti la Signora Laura sudetta per la Signora Laura Eustochia Estense, o d’Este, e ho veduto nell’archivio di Montecchio un registro di gride e di grazie fatte a quella comunità mentre la detta Signora Laura governava quello Stato per l’Eccellentissimo Signor Don Alfonso suo figliolo minore, nel quale detta Signora Laura era chiamata col cognome d’Este, e madre e tutrice del predetto Signor Don Alfonso e questo cognome d’Este conviene dire che se non fosse stato acquistato da lei col sposalizio, ma fosse stata semplicemente amica del Signor Duca Alfonso primo, non le sarebbe stato permesso né tollerato dal Signor duca Ercole, né dal Signor Duca Alfonso secondo e mi ricordo anche d’aver letto de libri de’conti del Signor Duca Alfonso primo di spese fatte e vitto della detta Signora e che dell’anno 1527 e 28 salvo il più vero tempo alla detta Signora, era dato titolo di Magnifica Madonna, dove che dopo dall’anno 1534 in qua ho veduto ch’era chiamata in altri libri l’Illustrissima Signora Laura d’Este, i quali libri credo che sieno in Ferrara nella computisteria del già Signor Don Alfonso, dove anche ho veduto molti mandati fatti da detta Signora per diverse spese soscritte dalla detta Signora, cioè Laura Eustochia Estense o d’Este, da che si vede la differenza del tempo ch’era amica, e di quello che si può credere che fosse stata sposata e così io ho veduto, e dopo ch’io mi ricordo ho inteso pubblicamente dire da maggiori d’età di me, i quali diceano così medesimamente aver sentito dir da loro maggiori.170

In realtà, né Muratori, né altri prima e dopo di lui, visionarono la serie dei registri domestici conservati a Modena, da cui si evince chiaramente che Laura venne nominata «da Este» già a partire dal biennio 1527-1529,171 corrispondente – non a caso – alla felice stagione dei provvedimenti nobilitanti e infeudanti a suo favore: non più vincolato alla giuridica condicio sine

qua non del matrimonio, il dato non si presta a fraintendimenti di sorta e va adottato con tutto il suo

169 ASMo, CeS, b. 396, fascicolo 2046.VI/4, c. 1. 170 ASMo, CeS, b. 396, fascicolo 2046.VI/2, c. 105.

171 Chiarissimo è il titolo di uno dei registri dell’officio della Grassa della Camera Ducale, preposto all’approvvigionamento dei generi alimentari e di taluni beni di uso domestico per la corte: Libro della grassa della

carico di dirompente significanza che ci consente, tra l’altro, di ritornare ai due ritratti e osservarli sotto una nuova luce.

Se davvero vogliamo intendere i grandi effigiati radunati nel catalogo pittorico di Tiziano come una «sintesi cromatica di personalità e ‘status’»,172 allora la tela di Kreuzlingen non può rimanere allocata nell’alveo cronologico del 1523, perché a quella data Laura era ancora acerba nella personalità e lontana dallo stato di gratificazione e ascesa sociale che il suo amato protettore le avrebbe garantito di lì a pochi anni. Posticipare la realizzazione del dipinto dentro il triennio 1527- 1530 implica la sua sconnessione con il soggiorno ferrarese del cadorino nei primi mesi del 1523, allorquando – secondo la tradizione bibliografica – una volta consegnato Bacco e Arianna, egli avrebbe simultaneamente ideato e portato a compimento in guisa di pendants i ritratti della Dianti e del duca Alfonso. In realtà, sono proprio alcuni vuoti nel regesto privato del Vecellio a supportare la possibilità di posporre di qualche anno le sue incombenze ritrattistiche per la corte estense: sappiamo infatti che il 10 gennaio 1528 il pittore rientrò a Venezia dopo un sconosciuto soggiorno a Ferrara non altrimenti documentato (forse accorso nel 1527), mentre nel gennaio del 1529, prima di partire nuovamente per la capitale estense, l’artista si lamentò con l’ambasciatore ferrarese per l’esiguo compenso ricevuto a fronte di «tre cose», ossia opere di una certa rilevanza se la valutazione di ciascuna si aggirava sui cento ducati,173 lavorate per il duca durante la sua ultima sosta a corte, anch’essa non localizzata.

