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La violenza regia nei capitolari di Ludovico il Pio

Parte I. La giustizia carolingia: il re, Dio e la licenza di uccidere

Capitolo 1. La realtà dei capitolar

1.6 Ludovico il Pio

1.6.1 La violenza regia nei capitolari di Ludovico il Pio

La nuova concezione ministeriale della regalità carolingia non sembra influenzare la relazione tra potestas e violenza, almeno per quanto riguarda l’attitudine della normativa regia nella gestione dei comportamenti violenti. Spostandosi nella singole disposizioni emanate nel capitolare integrativo della legge salica dell’818-819, per osservare il rapporto tra la concezione del potere del rex christianus e la violenza, la continuità tra la rappresentazione della violenza nella legislazione di Ludovico e quella del padre pare ancora più evidente. In questi documenti, Ludovico, come Carlo Magno prima di lui, condanna le bande armate formate con «l’obiettivo di compiere atti malvagi», impone la propria protezione sugli indifesi e sulle vedove, e, infine, decreta una serie di prescrizioni volte a integrare la Lex salica.470

469 Su questa tesi si veda anche Werner, Gouverner, pp. 89-92. Cfr. con un prospettiva meno recente Classen,

Verträge, che vede in questo capitolare il principio della monarchia contrattuale che si verificherebbe durante

il regno di Carlo il Calvo, la cui legittmità è il frutto di una negozione con i grandi del regno.

470 MGH Capit. II, c.10, p. 16; MGH Capit. I c.1, p. 315; MGH Capit. I c.3, p. 281; MGH Capit. I c.13, p.

A questo proposito, la normativa sugli omicidi e sulle inimicizie può essere un’utile cartina da tornasole per approfondire il legame con il padre in relazione alla rappresentazione della violenza e alla sua gestione nel regno, in modo da determinare se questa continuità sia reale o solo apparente. Tra queste disposizioni i capitoli 7 e 13 del capitolare de legibus addenda dell’818 permettono di valutare l’approccio e le eventuali differenze tra la legislazione di Ludovico il Pio e quella dei suoi predecessori, compreso il Pactus legis salicae. La continuità di procedimenti e la terminologia consentono di apprezzare una grande trasformazione rispetto alle procedure descritte dai capitolari merovingi. Fino ad ora, al di là della struttura amministrativa, il cambiamento più evidente tra la gestione della violenza carolingia e quella dei predecessori è sembrato l’intensità con cui gli eredi dei maestri di palazzo pipinidi sono riusciti a elaborare e ampliare una concezione del potere, e della giustizia, i cui concetti principali erano in parte già presenti nel VI e nel VII secolo. Il confronto, però, ci consente di comprendere più in profondità un aspetto che distingue profondamente la vindicta regia carolingia da quella dei suoi predecessori.

Prima di mettere in relazione la legislazione di Ludovico il Pio con i capitolari di Carlo Magno, e le prescrizioni carolinge con quelle merovinge, è necessario approfondire il contenuto dei due capitoli di Ludovico il Pio sulla gestione delle inimicitiae e delle uccisioni. La prima delle due disposizioni, la numero 7 del capitolare de legibus addenda dell’818, riguarda gli omicidi e ne prescrive la proibizione: «Riguardo la proibizione degli omicidi. Chiunque uccida un uomo, o per una causa veniale o senza motivo, componga il suo guidrigildo a coloro a cui spetta, e sia mandato in esilio, fino a quando il re non abbia deciso altrimenti; tuttavia i suoi beni non siano espropriati.»471

Il capitolo segue l’iter tracciato da Carlo Magno e considera gli omicidi tra i “peccati” da proibire con fermezza. Lo stesso Ludovico, in uno dei primi capitolari emanati, la constitutio de Hispanis in Francorum regnum profugis prima, aveva inserito l’omicidio, insieme ai furti, ai latrocinii e alle violenze sessuali, tra le maiores casuas di cui i conti si sarebbero dovuti occupare nel mallus472. Come ormai consuetudine nella normativa carolingia, e a differenza del Pactus che andava a integrare, la procedura contro

471 MGH Capit. I c. 7, p. 282: «De homicidiis prohibendis. Quicumque hominem aut ex levi causa aut sine

causa interfecerit, wirgildum eius his ad quos ille pertinet conponat. Ipse vero propter talem praesumptionem in exilium mittatur, ad quantum tempus nobis placuerit: res tamen suas non amittat».

