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Il peso di quella relazione nella Ferrara del terzo decennio del Cinquecento non ebbe riflessi esclusivamente sulle trasposizioni pittoriche di natura mitologica,93 tanto che pure in qualche testimonianza devozionale figuravano reminescenze della «berrettara».

Ad esempio, nelle Famiglie celebri italiane, il conte Pompeo Litta fece riprodurre tra i ritratti estensi, mediante una raffinata cromolitografia (fig. 10),94 un dipinto della galleria del Belvedere di Vienna, già passato sotto il nome di Tiziano e poi attribuito agli inizi dell’Ottocento al Pordenone (oggi correttamente ricondotto a Moretto),95 dove santa Giustina da Padova (fig. 11) con il liocorno, adorata da un committente identificato con Alfonso d’Este,96 si sarebbe prestata a un improbabile criptoritratto della giovane Dianti, riconosciuta a sua volta da Adolfo Venturi nel volto della Vergine inginocchiata raffigurata nella Natività alla presenza di tre gentiluomini conservata alla Galleria Estense di Modena (fig. 12):97 nella pala, dipinta dai fratelli Dossi tra il 1534 e il 1536, lo storico dell’arte modenese ravvisò le fattezze di Alfonso I nel profilo di Giuseppe, e di Ercole II

93 Prudentemente, Alessandra Pattanaro ha messo in relazione un’ottima opera di Garofalo con le vicende private di Alfonso I d’Este e della Dianti. Si tratta di una tela risalente agli anni 1522-1524, oggi in collezione privata (fig. 13), che ritrae un elegante soggetto muliebre, precedentemente identificato dalla stessa studiosa come rappresentazione della Vanitas e oggi reinterpretato come Semiramide, la famosa regina assira confinata da Dante nell’Inferno tra le anime dei lussuriosi: in questo caso, la connotazione semantica del paragone Dianti-Semiramide sarebbe, dunque, di natura negativa, ma se si esaminano le virtù politiche del personaggio nel ruolo di sovrana, esaltate dallo stesso Alighieri nel De Monarchia e da Boccaccio nel De mulieribus claris, allora il rapporto tra le due figure femminili riscatta benevolmente la posizione cortigiana della Dianti: cfr. A. PATTANARO, Garofalo e la corte negli anni di

Alfonso I (1505-1534), in Dosso Dossi e la pittura a Ferrara negli anni del ducato di Alfonso I. Il Camerino delle

pitture, Atti del convegno (Padova, 9-11 maggio 2001), a cura di A. Pattanaro, in BALLARIN 2002-2007, VI (2007), pp. 77-101: 91; EAD., Per la Vanitas di Garofalo appartenuta a Vincenzo Camuccini: una proposta di rilettura come

Semiramide, in Cultura nell’età delle Legazioni, Atti del convegno (Ferrara, marzo 2003), a cura di F. Cazzola e R.

Varese, «Quaderni degli Annali dell’Università di Ferrara. Sezione Storia, 1», Firenze, 2005, pp. 589-607.

94 P.LITTA, Famiglie Celebri Italiane, Milano, 1819, III, tav. XIII; rifacendosi alla biografia gioviana, l’autore così riassunse il legame amoroso: «Essendo al duca nocivo il custodir la continenza, e non sembrandogli onesto il macchiar con stupri ed adulteri famiglie onorate, si provvide d’una concubina. Gli piacque Laura, perché gli parve molto generativa, e le diè il cognome d’Eustochia per indicare i pregi, co’ quali aveva guadagnato, e sapeva conservarsi l’affetto suo».

95 Di una sicura attribuzione al Pordenone, così come di un riconoscimento certo della coppia estense come soggetto, parlano G. BERTONI, Poeti e poesie, cit., p. 264 e C. RANSONNET, Sopra un dipinto di Alessandro Bonvicino

soprannominato il Moretto di Brescia, Brescia, Tipografia della Minerva, 1845, pp. 13-27.

