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Carlo Magno e la gestione della violenza nei capitolar

Parte I. La giustizia carolingia: il re, Dio e la licenza di uccidere

Capitolo 1. La realtà dei capitolar

1.5 Carlo Magno

1.5.3 Carlo Magno e la gestione della violenza nei capitolar

Nell’epoca carolingia l’azione congiunta di re ed episcopato ha raggiunto una portata tale che la concezione del potere regio sviluppata sembra aver avuto conseguenze concrete più profonde e significative di quelle osservabili per il periodo precedente, non solo sulle aspirazioni regie ad intervenire sistematicamente nelle località, ma anche sulla capacità di giustificare e operare il giudizio e la vindicta regia. Ma come cambiò la gestione della violenza in epoca carolingia? In quali termini si modificò la rappresentazione della violenza e della vindicta regia nella legislazione regia rispetto predecessori merovingi?

Per comprendere questi meccanismi è utile approfondire tre questioni già affrontate nel capitoli sulla legislazione merovingia: la protezione regia nei confronti dell’ordine del

420 MGH Capit. I, pp. 91-99; in particolare p. 92: «Sed omnes omnino secundum Dei praeceptum iusta

viverent rationem iusto iudici».

421 MGH Capit. I c. 25, p. 96: «Ut comites et centenarii ad omnem iustitiam faciendum conpellent et iuniores

tales in ministeriis suis habeant, in quibus securi confident, qui legem adque iustitiam fideliter observent, pauperes nequaquam oppriment, fures latronesque et homicidas…….sed magis prodere, ut emendentur et castigentur secundum legem, ut Deo largiente omnia haec mala a christiano populo auferatur».

422 MGH Capit. I , p. 92: «ut hec omnia bona et bene sint ad Dei omnipotentis laudem, et gratias referamus,

ubi dignum est; ubi autem aliquid inultum esse credimus, sic ad emendandum omne studio et voluntate certamen habeamus, ut cum Dei adiutorio hoc ad emendationem perducamus et ad nostra eterna mercedem et omnium fidelium nostrum».

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regno, la gestione delle inimicitiae, e la sanzione penale. L’analisi di questi aspetti della normativa consente di comprendere sia il valore attribuito alla violenza dai capitolari sia il modo in cui il re definiva i limiti della legittimità della violenza sociale e sanzionava la pratiche illegittime.

Nel periodo carolingio, sotto diversi aspetti, la gestione della violenza si declinava in modo simile ad altri contesti politici. Come la maggior parte dei regnanti altomedievali, compresi i merovingi, Carlo Magno poteva accettare o condannare la violenza estendendo la sua protezione speciale su persone specifiche. Proprio come in molte leges la violazione di questa tutela avrebbe comportato la condanna a morte del colpevole. Tuttavia, rispetto ai suoi predecessori, la novità introdotta dal nuovo discorso politico dei capitolari carolingi riguarda il modo e l’intensità con cui il regnante aveva esteso la sua protezione personale, per includervi intere classi di persone. Dalla premessa secondo cui il re, in quanto rappresentante di Dio, era protettore della chiesa, delle vedove, degli orfani, dei forestieri, dei poveri e di color che erano indifesi, Carlo Magno aveva dichiarato la violenza commessa contro i membri di questi gruppi un’offesa contro il re.423

Questo concetto di protezione era familiare anche ai Merovingi. La tutela nei confronti dei soggetti più deboli derivava dai suoi compiti di rex christianus. Osservando la normativa merovingia, però, riscontriamo una maggior frequenza di riferimenti alla protezione verso i poveri, le vedove e l’ecclesia nelle epistolae scritte dai vescovi per i re merovingi rispetto alla legislazione regia: la menzione dell’estensione della protezione speciale del re a intere classi di persone è infatti presente in modo discontinuo solo in alcuni editti regie emanati in associazione ad alcuni concili vescovili, come ad esempio l’editto di Gontrano, mentre sono assenti nel Pactus.

