Insomma, fiorisce e prospera quella che Righini definì la «prima età» di Laura, compresa a suo dire tra il 1521 e il 1534.66 Un tredicennio trascorso sotto il regno di Venere, avviato dall’astro aurorale di Eros e conclusosi con la discesa di Imeneo, poco prima che la mano mortifera della parca Atropo recidesse l’«humana vita» del duca Alfonso.
Uno dei più evidenti limiti recriminabili alla storiografia estense occupatasi di questo innamoramento è quello di averlo caricato semanticamente di troppa unicità, di averlo ridotto a semplice microstoria circoscritta entro le possenti mura urbiche, senza possibilità di connetterla e confrontarla con certe consuetudini comportamentali raccontate tra le righe di epistolari e di memoriali, più o meno segreti, circolanti nella policentrica Italia cortigiana del tempo.
Difficile, ad esempio, ignorare piccole tangenze biografiche nella serie di ricordi scritti lasciatici dall’umanista Vincenzo Colli, detto il Calmeta (1460-1508), riguardanti le giovani protagoniste di altre due famose «amorose imprese», ambientate nella Milano sforzesca e nella Roma borgiana:
Cecilia da Gallerani Milanese, avengaché nata di nobil sangue fosse, nientedimeno i parenti, non avendo il modo di maritarla come alla lor condizione conveniva, per non aver da sostentarla come secondo la condizion sua richiedeva, piccolina la messero in un monastero, dove ella crescendo in tempo e in virtute, pervenne la fama delle sue bellezze e maniere sue all’orecchie di Ludovico Sforza, il quale essendo senza mogliere né ancor assunto al Ducato di Milano, s’innamorò della fama di questa giovanetta; e, operando sufficienti mezzi per adempire il suo desiderio, seppe tramar si bene co’parenti e con gli altri che ne avevano cura che venne a godere del suo amore, e procrearne prole, tenendola con tutte quelle circostanze e onori – finchè pigliò donna – che non a femina, ma a mogliere sariano state convenienti.
[…]
Giulia Farnese, nata di sangue generoso e di parenti che delle mondane ricchezze abondavano, fu data per consorte, essendo sul fiore della adolescenza, ad un giovanetto a lei pari in sangue, ricchezza et età, chiamato Orsino degli Orsini. Costei essendo di tanta suprema bellezza che ogni un che la vedeva stimava in lei essere qualche parte di divinità, come dicono gli autori antichi di Faustina, fu tra gli altri disiderata da Rodorico Borgia […].67
Laura Dianti e Alfonso d’Este, Cecilia Gallerani e Ludovico il Moro, Giulia Farnese e Alessandro VI; e ancora, Simonetta da Castelvecchio e Lorenzo II de’ Medici (o Giulio de’ Medici, futuro Clemente VII), Isabella Boschetti e Federico Gonzaga, Camilla Martelli e Cosimo de’ Medici,
66 G. RIGHINI, Due donne, cit., p. 81.
67 A. BALLARIN, Nota sul Ritratto di Cecilia Gallerani, in ID., Leonardo a Milano. Problemi di leonardismo milanese
Bianca Cappello e Francesco de’ Medici, Catherine Howard ed Enrico VIII, Anne de Pisseleu e Francesco I di Francia: l’elenco potrebbe allungarsi con altri nominativi, ma ciò che appare evidente è il comun denominatore di queste coppie, ossia l’idillio sentimentale di un ormai maturo
dominus concupiscente, spesso vedovo, verso un’avvenente fanciulla in età puberale proveniente da ceti sociali bassi o da famiglie nobiliari immiserite, o comunque di fresco patriziato bisognoso di ulteriori ‘agganci’ per divenire davvero rampante; cioè donne inscritte e determinate negli angusti confini giuridici e politici del sistema di potere familiare e dinastico dell’antico regime, figlie acefale tanto della storiografia sessista dell’Ottocento, quanto della storiografia vittimista del primo femminismo novecentesco: avendo fatto uso per decenni di categorie ermeneutiche moraleggianti, entrambi i metodi di studio hanno comunque contribuito ad accreditarne un’immagine fuorviata e spesso negativa, privata di identità politica e spessore culturale.