96 L’opera non piacque a Roberto Longhi, che nel 1929 biasimò sarcasticamente «quel suo tratto confidenziale che avvicina di troppo il divoto alla Patrona, come fosse uno di quegli scapoloni che, sui quarant’anni, se ne stanno ancora appesi alle gonne materne»: R.LONGHI, Cose bresciane del Cinquecento, «L’arte», XX, 1917, p. 269.

in quello del devoto a mani giunte, liquidando la presenza delle altre due figure maschili stanti come generici ritratti di cortigiani.98

Più persuasivi invece i legami evocativi tra la Dianti e la Santa Paola dipinta su tavola da Dosso verso il 1524, oggi in collezione privata (fig. 14), un’opera che la storiografia ha sempre messo in correlazione semantica, seppur senza univoche interpretazioni, con la Santa Lucrezia dello stesso autore (fig. 15), custodita presso la collezione Kress della National Gallery di Washington. Secondo il più recente studio di Silvia Urbini,99 la reciproca coerenza stilistica induce a ritenere le due tavole come pendants, nonostante parte della critica ritenga tuttora non plausibile la concomitanza dei tempi esecutivi. Wilhelm Suida propose per primo di far risalire ad Alfonso I la commissione dell’icona di Lucrezia di Mérida (una santa spagnola non comune), in memoria della moglie Lucrezia Borgia, morta nel 1519.100 In base alla lettura iconografica della Urbini, il dipinto ospiterebbe elementi sufficienti per suffragare il termine post quem fornito dall’ipotesi di Suida e, conseguentemente, confutare la retrodatazione al 1514 proposta in occasione della mostra ferrarese su Dosso Dossi da Peter Humfrey,101 che mette in dubbio inoltre l’autenticità delle iscrizioni onomastiche incise sui parapetti. Il motivo che lega la rara immagine della santa di Mérida a un evento funebre e commemorativo è stato ravvisato nella statua femminile voltata di spalle, allocata nell’oscura nicchia a sinistra di Lucrezia: probabilmente una raffigurazione di «dolente» in procinto di muoversi verso il mondo dei defunti, assai frequente nell’arte classica e variamente riutilizzata nelle restituzioni iconografiche quattro-cinquecentesche.102

98 Sostanzialmente accolta anche in tempi recenti [vedi la scheda di Giovanna Paolozzi Strozzi in Nicolò dell’Abate.

Storie dipinte nella pittura del Cinquecento tra Modena e Fontainebleau, Catalogo della mostra (Modena, marzo- giugno 2005), a cura di S. Béguin e F. Piccinini, Cinisello Balsamo (Mi), Silvana, 2005, pp. 209-210], la tesi venturiana che riconosce nei ritratti maschili della pala le fattezze di alcuni Estensi viene respinta da Marcello Toffanello in Gli Este. Rinascimento e Barocco a Ferrara e Modena, Catalogo della mostra (Venaria Reale, marzo- luglio 2014), a cura di S. Casciu e M. Toffanello, Rimini, 2014, p. 140.

99 S.URBINI, Una nota sull’iconografia della Santa Lucrezia di Dosso Dossi, in L’età di Alfonso I e la pittura del

Dosso, Atti del convegno (Ferrara, dicembre 1998), a cura di A. Ghinato, Modena, Panini 2004, pp. 119-121.

100 W.SUIDA, Lucrezia Borgia in memoriam, «Gazette des Beaux-Arts», xxv, 968, 1949, avril, pp. 275-282. Nel 1952 E.K.WATERHOUSE, Paintings from Venice for Seventeenth-Century England: some records of a forgotten transaction,

«Italian Studies», VII, 1952, pp. 1-23, rese nota la Santa Paola (collezione privata), alludente a Laura Dianti.

101 P. HUMFREY, Due sante. Santa Lucrezia e Santa Paola, in Dosso Dossi 1998, pp. 181-184.

102 La fonte iconografica utilizzata da Dosso potrebbe essere un rilievo marmoreo del secondo secolo d. C. posseduto da Isabella d’Este, rappresentante Proserpina col capo velato davanti alla porta dell’Ade, tuttora conservato in Palazzo Ducale a Mantova, donato a Federico II Gonzaga nel 1524 da Adriano VI: S. URBINI, Una nota, cit. p. 119.