Per tutto il VI e il VII secolo, le uniche persone a godere della protezione sistematica dei re franchi non erano i poveri e gli indifesi, ma coloro che avevano giurato fedeltà al re, gli antrustiones. Il loro status comportava infatti un aumento della somma del

423 MGH Capit. I c. 5, p. 93: «Ut sanctis ecclesiis Dei neque viduis neque orphanis neque peregrinis fraude

vel rapinam vel aliquit iniuriae quis facere presumat; quia ipse domnus imperator, post Domini et sanctis eius, eorum et protector et defensor esse constitutus est». La norma riprende alcune delle questioni, tra cui la protezione di poveri e vedove, che erano parte delle funzioni dei vescovi merovingi: erano loro a legiferare per tutto il popolo cristiano e occuparsi di queste categorie dopo Dio e i santi, di cui rappresentavano i principali mediatori in terra. Si veda Magnou-Nortier, Les évêques, in particolare pp. 36; Brown, Poverty, pp. 24–30; Heinzelmann, Bischofsherrschaft, pp. 155-165 che mettono in luce la natura del governo episcopale e la fugura del vescovo come pater ecclesiae, pater pauperum e pater populi. A questo proposito tra gli studi meno recenti si veda Ullmann, Public Welfare, in particolare pp. 1–2.

guidrigildo.424 La compensazione, però, non andava pagata al re, ma alla parentela, che rimaneva la prima protagonista della relazione violenta nata con l’omicidio o con l’aggressione; al re sarebbe spettato il fredus, un’ammenda, menzionata principalmente nel Pactus, solo nei casi di coinvolgimento diretto dei rappresentanti regi o di presenza del re al momento dell’aggressione.

Tra V e VII secolo ad assumersi regolarmente l’onore della protezione dei poveri erano stati invece i vescovi. Sul loro esempio i testi normativi carolingi, quando parlano del re, avevano fondato la concezione di rector del populus christianus, attribuendo al re carolingio il compito di tutela di queste categorie di persone. A differenza dei suoi predecessori merovingi, Carlo Magno non assunse questo compito in maniera saltuaria; al contrario, rese la sua protezione su orfani, vedove e forestieri una delle problematiche principali della sua produzione normativa. Aggredire queste persone rappresentava un crimine contro Dio, e di conseguenza un’offesa personale al re che ne era il rappresentante.

La conseguenza per la violazione della protezione speciale del re per questi gruppi è generalmente un’ammenda pagata al fisco regio, il bannus, e non una compensazione offerta ad altri soggetti425. Il termine bannus era tradizionalmente conosciuto per definire il potere regio di imporre un comando e di sanzionare la mancata obbedienza. Tuttavia, nonostante la chiara origine germanica del nome, è difficile determinare, se la sanzione pecuniaria del bannus fosse una consuetudine già in uso prima del regno carolingio. Il Pactus e gli altri capitolari merovingi che lo integrano, menzionano il fredus come somma da versare al re in aggiunta alla composizione. Come abbiamo accennato nel precedente capitolo, però, appare solamente nei casi in cui il re ha subito un’offesa diretta. Il termine bannus, invece, non viene menzionato nella legislazione merovingia, e pare non rientrare nella cultura giuridica franca di VI secolo. Le poche tracce rilevate per il periodo sono presenti in altri documenti, in cui è menzionato però nel suo senso più generico, quello di

424 MGH LL.nat.Germ. 4.1 Pactus XLI/5, pp. 156; MGH LL.nat.Germ 4.1 Pactus XLI/8, pp.157; MGH

LL.nat.Germ 4.2 Capitula legi salica addita III/LXLIV, pp. 254. Sugli antrustones, ossia sulla popolazione

protetta dalla pace del re per via del giuramento di fedeltà che li legava al re. Il suo significato di banda armata personale del re si trova nelle Formula Maculfi, MGH Formulae Marculfi 1.18 che spiega la procedura di nomina di un antrustio. L’uso del verbo coniurasse, che solitamente si utilizza per giuramenti prestati da un numero di individui suggerisce che l’antrustio avesse i suoi fedeli, che metteva a disposzione del re. Per la genesi di tali figure si veda Helbig, Fideles, pp. 275-288, in particolare p. 280 e pp. 287-288. Sul giuramento di fedeltà si veda Eckardt, Untersuchungen, p. 36; Bachrach, Early carolingian, pp. 68-71.

425 Sulla nozione di bannus si veda la distinzione tra l’interpretazione classica, Ganshof, Charlemagne’s

programme, p. 62; Ganshof, Institutional framework, p. 88 che, come parte dell’impostazione storiografica

che cercava strutture istituzionali moderne nelle società altomedievali, associa il bannus all’imperium romano, e lo definisce come la fonte dell’autorità del re e, per estensione, dei capitolari. Cfr. con le prospettive più attuali, Innes, State, p. 5 e p. 143 che vede nel bannus una descrzione di specifici ordini regi, la cui forza dipendeva da coloro che rappresentavano il re nelle località.

