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La gestione della violenza: il ruolo del re

Parte I. La giustizia carolingia: il re, Dio e la licenza di uccidere

Capitolo 1. La realtà dei capitolar

1.3 I capitolari meroving

1.3.2 La gestione della violenza: il ruolo del re

Nel corso dell’epoca merovingia l’influenza dei vescovi non si limitò semplicemente a definire la relazione tra il re e l’episcopato, a stabilire il ruolo dei diversi poteri nell’elezione dei vescovi e nella tutela dei beni della chiesa. Attraverso la legislazione conciliare i vescovi diedero forma legale al rinnovamento della regalità cristiana. Questo corpo di leggi è il risultato di un lungo processo di costruzione di una tradizione giuridica, che nella Gallia tra V e VI, aveva portato le registrazioni dei dibattiti e conflitti dei concili ecumenici dei secoli precedenti ad essere trasformati in precetti brevi e autorevoli, ordinati in diverse collezioni canoniche. Una magna auctoritas che raccoglieva direttive concrete e giustificazione ideologiche utili per dare forma all’identità dei vescovi nella loro funzione di giudici, legislatori e governatori regionali.317 I concili lo utilizzavano anche per risolvere questioni concrete nell’amministrazione delle loro diocesi: regolare la penitenza per gli omicidi e gli altri crimini, stabilire la disciplina per il clero, organizzare i rapporti tra i singoli vescovi; infine, precisare il ruolo del vescovo nella società cristiana. In sostanza, la legislazione ecclesiastica affrontava anche problematiche di carattere civile e politico, e i vescovi cercarono di adattare la loro opera legislativa a questioni di disciplina e di giurisdizione, producendo una pratica raccolta di norme in grado di sostenere il loro ruolo di governo nella società cristiana.318 A questa tradizione nel suo complesso, al suo vocabolario e alla sua forma, i re merovingi attingevano non solo per legiferare in materia ecclesiastica, ma anche per legittimare la propria attività legislativa e giuridica. D’altronde, i redattori delle disposizoni erano membri del clero: provenivano dal medesimo contesto culturale dei vescovi che hanno tentato di riflettere sulla definizione

317 Mikat, Zu Bedingungen, pp. 309–320. Un approfodimento completo sulla formazione della legislazione

canonica si trova in Moore, Sacred Kingdom, pp.30-70. Si veda anche Gaudemet, La Bible, pp. 201–12; Faivre, Naissance, pp. 259-268.

318 Sull’attività legislativa nell’organizzazione del clero e nella gestione delle località si veda Gaudemet,

Législation, pp. 11–12; Gottlieb, Bestandteile, pp. 254–63. Sull’attività dei vescovi nella difesa della pace

della civitas e nella tutela dei poveri si veda Magnou-Nortier, Les évêques, p. 36; Moore, Sacred Kingdom, pp. 120-190.

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cristiana della regalità. Come le lettere rivolte agli eredi della famiglia merovingia, i capitolari, nati sotto l’influenza di questa tradizione normativa cristiana, attribuiscono al re la stessa responsabilità per il mantenimento della pace del regno.319

Un esempio di questa nuova tendenza è il Pactus pro tenore pacis. La normativa è emanata probabilmente da Childeberto I e Clotario I, figli di Clodoveo, nel VI secolo al fine di integrare la Lex salica. La redazione, in un latino molto scolastico e sgrammaticato, e gli errori dei copisti hanno reso il Pactus pro tenore pacis qua e là poco chiaro, ma si può trarne il senso richiamandosi al contesto più ampio320. Il prologo del Pactus pro tenore pacis introduce una serie di disposizioni rivolte al problema dei latrocinia, spiegando le motivazioni che hanno spinto il re a emanare nuove leggi: «Poiché la follia di molti si diffuse e i frutti del male crebbero, fu necessario emanare questo editto in modo che era appropriato potesse essere ristabilito»321. Da queste parole si evince una prima trasformazione nella gestione della violenza, rispetto al mondo descritto dal Pactus: le controversie e i conflitti non erano più state considerate una questione tra le famiglie impegnate nella disputa. Con l’emanazione degli editti i re si inserivano nelle dinamiche conflittuali in virtà del loro nuovo ruolo di garanti della pace: a differenza delle procedure descritte dal Pactus, il decreto stabilisce una sanzione severa anche per i latrones, i quali se trovati colpevoli, non avrebbero dovuto pagare la semplice composizione alla famiglia derubata o aggredita, ma sarebbero stati condannati a morte.322A giustificare l’esercizio della vindicta regia era l’imprimatur di Dio sul compito svolto dal re e dai suoi rappresentanti. al diritto del re di imporre punizioni violente, compresa la pena capitale: «noi abbiamo stabilito questo patto per mantenere la pace in nome di Dio ed è nostro desiderio che queste prescrizioni siano osservate perpetuamente; si ricordi dunque che se un giudice ha la presunzione di violare questo decreto, sia soggetto alla perdita della vita».323

