Parte I. La giustizia carolingia: il re, Dio e la licenza di uccidere
Capitolo 1. La realtà dei capitolar
1.7 Carlo il Calvo
1.7.1 I capitolari di Carlo il Calvo
La produzione di capitolari di Carlo segna un grande punto di svolta rispetto ai suoi predecessori. Nel leggere queste testimonianze si può constatare la volontà del redattore di sottolineare la corrispondenza tra l’attività legislativa e l’intevento dei grandi del regno: tutte le disposizioni si aprono infatti con la precisazione di essere state promulgate «con il consilium et consensus dei vescovi e dei nostri fedeli».487 Tutte le misure di portata generale, dunque, sono introdotte nella forma di un concorso di volontà tra il re e l’assemblea dei grandi, proprio come descritto da Incmaro di Reims nel suo De ordine palatii, in cui qualifica i membri con l’appellativo di senatores regni.488
Fare la legge rimaneva senza dubbio una prerogativa fondamentalmente regia e non era immaginabile che i capitolari potessero essere promulgati da altri. Ma fare e promulgare la legge era ormai, più che in precedenza, una questione che dipendeva dall’adesione dei vescovi e dei grandi del regno.
La dipendenza di questo consensus non costituisce l’unica novità. Durante il regno di Carlo il Calvo si verifica un netto cambiamento della funzione legislativa: infatti, nel legiferare, il re sembra doversi assicurare principalmente di conservare le leggi dei predecessori e i sancti canones. Ad esempio nel capitolare silvacense, emanato nel 853 in seguito al patto stipulato con il fratello Lotario I per la salvaguardia della pace nel regno, Carlo ribadisce la necessità di rispettare alcune delle disposizioni promulgate dal padre: «soprattutto riguardo i ratti dei fanciulle, e le cause delle vedove….siano investigati con fermezza, siano giudicati alacremente e sia fatta giustizia, secondo ciò che è stato stabilito nei capitolari degli avi e dei loro padri.» Nel capitolare di Quierzy, invece, il re rimanda direttamente ai passi delle norme di Carlo Magno e Ludovico il pio: il capitolo 1 del 486 Duffalt, Anathema, pp. 319-332. Oltre a lui si veda anche i contributi di Yves Sassier: Sassier, Le roi, pp.
257-273; Sassier, Tradition, pp. 243ss.
487 MGH Capit. II c.1, p. 307; Nelson, Legislation, pp. 91–116; Sassier, Le roi, pp. 257-273.
488 MGH Fontes Iuris III, p. 256. Sul de ordine palatii tra gli studiosi non vi consenso su quanto quest’opera
possa effettivamente essere utilizzata per ricostruire le procedure legislative carolinge di IX secolo. A questo proposito Nelson, Charles , pp. 43-50 sostiene che il de ordine palatii non sia solo una fonte prescrittiva, ma possa essere preso come una descrizione attendibile del governo di Carlo il Calvo. Nei suoi ultimi lavori la prospettiva è cambiata in merito all’attribuzione della prima versione dell’opera ad Adalardo, Nelson,
Aachen, pp. 226-232. Cfr. Halphen, De ordine palatii, pp. 1-9; Bachrach, Adalhard, pp. 3-34, che seguono
l’argomentazione della storiografia classica che identifica l’autore di gran parte del testo con Adalardo. Su questa tesi si vedano anche McKitterick, Charlemagne , pp. 142-155; Kasten, Adalhard, pp. 72-84.