Se con la commissione della santa di Washington il duca volle commemorare il nome della moglie scomparsa, è verosimile che con la Santa Paola (di identiche dimensioni) egli volesse invocare una forma di protezione divina sulla giovane compagna,103 come indica sia l’evidente supplica SANCTA

PAVULA ORA P. ME incisa sul gradone lapideo, sia un dettaglio biografico della donna canonizzata

che potrebbe aver amplificato quell’affinità materna alla base del culto.

Patrona delle vedove, Paola nacque a Roma il 5 maggio del 347, durante il regno di Costantino II.104 In giovanissima età, a quindici anni, sposa Tossozio, un nobile dell’aristocrazia senatoria, a cui darà quattro figlie – Blesilla, Paolina, Eustochio e Ruffina – e un maschio, Tossozio. Rimasta vedova a trentadue anni, decide di impegnarsi sul fronte caritatevole e religioso, facendo del suo palazzo un luogo di riunioni di preghiera e di approfondimento della dottrina cristiana, cui partecipò anche il dalmata Girolamo. Nel 385, assieme alla figlia Eustochio, parte per la Terra Santa (mentre a Roma si diffondevano calunnie su un suo presunto rapporto amoroso con Girolamo) e una volta raggiunta Betlemme decise di utilizzare tutte le sue ricchezze per creare una casa destinata ai pellegrini e a due monasteri, maschile e femminile; nel primo lavorerà proprio Girolamo, impegnato nella traduzione delle Sacre Scritture, mentre nel secondo Paola istituì una comunità di monache, affidate poi a Eustochio, allieva prediletta e figlia spirituale del santo dalmata, con cui intrattenne una famosa corrispondenza in forma di lettere: per lei, egli scrisse l’Epistola XXII, definita il «più diffuso trattato sulla verginità»,105 e proprio nelle Epistole geronimiane, ben note a Ferrara, dal momento che erano state stampate con un ricco corredo di

103 Secondo Waterhouse, infatti, «così come la Santa Lucrezia allude alla bella moglie morta, la Santa Paula allude, in modo più indiretto, alla bella amante vivente»: E.K. WATERHOUSE, Two companion pictures by Dosso Dossi, «Burlington Magazine», XCIV, december 1952, p. 359.

104Per il prospetto biografico della santa, vedi la voce curata da Giuseppe Del Ton in Bibliotheca Sanctorum, X, Roma, Città Nuova editrice, 1968, pp. 123-136. In J. FAIR BESTOR, Titian’s portrait, cit., p. 655, si asserisce che Paola, Eustochio e Blesilla «came from a wealthy patrician family that claimed descent from the Greek king Agamemnon via an illustrious line of Roman ancestor».

illustrazioni in un volgarizzamento dedicato nel 1497 a Ercole d’Este,106 la saggezza, la castità e la virtù di Eustochio riscontrano un’evidente celebrazione.

Esclusivo, invece, risulta l’accostamento della figura di Laura con la biblica Maddalena, tradotto figurativamente non sulla superficie pittorica di un quadro da riporsi in qualche spazio ad uso privato della familia principis, ma sul verso di una valuta d’argento circolante con valore legale, ossia lo strumento più efficace alla diffusione pubblica di talune immagini significanti intrise di contenuto politico. Nessuno studio ha ipotizzato una trasposizione in chiave numismatica della relazione fra il duca e la Dianti. L’unica fonte documentaria, per ora, è l’inedito compendio di allegazioni raccolte attorno al quarto capitolo dell’examen summenzionato, intrapreso e condotto da Febo Denalio per conto del duca Cesare d’Este: l’oggetto delle deposizioni riguardava, infatti, l’allusione allegorica del «quarto di scudo» alfonsino, una moneta argentea recante nel diritto l’effigie del duca contornata dal titolo ALFONSUS DUX FERRARIAE III e sul rovescio «un Salvatore

con la Madalena alli santissimi piedi col detto dell’evanzelio intorno FIDES TUA TE SALVAM FECIT».107