319 Sulla relazione tra legge secolare e canonica si veda Mathisen, Agde, pp. 41–52.

320 Per una discussione sul Pactus pro tenore pacis si veda Modzelewski, Europa, pp. 120-134. Cfr.. Wood,

Administration, pp. 358–75 e Wood, Code, pp.172-174 che sottolinea come linguaggio e contenuti dipendano

dal modello romano imperiale e della legislazione provinciale. Si veda anche Woll, Untersuchungen, pp. 50- 73 e p. 116 che analizza l’intregazione apportate al Pactus legis Salicae. Sul suo contenuto un approfondimento completo si trova sempre in Woll, Untersuchungen, pp. 76-87. Per il contesto di emanazione si veda Wood, Merovingian Kingdoms, pp. 110-116.

321 MGH Capit. 1 Pactus pro tenore pacis, p. 4: «Ut quia multorum insaniae convaluerunt, malis pro

inmanitate scelerum digna reddantur».

322 MGH Capit. 1 Pactus pro tenore pacis I, p. 4: «Id ergo decretum est, ut apud quemcumque post

interdictum latrocinius conprobatur vitae incurrat periculum».

323 MGH Capit. 1 Pactus pro tenore pacis XVIII, p. 7: «Et quae in Dei nomine pro pacis tenore constituimus,

in perpetuum volumus custodire, hoc statuentes, ut si quis ex iudicibus hunc decretum violare presumpserit, vitae periculum se subiacere cognoscat».

Il Pactus pro tenore pacis di Childeberto I e Clotario I inserisce la potestas regia e la violenza in una cornice cristiana. Su modello dei vescovi descritti dalla legislazione canonica, il re è presentato nelle vesti di responsabile della difesa della pace del regno. La violenza era non era più solamente un’ingiustizia a cui dare soddisfazione, ma era percepita e rappresentata in associazione alla nozione cristiana di peccato, e all’opera diabolica che sconvolgeva l’ordine delle cose voluto da Dio. Infatti per definire i “crimini” i capitolari iniziano a impiegare termini quali scandalum324, scelus325 o impissimus

vitius326, che erano utilizzati nei concili del periodo per identificare i peccati più gravi, in

grado di rompere la concordia della società cristiana. A partire dalla conversione di Clodoveo gli omicidii, i rapimenti, i furti e, più in generale, i latrocinia non costituivano una semplice ingiustizia nei confronti della parte avversa, ma erano principalmente un’offesa nei confronti di Dio. In questo nuovo contesto, le azioni violente non riguardavano più solo le famiglie o la comunità; il protagonista era diveuto il rex christianus e la sua sanzione, capace di garantire la pace.

Ma quale era il significato di questa pax? Questo tipo di concetto si ritrova generalmente in tutti i capitolari del VI e del VII secolo, redatti da ecclesiastici al servizio della corte regia: è presente nella legislazione di Chilperico I, che si presenta come un editto per il mantenimento della pace, emanato con l’aiuto dei nobili, degli uomini del re e di tutte le persone del regno in nome di Dio.327 La stessa menzione è ancora presente nel decreto di Clotario I, in cui le prescrizioni sono descritte come necessarie per il mantenimento della pace e della disciplina.328 Osservando i provvedimenti registrate dopo queste dichiarazioni di intenti, e quelle del precedente Pactus pro tenore pacis di Childeberto I, è evidente che nella società merovingia di VI secolo la nozione di pace significhi qualcosa di molto differente dall’assenza di violenza. Al contrario, il suo

324 MGH Capit. 1 Pactus pro tenore pacis, p., pp. 11. 325 MGH Capit. 1 Pactus pro tenore pacis, p. 4, pp. 11-12.

326 MGH LL.nat.Germ. 4.1 Pactus capitula legis Salicae addita VI, p. 268.

327 MGH Capit. 1 Edictum Chilperici, p. 8: «Pertractantes in Dei nomen cum viris magnificentissimis

obtimatibus vel antrustionibus et omni populo nostro convenit , quia fluvium Caronna hereditas non transiebat, ubi et ubi in regione nostra hereditas detur , sicut et reliqua loca ut et Turrovaninsis hereditatem dare debent et accipere.» Sul contesto di emanzzione dell’editto si veda Wood, Merovingian Kingdom, pp. 97-103.