472 MGH Capit. I c. 2, p. 261: «Ipsi vero pro maioribus causis, sicut sunt homicidia, raptus, incendia, de

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il reo descritta dal capitolo non consisteva solamente nella composizione del guidrigildo; al contrario il re sanzionava il colpevole con l’esilio per un tempo indeterminato. L’obiettivo principale dell’ordinamento regio nel corso del regno di Ludovico il Pio rimane dunque quello di imporre la pacificazione, assumendo su di sé il compito della vindicta dell’offensore.

Il capitolo numero 13, invece, tratta la coercizione della pacificazione nelle relazioni di inimicizia. A differenza della norma precedente, in cui si trattano gli omicidi commessi ex levi causa aut sine causa, questa disposizione si rivolge alle relazioni ostili nate da un omicidio commesso ex necessitate cogente:

«Riguardo la coercizione della faida. Se qualcuno spinto dalla necessità commette un omicidio, il conte dell’area in cui il fatto è stato commesso, faccia pagare la composizione, e la faida sia pacificata per mezzo di un giuramento. Se una parte non vuole consentire a ciò, vale a dire o chi ha commesso l’omicidio o chi deve ottenere la composizione, faccia venire alla nostra presenza coloro che furono contumaci e noi li mandiamo in esilio per quanto tempo desideriamo, in modo che non possano più essere disobbedienti al suo conte e, soprattutto, che non aumentino le inimicitiae».473

Il capitolo 13 parla dunque di un caso omicidio commesso involontariamente che avrebbe potuto dare inizio a un’inimicizia e che avrebbe potuto causare delle ritorsioni violente tra le parentele. Per questo caso Ludovico il Pio segue l’iter procedurale riguardo le inimicitiae inaugurato dal padre: per prima cosa, impone la pacificazione per mezzo del pagamento di una compensazione; in secondo luogo stabilisce l’esilio, decretato in presenza del re, per chi si fosse rifiutato di concludere una pace. La disposizione conferma quindi la volontà regia di porre sotto rigido controllo l’impiego della violenza nei conflitti tra le parentele.

In relazione alla condanna degli omicidi, l’unica differenza rispetto alla normativa di Carlo Magno si nota nella decisione di Ludovico di precisare la distinzione tra gli omicidi sine aut levi causa e quelli commessi necessitate cogente nella legislazione. Questa distinzione lascia intendere che nell’Impero carolingio vi fossero delle situazioni in

vicino suo aut criminaliter aut civiliter fuerit accusatus et ad placitum venire iussus, ad comitis sui mallum omnimodis venire non recusen».

473 MGH Capit. I c. 13, p. 284: «De faidis cohercendis. Si quis aliqua necessitate cogente homicidium

conmisit, comes in cuius ministerio res perpetrata est et conpositionem solvere et faidam per sacramentum pacificari faciat; quodsi una pars ei ad hoc consentire noluerit, id est aut ille qui homicidium conmisit aut is qui conpositionem suscipere debet, faciat illum qui ei contumax fuerit ad praesentiam nostram venire, ut eum ad tempus quod nobis placuerit in exilium mittamus, donec ibi castigetur, ut comiti suo inoboediens esse ulterius non audeat et maius damnum inde non adcrescat». Cfr. n.504.