capitolare in Theodonis villa contro coloro che si ribellano per aliqua scelera alla giustizia regia o il capitolo 16 sulla pace negli eserciti promulgato nell’admonitio ad omnes regni ordines.489
Questa nuova tendenza, che fa dell’attività legislativa una riproduzione della normativa precedente, si afferma definitivamente a partire dal 850, probabilmente in seguito alla crisi prodotta dalle invasioni Normanne e dai tentativi di destabilizzazione politica ad opera del fratello Ludovico il Germanico. Il ricorso alla legislazione dei predecessori e ai sancti canones è dunque interpretabile come una risposta al periodo di insicurezza, di cui danno conto gli Annales Bertiniani e i concili vescovili. Il passato era considerato portatore di un’auctoritas in grado di rafforzare la posizione del regnante quanto di dare vigore alle sue disposizioni in materia “penale”.490
A sostenere questa operazione fu sicuramente una parte del potere vescovile. Osservando la produzione normativa di Carlo il Calvo si nota la forte influenza della riflessione di Incmaro: infatti l’idea della conservazione della legge è compresa nelle sue opere come la principale arma contro la divisione e il declino. Tale atteggiamento è condiviso dall’intero corpo vescovile: nel 881 infatti i vescovi si riunirono in un sinodo a Saint-Macre e, difronte alle malvagità che sconvolgevano il regno, non produssero nuove regole, ma si richiamarono agli antichi canoni e alle antiche leggi emanate dagli imperatori e dai re cristiani «come a una luce nelle tenebre.»491
Probabilmente fu proprio il clima di tensioni politiche e sociali verificatesi nel corso del regno di Carlo il Calvo a favorire la nuova fase di collaborazione tra vescovi e potere regio. Le preoccupazioni per i soprusi e i conflitti sorti nel regno, che mettevano a rischio soprattutto i beni della chiesa, spinsero il clero a supportare il re nell’amministrazione della giustizia. In questo contesto, la condanna della violenza attraverso l’esercizio del potere punitivo divenne un compito di primaria importanza per il rex christianus.
Ma quale fu l’effetto di questo cooperazione tra i vescovi e la figura regia sulla concezione della violenza? Come già visto in precedenza, a risentire di questo coinvolgimento attivo non fu solamente la forma della legislazione; ne subirono l’influenza anche l’immagine della violenza e le procedure di gestione della disputa e di punizione dei “criminali”, promosse dalla normativa regia. Non è un caso che nel regno di Carlo il Calvo
489MGH Capit. II c.1, p.272; cfr. MGH Capit. I c.1, p. 78 e MGH Capit. I c.16-17, p. 305 con il MGH Capit.
II c. 4-6 , p. 290.
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la violenza continuasse a rappresentare in primo luogo un peccato e che la preoccupazione principale della legislazione sembri essere quella di imporre la penitenza. L’impegno dei vescovi nella correctio dei peccatori come parte integrante dell’amministrazione della giustizia non costituisce certo una novità per il periodo carolingio: il coinvolgimento dei concili in materia secolare era stata una tendenza crescente già durante i regni di Carlo Magno e, soprattutto, di Ludovico il Pio. Infatti l’imposizione dei provvedimenti canonici attraverso la legislazione secolare era un tratto caratteristico della giustizia carolingia fin dai tempi di Carlo Magno. Tuttavia, tra l’VIII e il IX secolo, la normativa regia di rado ne fa menzione esplicita per i casi di giustizia “penale”. Al contrario, a partire dall’850, tutti i capitolari di Carlo II inseriscono la penitenza tra le sanzioni necessarie per emendare il “crimine”; a volte menzionano il bannus dominucum o la condanna regia all’esilio solo dopo aver chiarito quale sia l’iter necessario per rendere possibile la penitenza del colpevole. Emblematico rispetto a questa tendenza è l’esempio che ci offrono il capitolare di Quierzy (857) e il capitolare di Pîtres dell’862.
Il primo di questi testi legislativi è emanato in associazione con un sinodo vescovile a Quierzy durante il mese di febbraio dell’857, nel pieno della riorganizzazione, ammnistrativa e politica della Neustria e del caos provocato dalle invasioni normanne del regno492. Allo scopo di risolvere le problematiche sorte dai disordini amministrativi verificatisi nel regno, in particolare per porre fine all’appropriazione indebita dei beni delle chiese operata dall’aristocrazia laica, si dunque era tenuta una riunione dei vescovi e dei grandi del regno alla presenza di Carlo il Calvo.