L’effigie di Alfonso d’Este, donata già nel 1533 al segretario imperiale Francisco de los Cobos, è da molti ritenuta perduta, anche se sull’autenticità della presunta copia postuma conservata al Metropolitan Museum of Art di New York (fig. 28) la critica ha fornito versioni discrepanti: se Berenson e Wethey non dubitavano sull’autografia del cadorino, Pallucchini e Valcanover cominciarono a considerarla più come una replica tardo cinquecentesca, mentre Freedberg e Hirst riconobbero la mano di Rubens dietro la riproduzione dell’originale tizianesco, duplicato invece da

172 E. CASTELNUOVO, Il significato del ritratto pittorico nella società, in Storia d’Italia. I documenti, V, Torino, Einaudi, 1973, pp. 1031-1094: 1063.

un’anonima mano seicentesca secondo Federico Zeri.174 Insomma una fortuna critica complessa, non dissimile da quella dell’effigie di Federico II Gonzaga (Prado, fig. 29), realizzata da Tiziano nel corso di una capatina mantovana avvenuta durante la sua prolungata permanenza a Ferrara, tra i mesi di gennaio e giugno del 1529.175 C’è un afflato comune che lega reciprocamente i ritratti di Kreuzlingen, di New York e del Prado, concepiti in due città geograficamente contigue, unite da rapporti parentali, dalle medesime ramificazioni fluviali e dallo stesso humus culturale; per affinità stilistiche e di contrapposti posturali, l’immagine di Federico non avrebbe potuto vedere la luce senza i modelli estensi: nel dipingere il giuppone dell’allora marchese di Mantova, il cadorino sembra aver intinto il pennello nello stesso bussolotto di colore utilizzato un paio d’anni prima per l’abito di Laura d’Este, così come la soluzione gestuale del braccio destro del nipote pare mutuata da quella dello zio, anche se dal punto di vista iconografico la significatività semiotica della minacciosa bocca da fuoco che sostiene la mano del duca di Ferrara non può minimamente competere con quella espressa dal mansueto cagnetto gonzaghesco.176

Alfonso I d’Este appartiene alla prosopografia epica dei grandi sovrani del Cinquecento europeo. Condottiero indefesso con capacità di supremazia bellica affidata all’efficienza delle moderne armi da fuoco da lui stesso progettate e fuse, fu l’espressione di quel governo della ragione unito al mestiere delle armi, non comune tra i modelli dei principi artisti in perenne fermento di attiva vitalità:177 il suo desiderio di possedere opere nuove si misurava sulla contemporaneità degli artefici più insigni, quali elementi gratificanti per l’otium del governante che contempla se stesso nelle belle forme dell’arte, intese come ornamento ideologico di un potere dinastico, di un’auctoritas da salvaguardare ad ogni costo. La perpetuità della progenie assediava

174 Vicende riassunte in F.ZERI, Italian Paintings. A Catalogue of the Collection of the Metropolitan Museum of Art.

Venetian School, New York, The Metropolitan Museum of Art, 1973, pp. 82-83.

175 C.HOPE, Titian, London, Jupiter books, 1980, p. 68; D.H.BODART, Tiziano e Federico II Gonzaga. Storia di un

rapporto di committenza, Roma, Bulzoni, 1998, pp. 51-54. L’ancoraggio del ritratto madrileno al 1529 viene ribadito

ulteriormente in P.LÜDEMANN, «Non è tanto simile a se stesso, quanto gli è quella pittura». Il Federico Gonzaga di

Tiziano (e altri ritratti), tra pratiche matrimoniali, rapporti d’amicizia e concetti poetici, in «Venezia Cinquecento», XXII, 43, 2012, pp. 45-59; P.HUMFREY, Venezia, Ferrara, Mantova: l’affermazione, in Tiziano, Catalogo della mostra

(Roma, marzo-giugno 2013), a cura di G.C.F. Villa, Cinisello Balsamo (Mi), Silvana, 2013, pp. 97-113: 111.