cui gli omicidi, e la violenza in generale, fossero parzialmente giustificati e potessero così essere trattati in maniera differente? Sicuramente vi erano dei casi trattati con minore severità. Questo non significa che nel corso del regno di Ludovico il Pio, il valore degli omicidi, e più in generale degli episodi di violenza, non fosse rappresentato e valutato in termini morali, come un comportamento peccaminoso. Osservando le disposizioni delle leges, dei concilii e dei capitolari carolingi si nota che le espressioni necessitate cogente o non sponte commisit sono utilizzata di frequente per introdurre le attenuanti a determinate violazioni e sancire la riduzione della pena. Nel caso di un omicidio, escludendo gli episodi delle morti provocate accidentalmente si potrebbe pensare che la locuzione necessitate cogente rimandi agli episodi di legittima difesa. La stessa legislazione ecclesiastica prevedeva variazioni nella penitenza per i diversi casi di omicidio: i penitenziali così come la legislazione canonica prevedono infatti una penitenza di sette anni per i normali casi di omicidio, e una pena di soli cinque anni per le uccisioni commesse involontariamente.474 In linea con i compiti del rex christianus, Ludovico integra dunque la legislazione del padre e, specificando la distinzione tra violenza volontaria e involontaria, cerca di prevedere procedure differenti in grado di impedire che casi di violenza fortuita possano essere considerati motivi validi per future pretese di composizione da parte della parentela della vittima.

La continuità di procedimenti e la precisazione terminologica consente di apprezzare una grande trasformazione rispetto alle procedure descritte dai capitolari merovingi. La disposizioni si legano per contenuto e terminologia impiegata a una delle prescrizioni di Childeberto II, in cui il re condanna gli omicidi sine causa. La vicinanza del tema trattato ci consente di chiarire un aspetto che distingue i re carolingi dai loro predecessori. Nel caso degli omicidi sine causa, il re merovingio disponeva la pena di morte o legittimava la ritorsione della famiglia della vittima, affermando che qui novit occidere, discat morire475. Al contrario Ludovico, come Carlo aveva già decretato prima di lui, si limitava a sanzionare il reo con l’esilio e non con la pena capitale: lo scopo non era quello di comminare una punizione equivalente al reato dell’omicida, secondo una logica simile alla lex talionis; l’obiettivo principale perseguito con l’esilio, invece, sembrerebbe essere quello di allontanare il colpevole e impedire che l’eventuale inimicitia degenerasse, mettendo in pericolo la pace del regno.

474 Wasserschleben, Beitrage, p. 124-212; Wasserschleben, Bussordmungen. In particolare il Canones

Theodori, pp.181-219; il Poenitentiale Bedae pp. 220-230; il Liber de remediis peccatorum pp. 247-281; il Poenitentiale Cummeani, pp.460-492.

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Tra VIII e IX secolo si verificò quindi un cambiamento nel principio che guidava la vindicta regia: il potere punitivo del rex christianus infatti non sembrerebbe più fondarsi su un mero principio retributivo, come testimoniato anche dal minor numero di situazioni per cui era prevista la pena capitale durante il regno carolingio, sancita solo nel caso di affronti al re, o di recidività del criminale.

Aldilà delle profonde differenze strutturali e dei cambiamenti sostanziali introdotti dalla riflessione in merito al ministerium regio da parte di un clero colto e più attento a proteggere le proprie autonomie, la continuità di procedure nei casi di omicidio e delle inimicitiae tra i regni di Ludovico e del padre sembra sancire il successo della concezione della violenza imposta da Carlo Magno nei suoi capitolari. La crisi politica, causata dalle ribellioni dei figli, tuttavia, ridusse drasticamente la produzione normativa dell’imperatore carolingio dopo l’829. Le trasformazioni verificatesi negli ultimi anni del regno di Ludovico il Pio si riflessero infatti anche sulla legislazione, soprattutto, sui modi con cui i re carolingi utilizzarono questi documenti per trasmettere la propria concezione della violenza nei decenni successivi.