328 MGH Capit. 1 Decretio Clotharii, p. 18: « Clodacharius, rex Francorum, omnebus agentibus- Usus est

clementiae princepalis nicessitatem provincialium vel subiectorum sibi omnium populorum provida sol lecicius mente tractare, et pro quiete eorum quaecumque iuste sunt observanda indita in titulis constitutione conscribere: quibus quantum plus fuerit iustitiae adque integritatis inpensum, tantum pronius amor divutionis incumbit. Ideoque per hanc generalem auctoritatem praecipientes iubemus, ut in omnibus causis antiqui iuris norma servetur, et nulla sententia a quolebet iudicum vim firmitatis obteneat, quae modum leges adque aequitatis excedit».

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significato comprende ciò che si definisce il giusto ordine della società cristiana329. Mantenere la pace significa quindi regolare le responsabilità del signore nei casi di omicidio degli schiavi, forzare l’elités laiche a sottomettere gli schiavi accusati di furto al giudizio di un’ordalia, imporre il pagamento della compensazione a un uomo insolvente, affrontare i casi di coloro che fuggono perché impossibilitati a pagare la compensazioni; proibire il furto, l’omicidio o il rapimento.330

A questo proposito è utile approfondire quanto promulgato in un editto emanato da Gontrano in associazione al concilio di Mâcon convocato intorno al 583-585.331 Qui i

vescovi del regno di Austrarsia e Neustria si erano riuniti su volontà del re, «ex iussu regis Gunthrani» e avevano deliberato una ventina di canoni su differenti questioni, comprese una serie di prescrizioni ecclesiastiche, come il riposo domenicale. In un certo senso il re sembra agire secondo la procedura inaugurata da Clodoveo nel concilio di Orléans del 511: lascia deliberare i vescovi, riconoscendo la loro auctoritas. In merito alle questioni ecclesiastiche, però, i vescovi a Macon avevano stabilito l’esclusione dell’autorità secolare nelle sanzioni per le violazioni dei canoni; questa decisione esprimeva la volontà di separare le questioni secolari da quelle ecclesiastiche, un’idea che non trovava favorevole il re e il sua corte. A questa situazione Gontrano reagì con l’emanazione di un editto, in cui con un tono di un’ammonizione esorta i vescovi a lavorare in completa collaborazione con il potere secolare e presenta le questioni ecclesiastiche, tra ricorda la violazione dell’osservanza domenicale, come una responsabilità secolare.332

In questa occasione il re merovingio decretò dunque un capitolare programmatico in cui si esplicitava il legame che intercorreva tra il re, Dio, il giusto ordine della società cristiana e l’ultio legalis: egli dichiarava di essere stato delegato da Dio per assicurare la giustizia al suo popolo; come agente di Dio affermava di essere responsabile per la stabilità e la salvezza del suo regno. Nel corso dei secoli, infatti, la divinità da cui il re derivava il suo potere impose una vindicta violenta per le ingiustizie che il suo popolo aveva commesso su persuasione del diavolo: Dio aveva causato la morte di uomini e bestiami,

329 Renna, Idea, pp. 145-148; Brown, Violence, p. 35.

330 MGH Capit. 1 Pactus pro tenore pacis, I-III, V-VI, IX, XII e MGH LL.nat.Germ. 4.1 Pactus pro tenore

pacis CXVI, pp. 3-10; MGH Capit. 1 Decretus Chideberti, I, IV-V.

331MGH Capit. 1, pp. 10-11; sul contesto dell’editto, emanato dopo la si veda Woll, Untersuchungen, pp. 33-

36; 49-50 e 136-137.. Sul concilio di Macon si veda Heinzelmann, Gregory of Tours, pp. 188-190; Per il dibattito teologico sulla domenica si veda Philippart, Temps, in particolare pp. 29-32.