Una delle ragioni che spinsero qualche tempo fa Joan Kelly-Gadol a chiedersi se fosse corretto parlare per quelle donne «vicino al potere» di un autonomo Rinascimento «al femminile»,68 andrebbe ricercata anche tra le responsabilità degli storici dell’arte, i quali – non a caso – è solo da poco più di vent’anni che hanno storiograficamente accettato la voce matronage, coniata per porre in evidenza il versante muliebre del patronage artistico rinascimentale;69 antecedentemente, nelle letture iconologiche di opere d’arte dove fosse stato presente un certo protagonismo femminile era facile imbattersi in visioni patrilineari restituite da una semiologia restia ad abbandonare certi meccanismi d’associazioni desuete, riduttive e fuorvianti. Rimanendo nel campo tematico delle
maîtresse, pensiamo all’esegesi erotizzante lievitata attorno alla Cecilia Gallerani (o ancor più alla
Gioconda) di Leonardo,70 o alla conturbante Velata e alla discinta Fornarina, che da quattrocento anni alimentano «la leggenda sorta intorno all’identità degli amori di Raffaello, senza però arrivare a nessun risultato concreto e anzi confondendo la loro interpretazione con l’ingerenza di esigenze
68 J.KELLY-GADOL, Did women have a Renaissance?, in Becoming visible: women in european history, edited by R.
Bridenthal and C. Koontz, Boston, 1977, pp. 139-164.
69 Al riguardo, si rimanda al compendio bibliografico presentato da Sara Matthews-Greco e Gabriella Zarri nella premessa di Committenza artistica femminile, cit., specie pp. 291-293.
via via mutevoli legate alla moralità e libertà delle epoche storiche»;71 al pari, non meno ottenebrante fu l’odore di meretricio affumato di spezie levantine di cui erano (e sono) pregni i tanti scritti sui cosiddetti «ritratti di cortigiane» nella pittura veneziana dei primi decenni del XVI secolo, secondo l’invalsa tradizione di riconoscere come «professioniste dell’amore mercenario tutte, o quasi, le donne dipinte, soprattutto, ma non soltanto, se poco vestite».72
Credo non sia marginale sottolineare una significativa concomitanza, cioè che proprio in quella «prima età» di Laura videro la luce testi fondamentali per la storia della letteratura amorosa, quali il
Libro de natura de amore di Mario Equicola (1525), il Libro del Cortegiano di Baldassarre Castiglione (1528) e i Dialoghi d’Amore di Leone Ebreo, nel 1535:73 elevando il discorso d’amore a nuovo genere letterario, queste opere (assieme ai precedenti Asolani di Pietro Bembo, letti come un’institutio erotica generale) veicolarono tematiche e suggestioni impattanti sulla cultura figurativa settentrionale di primo Cinquecento, a tal punto che le proliferanti «Flore», «Belle», «Ninfe», «Maritate» e «Cortigiane» possono considerarsi figlie di un’esegesi costruita sulla sublimazione neoplatonica.74 Di conseguenza, anche lo slancio del duca Alfonso per la sua diletta non scampò al filtraggio di una certa tradizione iconologica, particolarmente attiva in ambito estense dato che qui si mosse e operò per anni Tiziano, uno dei massimi interpreti della letteraria sensualità femminile equicoliana e bembesca: vista la sua domesticità con la corte ferrarese, il pittore cadorino si prestava a divenire tra i migliori e più attendibili testimoni di una liaison sempre meno clandestina e, in quanto tale, necessitante anche di forme di consacrazione visiva.
71 A.FORCELLINO, Raffaello. Una vita felice, Roma-Bari, Laterza, 2009, p. 221.
72 A.GENTILI, Amore e amorose persone: tra miti ovidiani, allegorie musicali, celebrazioni matrimoniali, in Tiziano
Vecellio. Amor Sacro e Amor Profano, Catalogo della mostra (Roma, marzo-maggio 1995), a cura di M.G. Bernardini
[d’ora in poi contratto in Tiziano 1995], Milano, Electa 1995, pp. 82-105: 95: ciò dipende, ribadisce lo studioso, «dalla più assoluta ignoranza di campi statutari della storia dell’arte quali l’analisi iconologica e semiologica – poiché non considera, non legge, non vede simboli e segni – e lo studio della committenza, poiché propone, implicitamente o esplicitamente, l’allucinante ipotesi che la meretrice o il suo cliente siano interessati alla pittura e spendano nel ritratto i denari di parecchi incontri d’alcova» (Ivi, p. 96).