Il risultato di questa assemblea è un testo che contiene una decina di capitula regi, un’admonitio vescovile e una serie di disposizioni che ripropongo alcune delle leggi emanate durante regni di Carlo Magno e Ludovico il Pio. L’ammonizione, opera probabilmente di Incmaro di Reims e conosciuta con il nome di Collectio de raptoribus, è costruita attraverso l’impiego delle decretali pseudo-isidoriane, composte nel contesto della diocesi di Reims principalmente per difendere le prerogative dell’episcopato e per definire la questione dell’uso del patrimonio ecclesiastico a metà del IX secolo. Secondo la fonte, l’autore della falsificazione intende proclamare la piena autorità del clero sulle proprietà ecclesiastiche e la sanzione contro ogni forma di appropriazione dei beni delle chiese, rappresentata come un sacrilegio. Riprendendo queste lettere falsificate, Incmaro 491 PL .vol. CXXV, col. 1069.
492 Per un resoconto completo delle attività delle popolazioni normanne in Francia nell’850 si veda Vogel,
ripete dunque la condanna dei pravi homines che derubano le chiese e i poveri: «chiunque commette un’ingiuria contro la chiesa, si appropria dei suoi praedia e delle offerta fatte è considerato un sacrilego» ed è condannato alla dannazione.493
Questo spirito della collezione falsificata si ritrova anche nelle prime dieci diposizioni regie, in cui il re, a fronte del moltiplicarsi dei brigantaggi e delle rapine, causate dalla disorganizzazione amministrativa, prescrive con severità le procedure per la sanzione nei confronti dei colpevoli di furti e delle appropriazioni indebite dei beni della chiesa. Seguendo i principi esposti da Incmaro nella Collectio de raptoribus, in cui si ricorda ai peccatori di fare ammenda delle proprie colpe per evitare la condanna divina, il re impone la penitenza come prima sanzione contro tali gravi crimini. Per questi peccati, ricorda il testo, i vescovi devono ricordare ai fedeli, per mezzo dei loro sermoni, la penitenza e la vindicta a cui devono sottostare coloro i colpevoli. I missi, invece, sono incaricati di condannare i rapinatori facendo applicare le prescrizioni emanate dagli avi. Ai vescovi spetta dunque il compito di interdire il peccato e ai rappresentanti del re quello di proibirlo. Il criminale deve quindi innanzitutto dare soddisfazione a Dio, ossia deve emendare il proprio peccato: confrontando la disposizione con la collectio de raptoris e con il titolo 2 del capitolare, che parla della degna penitenza per tale crimine, è chiaro che la prima forma di correzione imposta dal re sia la penitenza. Accanto a tale punizione imposta dai vescovi, il reo avrebbe dovuto sopportare la sanzione regia, che consisteva nel pagamento del banno494.
Coloro che si rifiutano sarebbero dovuti essere condotti al re per essere giudicati dai suoi fideles. Se contumaci, invece, sarebbero stati scomunicati: la fonte parla infatti dell’ordine a escludere coloro che violavano l’obbedienza e il rispetto a Dio, dalla chiesa e dalla comunità dei fedeli sia in cielo che in terra; questi sarebbero stati perseguiti come
493 Sulle decretali pseudo-isidoriane fondamentale è il lavoro di Fuhrmann, Einfluss. Per un’interpretazione
del suo riuso nel pensiero di Incmaro si veda Moore, Sacred Kingdom, pp. 372-374; Devisse, Hincmar, pp. 294-303.
Hartmann, Synoden, pp. 252-253. Magnou-Nortier, Enemies, pp. 58-79.
494 MGH Capit. II c.3-4, pp. 286-287: «Missi quoque legales sententias, sicut eas cognitas habent, adnotent,
et praedecessorum nostrorum regum atque imperatorum nostraque capitula de hac causa in unum collecta omnibus nota faciant. Et episcopi Dei et episcopali auctoritate tales depraedationes omnibus interdicant. Et missi ac comites nostri cunctis ex nostro regio banno prohibere firmiter studeant, ut a cognoscant omnes, quia, si abhinc inante in nostro regno talia facere aliquis praesumpserit, secundum divinas sententias episcopalem excipiet sententiam et secundum leges ac capitularegia emendare cogetur et secundum iudicium fidelium nostrorum condignam vindictam suscipiet».