La consonanza delle venticinque deposizioni può essere ben rappresentata da quella rilasciata il 7 settembre 1615 dal ferrarese Fulvio Brondoli, che così recita:

Io ho sentito dir molte volte che’l Signor Duca Alfonso primo facea stampar diverse monete e sopra di esse i moti e l’imprese secondo l’occasioni che se gli presentavano, come se ne vedono molte e della sorte di questa, che mi si mostra n’ho veduto dell’altre e può esser facilmente che’l detto Signor Duca Alfonso con questa stessa moneta, la qual ha il Salvatore ch’è alla tavola e la Maddalena col vase a piedi, come si vede chiaramente, volesse riferir il fatto della Signora Laura d’Este che avendo peccato con lui prima che la sposasse, et avendo conosciuta la sua fede, l’avesse sposata e poi fatta battere questa moneta, con mostrare che la sua fedeltà l’avea levata dal peccato mediante il matrimonio, e tengo certo ch’al giudizio de più dotti di me sarà sempre così interpretato.108

Addotta più come prova certificante l’avvenuto matrimonio tra l’Estense e l’ex popolana, l’asserzione restituisce una suggestiva equivalenza dell’allegorica giustapposizione delle figure di

106 G.GRUYER, L’art ferrarais a l’époque des princes d’Este, II, Paris, Librairie Plon, 1897, pp. 538-553; ID., Les livres

publiés a Ferrare avec des gravures sur bois, Paris, Gazette des beaux-arts, 1889, pp. 39-56: tra queste xilografie compare anche l’immagine di Eustochio in devoto colloquio con san Gerolamo.

107 Vedi supra, nota 49.

Laura-Maddalena e Alfonso-Gesù, confermando in tal modo la prassi iconografica della monetazione durante la signoria di Alfonso I, il quale – scostandosi dagli usi del padre Ercole, ispirati quasi esclusivamente al repertorio mitologico offerto dalle imprese dell’omonimo eroe –,109 predilige un indirizzo inventivo meno immaginifico e più politicamente propagandistico o, meglio, più ecumenico, dato che gran parte delle raffigurazioni coniate sono da considerarsi riadattamenti attualizzati tratti dal Vecchio e Nuovo Testamento.

Alle prese con le mire espansionistiche di tre pontefici consecutivi (Giulio II, Leone X e Clemente VII), il terzo duca di Ferrara seppe preservare i destini del suo Stato anche con un’accorta politica delle immagini, capaci di veicolare tra i sudditi messaggi improntati all’esaltazione della tenacia, dell’intrepidezza e dell’audacia estense dinanzi al nemico, soprattutto se nascosto sotto i panni del vicario di Cristo: la Bibbia diventa, dunque, per Alfonso fonte inesauribile di precetti e paradigmi da utilizzare in guisa di armi silenti che, grazie ad un fine gioco antifrastico, avrebbero smascherato agli occhi del mondo volto e natura del vero aggressore.

Que sunt dei deo e De manu leonis sono, ad esempio, due dei più celebri motti antipapali utilizzati dal duca non solo in campo numismatico.110 Il primo (fig. 16), relativo al celeberrimo tributo a Cesare raccontato dall’apostolo Matteo (Matteo, 22, 15-22), campeggiava letteralmente sui rovesci dei duplum ducati d’oro battuti dalla Zecca ferrarese nella seconda emissione (1509), così come vibrante era il suo ideale richiamo nel Cristo della Moneta della Gemäldegalerie di Dresda (fig. 17), dipinto nel 1516 da Tiziano in guisa di orgoglioso manifesto delle virtù diplomatiche di Alfonso, il quale – storicizzando il passo biblico «dare a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio» pronunziato dal Salvatore al fariseo – intendeva proclamare la sua firmitas dinanzi alle violente ingerenze secolari dei pontefici su Ferrara; tale fu il carico di sofferenze arrecate che appresa la notizia della scomparsa di Leone X (1° dicembre 1521), l’Estense

109L.BELLESIA, Le monete di Ferrara: periodo comunale ed estense, Serravalle, Nomisma, 2000, p. 151.