73 A.QUONDAM, Sull’orlo della bella fontana. Tipologie del discorso amoroso nel primo Cinquecento, in Tiziano 1995, pp. 65-81; L.RICCI,L’amore a corte. Gli Asolani di Pietro Bembo e il Libro de natura de amore di Mario Equicola, in
Dosso Dossi e la pittura a Ferrara negli anni del ducato di Alfonso I. Il Camerino delle pitture, Atti del convegno (Padova, 9-11 maggio 2001), a cura di A. Pattanaro, in BALLARIN 2002-2007, VI (2007), pp. 245-259.
74 Sulla stagione delle «Flore» e delle «Ninfe» intese come vaporose allegorie di bellezza, vedi E.M.DAL POZZOLO, Il
lauro di Laura e delle ‘maritate veneziane’, «Mitteilungen des Kunsthistorischen Institut in Florenz», XXXVII, 1993, heft 2/3, pp. 257-291: 279, riedito con integrazioni in ID., Colori d’amore. Parole, gesti e carezze nella pittura
Se Stefano Ticozzi nel 1817 riconosceva nell’odierna Giovane donna allo specchio (Parigi, Louvre, fig. 1) un’allegoria della vanità con le fattezze di Laura Dianti, vezzeggiantesi al cospetto del suo presunto Alfonso,75 meno di un secolo dopo vi fu chi propose di individuare nel duca estense il committente di Amor Sacro e Profano (Roma, Galleria Borghese, fig. 2), nonostante la letteratura l’avesse già catalogato come quadro cerimoniale realizzato dal cadorino per omaggiare le nozze di Niccolò Aurelio e Laura Bagarotto, celebrate il 17 maggio 1514: invero, a giudizio di Italo Mario Palmarini il sarcofago avrebbe rappresentato la fonte d’Ardenna, la magica sorgente alabastrina costruita da Merlino affinché il cavaliere Tristano vi si abbeverasse per guarire dall’amore per la regina Isotta (Orlando innamorato, I, 3, 33), sorvegliata non da Virtus e Voluptas come oggi correntemente inteso (a simbolo della conciliazione della castità e dell’amore dei sensi nell’ambito del matrimonio), ma da due donne gemelle, l'una e l'altra ritratte col volto della Dianti.76 Da decenni, ormai, entrambe le attribuzioni non godono d’alcun seguito, a differenza di altre, fondate su elementi induttivi più persuasivi.
Secondo un recente contributo di Vincenzo Farinella,77 l’alta temperatura della passione sentimentale del duca potrebbe essersi infiltrata addirittura nei celebri camerini della via Coperta, spazio esclusivo congiungente il palazzo di Corte al Castel Vecchio, eletto da Alfonso quale sede
75 S.TICOZZI, Vita de’ pittori Vecelli di Cadore, Milano, presso Antonio Fortunato Stella, 1817, pp. 58-63. Il ritratto è concordemente ritenuto dalla critica come opera giovanile del cadorino, risalente circa al 1515. L’ipotesi che il quadro sublimasse la passione del duca estense per Laura perdurava anche nel secolo successivo, come ribadito in G.BERTONI,
Poeti e poesie del Medio Evo e del Rinascimento, Modena, Orlandini, 1922, p. 264. Vi fu, invece, chi riconobbe i ritratti di altri due celebri amanti, Federico Gonzaga e Isabella Boschetti: L.HOURTICQ, La jeunesse de Titien, Parigi,
1919, pp. 220-226. Per una lettura semiologica esaustiva dell’esemplare parigino, si rimanda ora a DAL POZZOLO,
Colori d’amore, cit., pp 87-110. Da notare, infine, che alla National Gallery di Washington è conservata una versione più tarda della tela del Louvre (fig. 3), realizzata da un seguace o da un imitatore di Tiziano: curiosamente, ancora oggi viene esposta come Allegory (Possibly Alfonso d’Este and Laura Dianti) tra i works on view nel catalogo on line del museo (www.nga.gov/content/ngaweb/Collection/art-object-page.400.html), oltre che in F.R.SHAPLEY, Catalogue of
the Italian Paintings in the National Gallery of Art, Washington, 1979, pp. 498-500.