332 Per una breve analisi della concezione del potere elaborata in questo contesto: Sassier, Royauté, pp. 40-42

e anche Tabacco, Gontrano, in particolare p. 348 in cui afferma che il regno di Gontrano è un periodo decisivo per la trasformazione delle struture di potete franche in istituzioni cristiane.

con la malattia o con la spada.333 Per respingere l’ira Dei, che avrebbe potuto colpire lui e il suo regno se avesse fallito a svolgere il suo compito, Gontrano ordinava ai vescovi di correggere il popolo attraverso la predicazione, proibiva le attività durante le festività cristiane o la domenica, e ordinava ai giudici di sforzarsi nell’esercizio della giustizia, costringendo il popolo al rispetto dei precetti religiosi con l’ultio legalis, laddove i canoni non fossero stati in grado di correggerlo.334 L’editto di Gontrano confermò le deliberazioni del concilio, facendole diventare legge secolare e dotandole del sostegno del potere coercitivo.

Il passo sembra approfondire il ruolo del rex christianus nella società franca secondo una concezione del potere già emerso nel Pactus pro tenore pacis. Il capitolare di Gontrano, però, aggiunge alcuni nuovi elementi. Il primo è la menzione esplicita della vendetta di Dio contro il popolo, reo di non aver rispettato i suoi comandamenti. I peccati, compreso l’esercizio della violenza, costituivano un torto alla divinità, e proprio come nelle normali relazioni di inimicitia comportavano la ritorsione, perché l’affronto necessitava di essere soddisfatto, o facendo ammenda o sopportando la giusta punizione. Al re, nel ruolo di rappresentate di Dio, spettava dunque il compito di costringere al rispetto della divinità, garantendo la pace nel regno per mezzo della benevolenza del Signore. L’ultio legalis, ossia la sanzione imposta dal re, era dunque il corrispettivo necessario alla possibile punizione divina. In questa veste poteva anche tradursi nell’impiego della forza, e assumere la forma delle punizioni violente, come dimostrano i numerosi casi in cui i colpevoli sono condannati alla pena capitale.

Il potere coercitivo del rex christianus descritto dai capitolari non si limita, però, al semplice impiego della violenza legittima da parte del re e dei suoi funzionari. Inserite in una cornice di senso cristiana, le prescrizioni indicano che il rex avesse facoltà di regolare ed estendere i confini della violenza legittima: alcune delle clausole più rilevanti non restringono il diritto di esecuzione della punizione ordinata dal re ai soli rappresentanti

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MGH Capit. 1 Edictum Gunthramni , p. 11: «Dum pro regni ergo nostri stabilitate et salvatione regionis

vel populi sollicitudine pervigili attentius pertractaremus, cognovimus infra regni nostri spatia universa scelera, quae canonibus et legibus pro divino timore puniri consuerunt, suadente adversario boni operis perpetrari, et ex hoc procul dubio indignatione coelesti per diversas seculi tempestates homines ac pecora aut morbo consumi censentur aut gladio, dum divina judicia non timentur».

334 MGH Capit. 1 Edictum Gunthramni, p. 12: «iuxta quod conditiones causarum aut excessus personarum

exegerint, alios canonica severitas corrigat, alios legalis poena percellat: quoniam nec innocentes potest reddere collata securitas liberos, nisi certa culparum probatio punierit criminosos, nec minor est pietas protervos conteri, quam relevare compressos. Con venit ergo, ut, iustitiae et aequitatis in omnibus vigore servato, distringat legalis ultio iudicum quos non corrigit canonica praedicatio sacerdotum. Quo fiat, ut, dum praete rita resecantur scelera, nullus audeat perpetrare futura, et ita universos excedentes pro disciplinae tenore servando correctionis fraena constringant».