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comando regio. Solamente con Carlo Magno il bannus inizia a riferirsi inequivocabilmente all’ammenda imposta dal re: compare per la prima volta nel capitolare di Herstal del 779, e da qui e in tutti i capitolari successivi stabilisce il pagamento di 60 solidi per la violazione della protezione, la trasgressione di un ordine, o un affronto agli interessi del re426. Quando i capitoli ne fanno menzione, presentano il regnante nelle vesti della vittima di un torto che necessitava una compensazione. Il re si sostituiva quindi alla parentela, svolgendo la medesima funzione dei parenti nelle relazioni di inimicitia. Se questa dinamica appare normale per i casi in cui il re aveva subito un danno diretto, come nel caso delle aggressioni agli ufficiali regi, l’applicazione del banno per sanzionare le violenze contro vedove, orfani e la chiesa, rappresenta una novità. Un’ingiustizia contro un membro di questi classi di persone non costituiva un affronto al re, perché era un membro della sua famiglia, o del suo seguito, o una persona su cui il re aveva esteso la sua protezione individualmente. La violenza contro tali categorie cositituiva un’ingiuria al re in quanto incaricato da Dio, nella sua funzione di rector, di proteggere specialmente questo gruppo di persone. Legiferando con queste parole, la protezione regia rompeva con la tradizione dei Franchi: il re carolingio non imponeve prescrizioni solo per il proprio popolo, ma emanava norme per tutta la popolazione cristiana.427

La spiegazione più chiara riguardo al ruolo di protezione del re carolingio si trova proprio nel capitolare missorum generale del 802, di cui abbiamo già parlato mettendo in evidenza la presenza di alcune elementi chiave della concezione carolingia del potere nel prolodo del capitolare: il compito di rector, di educatore e di ammonitore posseduto dal re, il tema della correctio del popolo, e l’importanza dell’amministrazione della giustizia per la salvezza del popolo. Il testo rappresenta uno dei primi provvedimenti presi a seguito della nomina a imperatore da parte del re carolingio ed è conosciuto soprattutto perché stabilisce il nuovo giuramento da prestare a Carlo Magno.428Nel capitolo 5, però, il re affronta anche il problema dei crimini commessi ai danni dei soggetti più deboli della popolazione; qui possiamo leggere: «Nessuno osi commettere frode, furto o qualsiasi altro crimine contro la santa chiesa di Dio, o contro le vedove, gli orfani, i forestieri, perché l’imperatore stesso, dopo Dio e i suoi santi, è stato ordinato come suo protettore e

426 MGH Capit. I c.9, p. 48: «Ut latrones de infra inmunitatem illi iudicis ad comitum placita praesentetur; et

qui hoc non fecerit, beneficium et honorem perdat. Similiter et vassus noster, si hoc non adimpleverit, beneficium et honorem perdat; et qui beneficium non habuerit, bannum solvat».

difensore».429 Dio e i santi sono considerati i principali patroni della popolazione cristiana. Nel corso del periodo merovingio questo potere sovrannaturale era stato gestito dai vescovi e dagli abati, che attraverso l’intercessione delle preghiere potevano richiamare l’intervento del santo protettore. Dopo Dio e i santi, erano stati vescovi e abati ad assumersi l’onore della tutela dei soggetti più deboli. Il passo del capitolo del capitolare testimonia però un cambiamento nel periodo carolingio, quando questa facoltà pare essere condivisa dal re. D’altronde è proprio sul modello del pastore delle anime, nell’ambito della riflessione sul governo dei vescovi e degli abati, che erano elaborati il concetto di rector, la funzione educatrice e la responsabilità per la salvezza del popolo, la nozione di reddere rationem, attribuite a Carlo Magno430.