76 I.M.PALMARINI, “Amor Sacro e Amore Profano” o “La fonte d’Ardenna”, «Nuova Antologia», 1902, p. 410;M.G. BERNARDINI, L’«Amor Sacro e Profano» nella storia della critica, in Tiziano 1995, pp. 35-51: 41. Anche per Venturi
l’opera sarebbe stata eseguita per il duca Alfonso in rapporto alla commissione dell’enigmatico «bagno» richiesto a Tiziano: A. VENTURI, Storia dell’arte italiana. La pittura del Cinquecento, IX, 3, Milano, Hoepli, 1928, p. 220.
77 V. FARINELLA, Amore, morte e rinascita: Alfonso d’Este e Laura Dianti in due dipinti di Dosso e Tiziano, in
Outbound. Fuori dai luoghi comuni. Nove giovani artisti a confronto con la Villa Medicea di Cerreto Guidi, Catalogo
delle proprie raccolte d’arte, in primis i nivei rilievi alabastrini di Antonio Lombardo e le diverse «fabule» bacchiche di Dosso, di Bellini e del Vecellio.
Nel concentrare l’attenzione sull’impaginato semantico di due tele del cadorino – Arrivo di Bacco
sull’isola di Andros (Madrid, Prado, fig. 4) e soprattutto Bacco e Arianna (Londra, National Gallery, fig. 5) –, lo studioso si interroga sul ruolo significante del protagonismo di Arianna, mortale fanciulla tradita doppiamente nell’amore, prima da un mortale (Teseo) e poi da un dio (Dioniso), ma alla fine elevata tra le divinità dell’Olimpo, col nome di Libera. All’inizio del primo programma iconografico del camerino, nell’ottobre del 1511, la tela londinese poteva costituire, all’interno di un’articolata esaltazione di Bacco (colui che rende liberi e felici i propri devoti), un intuibile omaggio cortigiano alla sua seconda consorte, Lucrezia Borgia; ma nel gennaio del 1523, quando il quadro fu portato a Ferrara da Tiziano e montato alle pareti della stanza, tutto era cambiato: Lucrezia era morta da quattro anni e Alfonso aveva trovato nella giovane Dianti una nuova passione, trascinante al punto di essere allegorizzata con la storia di Arianna, la fanciulla cretese che, credendo ostinatamente nell’amore coniugale, si era meritata le nozze con un dio e addirittura un destino di immortalità. Questo mitologico paragone intriso di rimandi di bruciante attualità, incarnando le aspirazioni di ascesa sociale di una bellissima adolescente figlia di un semplice berrettaio, non fu l’unico.
Esistono infatti alcuni dipinti commissionati dal duca tra il 1524 e il 1525 a Dosso Dossi, convincentemente ricollegati alla vicenda sentimentale che stiamo rievocando, in quanto alludenti all’amore tra una divinità maschile e una ninfa, oppure una bellissima mortale, per via della presenza dell’alloro (il lauro, criptogramma del nome Laura): Psiche abbandonata da Amore, oggi a Bologna (Collezione UniCredit, fig. 6),78 e l’Apollo e Dafne della Galleria Borghese (fig. 7), dove – al suono di una lira da braccio – il dio greco canta il doloroso lamento per la perdita di Dafne, sfuggitagli nell’inseguimento grazie all’intervento del padre Peneo che la trasformò in un
78 V. scheda di L.CIAMMITTI, Psiche abbandonata da Amore, in Gli Este a Ferrara. Una corte nel Rinascimento, Catalogo della mostra (Ferrara, marzo-giugno 2004), a cura di J. Bentini, Cinisello Balsamo (Mi), Silvana, 2004, p. 408, n. 153.