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nemici di Dio, nemici delle santa chiesa, e devastatori del regno, fino a quando non fossero stati sterminati.495
Dalle prescrizioni iniziali si riscontrano dunque una serie di interessanti dettagli. Se osserviamo l’ordine delle persone e delle istituzioni violate del crimine pubblico è evidente che i crimini siano considerati prima di tutto peccati gravi, ossia una violazione nei confronti di Dio, del clero, suo intermediario immediato, e successivamente del re, in quanto rappresentante dell’ordine di Dio nel secolo. Pertanto, la penitenza e la scomunica divengono sanzioni regolate nella normativa secolare e sostenute dal potere coercitivo del re, che fa proprie preoccupazioni del clero e della chiesa locale con un’intensità e una portata maggiore rispetto ai predecessori: nei capitolari emanati tra VIII e IX secolo, infatti, al di là del crescente numero di riferimenti nella legislazione di Ludovico il Pio alla penitenza prescritta dai canoni, i re carolingi non avevano mai fatto riferimento, salvo rarissime eccezioni, alla scomunica.
Questa ruolo di primo piano posseduto dai vescovi non è effetto della debolezza del re e della sua subordinazione nei confronti del clero. Piuttosto sembra semplicemente il frutto di una maggior rilevanza dei vescovi negli affari politici del regno, della loro più profonda consapevolezza circa il loro ruolo nella società e dell’importanza che il sostegno ecclesiastico riveste per il re in una fase di scontri turbolenti contro l’aristocrazia della Neustria. Per sostenere la propria vindicta Carlo il Calvo si serve infatti dell’appoggio del clero. In questa direzione si spiega il riconoscimento del ruolo della scomunica nell’amministrazione della giustizia secolare da parte della legislazione regia.
L’esclusione dalla comunità dei fedeli comporta uno status simile a quello del pagano, che priva il criminale del diritto di ricevere i sacramenti e di esercitare qualsiasi ufficio “pubblico”. In un mondo in cui l’ecclesia ha un significato politico e spirituale, in cui il battesimo rappresenta la condizione per l’appartenenza al popolo carolingia e in cui la chiesa, i suoi riti e le sue liturgie, rappresentano quindi il fulcro dell’esistenza sociale, politica e giuridica dei membri del popolo franco, questa condanna implica la rottura dei normali rapporti con i membri della comunità locale. A livello giuridico, però, la
495 MGH Capit. II c.6-7, p. 287: «Si autem aliquis quiscumque inoboediens extiterit, cum summa festinatione
nobis notum facere curent, ut quantotius e ad nostram praesentiam illum venire iubeamus, et dignam ultionem secundum iudicium fidelium nostrorum sustineat.». MGH Capit. II c.7, p. 287: «Et si, quod absit, talis emerserit, qui Dei timorem postponat et ecclesiasticam auctoritatem contempnat et regiam potestatem refugiat, sciat, quiscumque ille fuerit, quia et secundum canonicam auctoritatem ab omnium christianorum coetu et a sanctae ecclesiae consortio et in coelo et in terra alienus efficietur et regali potestate atque omnium regni fidelium unanimitate sicut Dei et ecclesiae inimicus et regni devastator persequetur, usque dum a regno exterminetur».
conseguenza più rilevante prodotta dalla scomunica è un’altra: ciò comporta l’esclusione dalla protezione assicurata a tutti i fedeli dal rex christianus in quanto minister di Dio. Da un lato dunque l’inserimento di riferimenti alla procedure di scomunica nella normativa regia è funzionale ad acquisire uno strumento potente, in mano al clero, che legittima l’esercizio della forza contro coloro che non ottemperano agli ordini regi. Dall’altro, la scelta di adottare disposizioni canoniche che prevedono la scomunica comporta la possibilità esercitare un controllo, riguardo i casi e le procedure da seguire per imporre tale sanzione, utile a promuovere il ruolo del re di garante dell’ordine divino nella società cristiana.