176 I ritratti di Federico Gonzaga e Alfonso d’Este hanno pressoché le medesime dimensioni: 125 x 99 l’uno, 127 x 98,4 l’altro.

morbosamente l’agire quotidiano del duca, fermo nella convinzione che la sua stirpe «doversi largamente distendere nell’avvenire per i molti figli e suoi e di Ercole suo figlio»:178 scremata dalle edulcorazioni liriche in chiave figurativa di cui fu oggetto, la giovane Dianti fu sostanzialmente l’ultima leva del fanatismo genealogico alfonsino, investita dell’unica funzione spettante alle mogli dei domini, vale a dire procreare il maggior numero possibile di «riserve»,179 sì da poter assicurare continuità di sangue e accrescimento del capitale familiare.

Le ricerche di quanti si sono occupati di prassi matrimoniali in uso presso le antiche corti signorili informano che, per quanto il legame fosse stabile, per quanto ne fossero nati figli riconosciuti come tali, la convivenza o la frequentazione di tipo coniugale erano pregiudizievoli all’onore della donna e della sua famiglia, finché non fossero state «solennizzate» attraverso un rito, che poteva anche essere modesto;180 nel nostro caso, quello tra Laura e Alfonso era uno di quei rapporti affettivi che la storiografia definisce morganatici, o «non convenienti» perché contratti con donne di semplice rango censuario o comunque di uno status nobiliare incomparabile con quello del marito. Su queste compagne si riversava il biasimo (e a volte il ludibrio) sociale, non senza l’appoggio delatorio interno a quelle cerchie cortigiane convinte che una domina non «heroica secondo le qualità convenienti a vera Principessa» non avrebbe potuto generare figlioli che fossero «l’effige della sua

[del principe] persona e del suo animo»:181 così pensava il ferrarese Giovanni Battista Nicolucci, detto il Pigna, fine segretario operante durante la signoria dell’ultimo duca di Ferrara, e chissà se con qualche riferimento inespresso alla vita della Dianti; non diversamente, alquanto più tardi Valeriano Castiglione nel trattato Statista regnante, accennando fugacemente alle vicende di Bianca Cappello e di Francesco de’ Medici, avrebbe scritto che «offende il suo popolo quel

178 G.GIRALDI, Commentario, cit., p. 146.

179 A.SPAGNOLETTI, Le donne nel sistema dinastico italiano, in Le donne Medici nel sistema europeo delle corti, XVI-

XVIII secolo, Atti del convegno internazionale (Firenze-San Domenico di Fiesole, 6-8 ottobre 2005), a cura di G. Calvi e R. Spinelli, tomo I, Firenze, Polistampa, 2008, pp. 13-34: 31.

180 S.SEIDEL MENCHI, Percorsi variegati, cit., p. 39.

181 G.B.PIGNA, Il Principe. Nel quale si descrive come debba esser il Principe eroico, sotto il cui governo un felice

regnante che acciecato dallo strale d’amore prende moglie a se inferiore di conditione. Pare a sudditi che si accresca la servilità loro, diventando vassalli di principessa indegna».182

Alfonso Id’Este seppe farsi abbacinare dalla fresca bellezza di Laura, ma – da sagace demoscopo e previdente uomo di Stato – le costruì attorno un’architettura di benevolenza e riguardi che consentì di trascorrere serenamente il resto della sua vita.

Prima di addentrarsi nel venticinquennio della «seconda età di Laura»,183 che arriva sino al 1559, sarà opportuno occuparsi di ulteriori vicende private, a partire dalla venuta alla luce dei due figlioli e dei loro primi passi tra gli ambienti di corte.

182 V.CASTIGLIONE, Statista regnante, Lyon 1628, p. 17; A.SPAGNOLETTI, Matrimoni e politiche dinastiche in Italia

tra gli anni Trenta e gli anni Cinquanta del Cinquecento, in L’Italia di Carlo V. Guerra, religione e politica nel primo

Cinquecento, Atti del convegno internazionale di studi (Roma, 5-7 aprile 2001), a cura di F. Cantù e M.A. Visceglia,

Roma, Viella, 2003, pp. 97-113: 110. 183 G. RIGHINI, Due donne, cit., p. 81.

CAPITOLO II

«Nato veramente di questo glorioso sangue»: il principe don Alfonso d’Este