albero d’alloro.79 Dopo che Vittoria Romani propose per prima di intravedere un riferimento alla relazione di Alfonso con Laura Dianti nella tela bolognese,80 riconosciuta però come Risveglio di
Venere ad opera di Cupido (scena narrata in molti poemi matrimoniali o epitalamici dell’antichità), si deve a Farinella lo sforzo iconologico più esaustivo, che lo portò a riconnettere il soggetto alla favola di Amore e Psiche narrata da Apuleio nell’Asino d’oro: il gesto di disperazione di Psiche alluderebbe all’istante in cui la fanciulla, infranto il divieto di incontrare il dio solo nell’oscurità, viene da lui abbandonata dopo un aspro rimprovero; l’albero di mele, simbolo dell’amore, e il cespuglio di alloro confermerebbero l’allusione a Laura, per la quale fu probabilmente commissionato il quadro.81
In entrambi i miti le eroine devono superare varie difficili prove per meritare l’amore del nume, e solo dopo un momento drammatico che le vede morire (e così rinunciare simbolicamente alla loro natura terrena), possono meritarsi l’apoteosi finale: la sublimazione nell’alloro nel caso di Apollo e Dafne, il matrimonio celeste per Psiche e Cupido, con la divinizzazione della bellissima mortale. Due episodi classici dove l’elemento maschile simbolizza l’essenza divina, mentre quello femminile deve arretrare di fronte alla potenza della passione, trasformandosi nella pianta sacra ad Apollo oppure cedendo di fronte alla potenza indomabile di Amore.
Accanto alle ricercate elaborazioni pittoriche di Dosso e Tiziano, anche Michelangelo pare abbia contribuito a testificare figurativamente la concupiscenza di Alfonso I, prossimo alla senilità ma ancor più ringagliardito dalla nascita di quelle due creature che avrebbero prolungato il ramo della
79 Non sarà superfluo sottolineare la concordanza metonimica tra Laura e laurum, l’alloro, pianta sacra ad Apollo, simbolo di sapienza e di gloria, come il suo corrispondente greco dáphnē; cfr. da ultimo A.BLIZNUKOV, in In the light
of Apollo. Italian Renaissance and Greece, Catalogo della mostra (Atene, dicembre 2003-marzo 2004), a cura di M.
Gregori, Atene-Cinisello Balsamo (Mi), The Hellenic Culture Organization-Silvana, 2003, p. 536, n. XVI.3; inoltre, vedasi la scheda curata da Vincenzo Farinella in Dosso Dossi. Rinascimenti eccentrici al Castello del Buonconsiglio, Catalogo della mostra (Trento, luglio-novembre 2014), a cura di V. Farinella et alii, Cinisello Balsamo (Mi), Silvana, 2014, p. 180.
80 V.ROMANI, Il Risveglio di Venere di Dosso Dossi, in A.BALLARIN-V.ROMANI, Dosso Dossi e le favole antiche. Il
«Risveglio di Venere», Cittadella (Pd), Rolo Banca, 1999, pp. 47-63; la tela compare con lo stesso titolo nella recente scheda curata da A. CECCHI, Il risveglio di Venere, in Il Sogno nel Rinascimento, Catalogo della mostra (Firenze,
maggio-settembre 2013), a cura di C. Rabbi Bernard et alii, Livorno, Sillabe, p. 220, n. 73.
81 V.FARINELLA, L’Eneide di Dosso per Alfonso I d’Este (ed altre mitologie). Un esercizio di filologia ricostruttiva, in
Dosso Dossi e la pittura a Ferrara negli anni del ducato di Alfonso I. Il Camerino delle pitture, Atti del convegno (Padova, 9-11 maggio 2001), a cura di A. Pattanaro, in BALLARIN 2002-2007, VI (2007), pp. 299-342: 302. Da ultimo,
discendenza e, con essa, i sogni di una gloria imperitura. Coincide infatti con uno dei suoi tre soggiorni a Ferrara, nel corso del 1529,82 la commissione della Leda «che abbraccia il Cigno, e Castore e Polluce che uscivano dall’uovo»,83 una tavola a tempera realizzata in pochi mesi e quasi pronta per essere consegnata al duca nell’ottobre del 1530 se non fosse sopraggiunto l’incidente diplomatico che ne deviò la destinazione topografica: narra Vasari (sulla scorta di Condivi) che l’emissario pisano Jacopo Lachi, incaricato da Alfonso di ritirare l’opera, una volta raggiunta la bottega del Buonarroti abbia sprezzantemente definito «poca cosa» il soggetto raffigurato, provocando quell’insanabile risentimento alla base sia della rottura dei rapporti da parte dell’artista con la corte ferrarese, sia della decisione di donare il quadro al proprio garzone, Antonio Mini, «che venutogli fantasia d’andarsene in Francia, gli portò seco, e la Leda la vendè al re Francesco per via di mercanti».84 In che termini, dunque, il capolavoro michelangiolesco (fatto bruciare tra il 1642 e 1643 dalla regina di Francia, Anna d’Austria) è da mettersi in relazione con la vicenda amorosa dell’Estense?