110 Tra gli altri, ricordiamo Ex ore fortis dulcedo (Libro dei Giudici, 13-16), Invocasti me liberavi te (Isaia, 36-39) e

si rallegrò così in sul fatto […] e fece nientedimanco battere una moneta d’argento, nella quale era la immagine d’un Leone, che stava a bocca aperta sopra a uno agnello, con lettere, che dicevano: Agnus ex ore

Leonis ereptus. Ma la stampa di questa moneta disfece egli poi prestamente, parendogli che l’argomento, et

il suggetto di quella, fusse cosa da arrecargli biasimo et invidia».111

Con arguzia sinonimica, il De manu leonis mutuato dal passo del Primo libro di Samuele (17, 37) trattante le imprese di Davide contro Golia, offriva al duca la possibilità di identificarsi con il giovane pastore biblico intento a salvare la vita di una preda (Ferrara) dalle fauci mortali del felino eponimo (fig. 18).

Vista l’importanza del canale trasmissivo rappresentato dalla monetazione, risulta quindi di grande interesse la possibilità che Alfonso abbia incluso nella strategia comunicativa anche messaggi attinenti alla sua sfera privata, sempre veicolati con lo strumento evangelico. Grazie agli studi numismatici di Bellesia, sappiamo che la Zecca di Ferrara almeno in due occasioni coniò esemplari monetali i cui rovesci erano incisi con la famosa sentenza di redenzione di Gesù, proferita in casa di Simone il fariseo nei confronti della Maddalena peccatrice e penitente,112 raffigurata inginocchiata nel medesimo campo nell’atto di ungere i piedi del Salvatore benedicente, seduto a tavola: nell’emissione del 1522, con la battitura dei soldi argentei, e in quelle successive al 1531, quando si cominciarono a coniare i quarti dei primi scudi d’oro del sole ferraresi, ispirati all’écu au

soleil francese, e disegnati – a quanto pare – da Battista Dossi.

111 P.GIOVIO, Vita di Alfonso d’Este, cit., p. 116. Ancor più gustosi risultano i particolari narrati da un altro attendibile cronista: «Quando il coriero diede la nova e le letere al duca, era in letto di notte e pisava, e donò al coriero il bocale da pisare, che era d’argento, e disse che non ne bisogna più medici siamo guariti “piglia per adesso questo boccale poi torna da me”, al quale donò poi molti scudi e vestimenti», inZERBINATI, Chroniche di Ferrara, cit., p. 152.

112 L’evangelista Luca (7, 36.50) racconta che un fariseo invitò Gesù nella sua casa: «una donna che nella città era pubblica peccatrice, saputo che egli era a tavola nella casa di Simone il fariseo, vi andò portando un vaso di alabastro pieno di profumo. Si pose piangendo ai piedi di Gesù, bagnandoli con i capelli del suo capo. Li baciava e li ungeva di profumo. Il fariseo, che lo aveva invitato, vedendo questo, pensava tra sé: “Se costui fosse profeta, saprebbe chi è questa donna che lo tocca, di che razza: una peccatrice!”. Ma Gesù, dirigendogli la parola, disse: “Simone, ho una cosa da dirti”. Ed egli: “Maestro, di’ pure”, rispose. Un creditore aveva due debitori, uno gli doveva 500 denari e l’altro 50. Non avendo essi con che pagare, condonò il debito ad ambedue. Quale dei due lo amerà di più?”. Simone rispose: “Quello, io penso, a cui ha condonato di più”. Gesù soggiunse: “Hai giudicato bene”. Poi, rivolto verso la donna, disse a Simone: “Vedi tu questa donna? Io sono entrato in casa tua e tu non mi hai dato acqua per i piedi; questa, invece, ha bagnato i miei piedi con le lacrime e li ha asciugati con i suoi capelli. Tu non mi hai dato il bacio e lei, da quando sono entrato, non ha cessato di baciare i miei piedi; tu non hai unto di olio il mio capo e lei ha unto i miei piedi di profumo. Perciò io dico: i suoi numerosi peccati sono stati perdonati, perché essa ha amato molto; colui, invece, al quale poco poco è perdonato, poco ama”. Disse poi a lei: “Sono perdonati i tuoi peccati”. Allora i convitati incominciarono a dire fra di loro: “Chi è costui che rimette anche i peccati?”. Ma egli disse alla dona: “La tua fede ti ha salvata; va’ in pace!”».