Lo sviluppo da parte della corte regia di una simile concezione del potere consentì al re di inserirsi nelle dinamiche dei conflitti e di riorchestrarli, assumendo su di sé il compito della vindicta dell’offensore. Questo aspetto della gestione della violenza non si verificava solamente nel caso di dispute che riguardavano le vedove, la chiesa o i forestieri, ma rappresentava una caratteristica generale della vindicta del rex christianus. Ciò si capisce osservando il modo in cui affronta le inimicizie e il ricorso alla violenza all’interno di questo tipo di relazione sociale. Nell’802, nel suo capitolare missorum 428 Per un approfondimento sul giuramento si veda lo studio di Odegaard, Carolingian oaths, pp. 284–296;

Odegaard, Concept, pp. 279–289; si veda anche gli studi più recenti di Becher, Eid e Nelson, King, pp. 80– 82.

429 MGH Capit. I c. 5, p. 93: «Ut sanctis ecclesiis Dei neque viduis neque orphanis neque peregrinis fraude

vel rapinam vel aliquit iniuriae quis facere presumat; quia ipse domnus imperator, post Domini et sanctis eius, eorum et protector et defensor esse constitutus est». La norma riprende alcune delle questioni, tra cui la protezione di poveri e vedove, che erano parte delle funzioni dei vescovi merovingi: erano loro a legiferare per tutto il popolo cristiano e occuparsi di queste categorie dopo Dio e i santi, di cui rappresentavano i principali mediatori in terra. Si veda Magnou-Nortier, Les évêques, in particolare pp. 36; Brown, Poverty, pp. 24–30; Heinzelmann, Bischofsherrschaft, pp. 155-165 che mettono in luce la natura del governo episcopale e la fugura del vescovo come pater ecclesiae, pater pauperum e pater populi. A questo proposito tra gli studi meno recenti si veda Ullmann, Public Welfare, in particolare pp. 1–2.

430 L’ufficio escatologico del rationem reddere si sposta da una sfera legata alla regola benedettina per

passare a un contesto legato alla potestas saecularis. Nella regola benedettina il concetto di rationem reddere era fondante per la stessa struttura («Sciatque quia qui suscipit animas regendas paret se ad rationem reddendam. Et quantum sub cura sua fratum se habere scierit numerum, agnoscat pro certo quia in die iudicii ipsarum omnium animarum est redditurus Domino rationem, sine dubio addita et suae animae. Et ita, timens semper futuram discussionem pastoris de creditis ovibus, cum de alienis ratiociniis cavet, redditur de suis sollicitus, et cum de monitionibus suis emendationem aliis subministrat ipse efficitur a vitiis emendatus» da

Regula Sancti Benedicti, Capitolo II, 37 – 40 se ne propone una traduzione italiana per rendere meglio la

straordinaria importanza di questo passo, nel quale si definiscono i doveri dell’Abate: «Ed egli sappia che colui il quale si assume anime da governare, deve prepararsi a renderne conto. E il numero dei monaci che egli sa di avere sotto le sue cure, sia ben convinto che di tutte queste anime dovrà rendere conto a Dio nel giorno del giudizio, aggiungendo alla somma anche la sua anima. Così, sempre timoroso dell’esame che in futuro il pastore subirà riguardo le pecore a lui affidate, si prepara a rendere conto degli altri e nel contempo si preoccupa per sé, e mentre aiuta gli altri a correggersi con i suoi ammonimenti, egli stesso corregge i propri vizi.»), ma possiamo notare uno slittemento semantico: da un ambito prettamente religioso quale può

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generale, Carlo Magno dichiarò l’omicidio fuori legge collegando esplicitamente il suo dovere di proibire i delitti, casuati dall’odium o dalle inimicitiae, con la sua missione di mantenere l’ordine e la pace del regno. Il riferimento all’obbligo del re di tutelare il popolo cristiano dai crimini ricorda il continuo richiamo alla necessità di proteggere la pax con cui i merovingi introducevano le proprie disposizioni. Da una semplice lettura del testo delle singole norme, però, è chiaro che in quel contesto le prescrizioni avevano una natura estemporanea.