Il senso di celebrazione dinastica perseguito nelle commissioni di Alfonso I induce a pensare che non poteva non caricarsi di risonanze particolari pure il mito di Leda, deità anfibia sospesa tra gli arcani della ierogamia e i piaceri dell’alcova. Figlia di Thestios, re dell’Etolia, e di Euritemide, la giovane sposa di Tindareo, re di Sparta spodestato da suo fratello e accolto a corte, un giorno si bagnò nelle acque del fiume Eurota; vedendola, Giove subito se ne invaghì e «scendendo a volo, in forma di cigno» la fece distendere sotto le sue ali («fecit olorinis Ledam recubare sub alis», dice Ovidio nelle Metamorfosi, VI, 109), unendosi carnalmente a lei:85 quella ancestrale «ierogamia animalesca» fecondò due uova, ognuna racchiudente una coppia di creature deiformi, ossia i
82 A. BARGELLESI SEVERI, Michelangelo a Ferrara, estratto da «Atti e Memorie della Deputazione Provinciale Ferrarese di Storia Patria», s. III, 1967, Rovigo, STER, 1967.
83 V.FARINELLA, “Non si poteva satiare di guardare quelle figure”: Michelangelo e Alfonso I d’Este, in Michelangelo.
La “Leda” e la seconda Repubblica fiorentina, Catalogo della mostra (Torino, giugno-settembre 2007), a cura di P.
Ragionieri, Cinisello Balsamo (Mi), Silvana Editoriale, 2007, pp. 26-115: 60.
84 Le opere di Giorgio Vasari con nuove annotazioni e commenti di Gaetano Milanesi, VII, Bologna, G.C. Sansoni,
1973, p. 202 [ed. Firenze, Sansoni, 1906].
85 Origini e riprese letterarie della fabula di Leda sono state ripercorse in E. LANDI, Leda dei misteri e Leda dei
moderni: il mito dall’archetipo a Leonardo, in La Leda perduta: una collezione ferrarese. Divagazioni su un mito nel
centenario di Michelangelo Buonarroti, Catalogo della mostra (Ferrara, 29 aprile-18 maggio 2014), a cura di L. Scardino, Ferrara, Liberty house, 2014, pp. 5-25: 6.
Dioscuri Castore e Polluce in uno, e nell’altro Clitennestra ed Elena di Troia, figura determinante nella tragica vicenda che, con la caduta della città, porterà alla diffusione del sangue troiano in Occidente e, ad esso legato, anche alla fondazione della capitale estense. Tutt’altro che ambigui sono gli indizi che documentano quanto fosse viva a Ferrara una tradizione positiva sul personaggio, in primis nell’orazione scritta da Pellegrino Prisciani per le nozze di Alfonso e Lucrezia Borgia (1502), in cui l’elogio della sposa si concentra su un’assimilazione proprio con la mitica Elena: citando un passo di Isocrate, la figlia di Giove e di Leda viene presentata come superiore allo stesso Ercole, perché le era stato fatto dono della «bellezza, che per natura domina la forza stessa».86 Com’è noto, gli Estensi
amavano riallacciare le proprie origini dinastiche proprio ai Troiani: prima il Boiardo e Tito Vespasiano Strozzi, a partire già dai primi anni Sessanta del Quattrocento, poi Ariosto avevano tracciato, attraverso le figure di Ruggiero e Bradamante, una genealogia mitica che ricollegava gli Este a Priamo, il re omerico della città anatolica, e ad Astianatte, figlio di Ettore.87
Parimenti allusivi furono i richiami prosopopeici contenuti nella pittura originale di Michelangelo, che conosciamo grazie alle copie grafiche e pittoriche a grandi dimensioni (fig. 8)88 e mediante alcune incisioni cinquecentesche (Étienne Delaune, Cornelis Bos, Nicolas Béatrizet), congruenti con le narrazioni dei biografi.
Nell’incisione di Bos (fig. 9),89 tratta in controparte direttamente dal dipinto originale, l’uovo ancora non schiuso posto in primo piano – con la singolare invenzione del guscio diafano che