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regi. A questo proposito è interessante osservare un capitolo emanato nel 595 da Childeberto II. Il capitolo 5 tratta la questione degli omicidi e recita: «riguardo agli omicidi, ordiniamo che sia osservato in questo modo: chiunque uccida un altro uomo sine causa, sia colpito dal pericolo di morte; non si redima o componga il prezzo della sua redenzione. Inoltre, è opportuno che nessuno dei suoi parenti o amici lo aiuti».335

Come per i latrones, il decreto sanziona con la morte gli assassini, colpevoli di un vitius impiissimus, secondo il più classico dei principi della giustizia retributiva: qui nouit occidere, si legge, discat morire.336 Non è chiaro, però, se la disposizione possa essere intesa come una sentenza capitale eseguita dai suoi rappresentanti o se si trattasse della legittimazione da parte dell’autorità centrale della ritorsione della parentela antagonista. A questo proposito la menzione della locuzione sine causa potrebbe aiutarci a comprendere meglio la natura del capitolo. Kathrine Fischer Drew ha suggerito che questa aggiunta si riferisca alle uccisioni commesse in segreto, un caso punito con una compensazione maggiore già dal Pactus.337 Tuttavia, considerando la serie di disposizioni riguardo la legittimità delle violenze pubblicizzate, sine causa potrebbe riguardare semplicemente i casi in cui l’inimicitia non era stata resa pubblica. La mancata pubblicizzazione era considerata una prova a dell’illegitimità dell’omicidio. Per questo, secondo un principio tipico della legge del taglione, la legislazione prevede il bando automatico del reo e autorizza la ritorsione della famiglia offesa, che avrebbe potuto ucciderlo senza dover pagare una compensazione.

Osservando le loro disposizioni, i capitolari emanati nel corso del VI secolo possono essere considerati uno dei risultati del cambiamento avvenuto nella società e nella concezione della regalità merovingia. A seguito della conversione al cattolicesimo, il re era divenuto il principale difensore della pace del popolo. Ciò non significava impegnarsi per eliminare la violenza dalla società, ma piuttosto custodire il giusto ordine stabilito da Dio. A differenza di quanto visto per il Pactus, in queste testimonianze si trova espressa l’idea secondo cui il re aveva il diritto e l’obbligo di usare la forza, di regolare la violenza dei propri sudditi in nome del benessere generale del regno.

335 MGH Capit. 1 Decretio Childeberti VI, p. 16: «De homicidiis vero ita iussimus observare, ut quicumque

ausu temerario alium sine causa occiderit vitae periculum feriatur: nam non de precio redemptionis se redimat aut componat. Forsitan convenit ut ad solutionem quisque discendat, nullus de parentibus aut amicis ei quicquam adiuvet; nisi i qui praesumpserit ei aliquid adiuvare, suum weregildum omnino componat; quia iustum est, ut qui novit occidere, discat morire» Su questo Woll, Untersuchungen, pp. 36-40 e 50-73.

336 MGH Capit. 1 Decretio Childeberti VI, p. 16. 337 Drew, Laws, pp. 157-158.

Le conquiste dei re merovingi tra VI e VII secolo, però, furono spesso fragili, poiché erano seguite da frequenti periodi di debolezza del potere regio; la collaborazione con l’autorità vescovile, instabile a causa della forte competizione sul possesso dei beni ecclesiastici e sulla gestione del governo a livello locale, condizionò lo sviluppo di una concezione del potere in grado di legittimare stabilmente la figura del re.338 Di queste difficoltà risentì la relazione tra potere e violenza: nel lungo periodo infatti i re merovingi si dimostrarono incapaci di supportare la legittimazione della propria posizione di superiorità attraverso il sostegno dell’immagine di un rex christianus che si caratterizzava per l’esercizio della coercizione e della vindicta legittima, motivato dalla relazione privilegiata che lo connetteva all’ira dei. Inoltre, la stessa relazione tra atti violenti e peccato, così come il significato morale attribuito alla violenza, non erano ancora un dato stabilmente acquisito dalla legislazione regia e dalla società franca. Nella Gallia tra VI e VII secolo il valore della violenza era ancora neutro, dipendeva da fattori complessi, dal contesto della fonte o dal potere dei protagonisti dei conflitti. Infatti, anche se per i crimini più gravi il re cercò di imporre la pena capitale, nei confronti delle inimicitiae, gran parte dei capitoli emanati dai merovingi integravano le prescrizioni del Pactus e si limitavano a ridefinire le procedure per stabilire le composizioni che spettavano alla famiglia della vittima.

Di fatto nel regno merovingio, i re non realizzarono mai un controllo autonomo della violenza e nemmeno si posero questo obiettivo. L’autorità centrale continuava governare secondo le stesse norme che regolavano le relazioni violente tra i loro sudditi. La visione cristiana della violenza e del potere non era ancora stata tradotta in un discorso complessivo che proponesse un’alternativa valida, in grado di trasformare le regole del gioco.