A inizio del IX secolo, invece, la disposizioni sono inserite più frequentemente in una riflessione strutturata sulla iustitia e sul potere regio. La condanna degli omicidi e la procedura di intervento nei casi di inimicitia, ossia la relazione di ostilità nate in seguito a un torto tra due parentele, erano precedute da un’attenta spiegazione in merito alla relazione tra la giustizia divina e la giustizia terrena del re: il compito della vindicta regia era di integrarsi con l’ira divina e di impedire il castigo del popolo che gli era stato affidato con ogni mezzo di disciplina. Così recita il capitolo 32:

«Ordiniamo che siano vietati in ogni modo gli omicidi, per cui una gran parte del popolo cristiano perisce; il Signore stesso proibisce ai suoi fedeli gli odi e le inimicitiae, e ancor di più gli assassinii. In che modo crede di placare Dio, colui che avrà ucciso il figlio del suo vicino? In quale modo, veramente, chi ha ucciso un fratello, pensa che il Signore gli sarà favorevole? è un grande pericolo con Dio padre e Cristo dominatore della terra e del cielo diffondere l’inimicitae tra gli uomini: infatti è possibile scappare per qualche tempo rimanendo nascosti, ma comunque, per fatalità, un giorno questo cadrà nelle mani dei suoi nemici. Dove è possibile sfuggire a Dio, a cui tutti i segreti sono manifesti? Per quale sconsideratezza qualcuno pensa di poter sfuggire alla sua ira? Chiunque tra il popolo che ci è stato affidato per essere retto debba cadere in questo male, stabiliamo che venga punito con ogni mezzo di disciplina, perché colui che non ha temuto l’ira di Dio, non deve trovarci in nessun modo propizi o pronti per essere placati; noi vogliamo infliggere la punizione più severa su chiunque osi uccidere un uomo.»431

essere la vita in un monastero e le prerogative dell’abate sui monaci, al potere del re e ai suoi doveri verso il

populus. Per la bibliografia sull’argomento si veda Deug Su, Cultura, pp. 146- 147, in particolare p.31.

431 MGH Capit. I c. 32, p. 97: «Homicidia, pro quibus multitudo perit populi christiani, omni contextatione

deserereac vetare mandamus; qui ipse Dominus odia et inimicitie suae fidelibus contradixit, multommagis homicidia. Quomodo enim secum Deum placatum fore condit, qui filium suum proximum sibi occiderit? Qualiter vero Christum dominum sibi propitium esse arbitretur, qui fratrem suum interficerit? Magnum quoque et inhabitaculum periculum est cum Deo patre et Christo coeli terrae dominatore, inimicitias hominum movere: quos aliquit tempus latitando effugere potest, sed tamen casu aliquando in manus inimicorum suorum incidit; Deum autem ubi effugere valet, cui omnia secreta manifesta sunt? Qua temeriatete eius iram quis extimat evadere? Qua propter ne populus nobis ad regendum commisos hoc malo perat, hoc omni disciplina devitare previdemus; quia nos nullo modo placatum vel propitius habere, qui sibi Deum iratum non formidaverit: sed saevissima districtione vindicare vellimus qui malum homicidii ausus fuerit perpetrare».

Il capitolo prosegue stabilendo le procedure per regolare l’inimicitia e per impedire che fosse condotta per mezzo della violenza, generando profonde divisioni nel popolo cristiano. A ta fine il re impone la fine delle ostilità con la pacificazione immediata alla presenza di un vescovo per mezzo di una compensazione e, in caso di rifiuto, sancise la confisca e l’esproprio temporaneo dei beni del reo, in attesa del giudizio dell’imperatore.

Come nell’Admonitio generalis l’omicidio rappresentava una violazione dei comandamenti biblici. Pertanto costituiva un affronto che poteva scatenare la sanzione di Dio contro il peccatore. In modo analogo alle inimicizie tra privati, la giustizia divina funzionava infatti secondo un principio retributivo432. Come nelle vendette terrene, la preoccupazione per la ritorsione avrebbe funzionato da deterrente per l’esplosione delle violenze, però, l’ira di Dio doveva incutere un timore tale da imporre indirettamente il rispetto della legge divina433. Se però la preoccupazione per il castigo del Signore, non avesse impedito la violazione dei suoi comandamenti, sarebbe spettato al re intervenire.

Il capitolo sembra richiamare il prologo dell’editto di Gontrano del 585, soprattutto per il riferimento alla vindicta divina. Rispetto al testo merovingio, però, si nota un cambiamento sostanziale. Nell’editto, i crimini sono rappresentati come peccati per i quali Dio è intervenuto nel mondo terreno attraverso carestie e pestilenze, scatenado così la sua ira. La descrizione del prologo presenta in primo luogo il valore della giustizia divina, rispetto alla quale la giustizia regia svolge un ruolo di secondo piano. Nel testo carolingio