Non è dato sapere a quale delle due uscite appartenesse l’esemplare mostrato nell’istruttoria del 1615-1616, dato che i pezzi ancora a nostra disposizione presentano alcune varianti formali nei rovesci: nel primo caso (fig. 19), il motto Fides tua te salvam fecit contorna tutto il campo occupato da un Cristo seduto a sinistra, poggiante il gomito sinistro su un tavolo e benedicente con la destra la peccatrice genuflessa ai suoi piedi, mentre nel secondo esempio (fig. 20) l’utilizzo di un tondello più ampio ha comportato una composizione più armonica, grazie alle maggiori dimensioni delle figure, allo spostamento del tavolo alla destra del Cristo e all’utilizzo della leggenda Fides tua

salvam te feci, leggermente difforme sul piano semantico in quanto l’accusativo femminile salvam precede e non segue il vocativo te e il verbo facio è coniugato al perfetto in prima persona, anziché in terza (oltretutto feci è collocato in esergo). In entrambi i casi, Bellesia fornisce una chiave di lettura politica del soggetto, interpretato come allegoria esistenziale del duca estense, il quale «pur essendo un peccatore ha avuto una incrollabile fede per cui Gesù lo aiuterà e lo salverà a dispetto del fariseo, certamente il pontefice, che ha aggredito contravvenendo al principio della carità cristiana».113

Se Rosenberg ravvisava in quell’atto di umiltà figurato un’allusione politica al gesto di vassallatica sottomissione compiuto nel settembre del 1522, per conto del padre, dal giovane principe Ercole II d’Este ai piedi del più benevolo Adriano VI,114 invero Ravegnani Morosini vi leggeva un chiaro riferimento alla conversione nel segno della morigeratezza dell’intemperante condotta giovanile di Lucrezia Borgia,115 redenta grazie alle nozze con Alfonso; quest’ultima ipotesi, inaccettabile perché fondata su elementi biografici pseudo-storici ormai desueti, potrebbe comunque rimanere valida se allocata nel campo degli amori potenzialmente tragici consegnatici dalla tradizione letteraria occidentale, tra cui l’amor de lonh, l’amore «“da lontano” della penitente Maddalena per

113 L. BELLESIA, Le monete, cit, p. 175

114 C.M.ROSENBERG, Money Talks: numismatic propaganda under Alfonso I d’Este, in L’età di Alfonso, cit., pp. 145- 164: 155. L’8 luglio 1522 il fiammingo Adriano VI sottoscrisse un breve con cui si sospendeva l’interdetto su Ferrara lanciato nell’ottobre dell’anno precedente da Leone X: il duca rese grazie inviando il figlio Ercole alla volta di Roma «per conseguire l’absolutione della scomunica e dell’interdetto de Ferrara, et innovatione et reintegratione del stato», cfr. ZERBINATI, Chroniche, cit., p. 155.

115 M. RAVEGNANI MOROSINI, Signorie e principati. Monete italiane con ritratto, 1450-1796, I, Rimini, Maggioli, 1984, p. 143.

il Cristo, impossibile quanto quello di Tristano per Isotta»:116 il rimando troverebbe ragioni di plausibilità qualora lo si adattasse al caso di Laura Dianti, come parrebbero suggerire i riscontri dei venticinque testimoni, concordi nel riconoscere in quella moneta la simbolizzazione di un’autentica