Alla luce del peso sempre crescente del clero nell’amministrazione del regno, nel regno dei Franchi occidentali la caratterizzazione morale della violenza si conferma quindi, in modo ancora più netto rispetto ai precedenti governi, un elemento distintivo della normativa regia carolingia. Dopo essere stata una tendenza già durante il regno di Ludovico il Pio, l’adozione del linguaggio biblico e dei provvedimenti canonici all’interno della legislazione secolare diviene infatti un tratto caratterizzante la normativa regia. A questo proposito è particolarmente significativo il capitolare di Pîtres dell’862. Questo corpo di norme è il risultato di un’assemblea dei grandi del regno, tenutasi in associazione a un sinodo episcopale che era stato organizzato per dirimere la questione della disputa tra Incmaro di Reims e uno dei su vescovi suffraganei, Rotado di Soissons. Convocata da Carlo il Calvo, il sinodo affronta una serie di questioni spinose rispetto all’amministrazione del regno: la difesa del regno dagli attacchi normanni, la severa condanna dei latrocinia, degli omicidi e dei furti ai danni della chiesa, ma soprattutto le conseguenze delle sollevazioni dei potentes del regno.
Il contesto del capitolare, dunque, è la fase di riorganizzazione successiva alla ribellione dell’aristocrazia della Neustria, guidata tra gli altri da Roberto il Forte, con il quale il re concluse una pace nell’860, e all’invasione del regno dei Franchi occidentali ad opera di Ludovico il Germanico (858), la cui di conquista fu fermata anche grazie all’opposizione dei vescovi del regno. Questa normativa, dunque, può essere considerata come il risultato di una prima e profonda riflessione dell’ambiente vicino al re sui fatti accaduti. Come nel caso del capitolare di Quierzy, il testo si appropria del linguaggio utilizzato dal clero per descrivere sia i soprusi commessi nel regno e sia la necessità di assicurare la pace. Per cogliere meglio questo aspetto basta volgere l’attenzione al prologo e alla sua descrizione della situazione politica e sociale del regno: nella rappresentazione del prologo il regno franco è il luogo in cui i mali crescono su istigazione del diavolo,
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tanto per gli sconvolgimenti provocati dai pagani quanto per i peccati dei cristiani496; la
terra è «devastata», si legge, «perché abbiamo estirpato dal campo del nostro cuore i fiori e i frutti della fede, della speranza, della continenza e delle altre virtù, e li abbiamo sostituiti con le spine e le ortiche del peccato». Gli uomini sono uccisi perché «noi stessi uccidiamo con la spada del peccato».497
Come per i documenti normativi dei predecessori è evidente che anche nell’immaginario cristiano promosso dalla legislazione regia durante il regno di Carlo il Calvo le azioni violente del secolo continuano a rappresentare il frutto del comportamento peccaminoso dell’uomo. Se la violenza è descritta in termini cristiani, lo stesso vale per la sanzione dei comportamenti violenti. Nel titolo 4 del capitolare di Pîtres dell’862 la condanna delle depredazioni è tratta da alcuni passi paolini della lettera ai Corinzi: «nessun rapace, né omicida, né adultero possiede il regno di Dio; e se qualcuno è fornicatore, o adultero, o ladro o omicida, non riceva cibo». Per questi peccati, ricorda il testo, il cristiano deve dare soddisfazione a Dio, ossia deve correggere, emendare e fare una degna penitenza498. Al contrario, si legge, coloro che si rifiutano sono condannati dall’imperatore
a essere scomunicati, come prescritto dai sacri canoni, fino a quando non si siano corretti; se disobbedienti, invece, avrebbero devono essere condotti al re per essere giudicati dai suoi fideles e intanto sarebbero stati perseguiti come nemici di Dio, nemici delle santa chiesa, e devastatori del regno, fino a quando non fossero stati sterminati. Allo stesso modo sarebbero stati trattati i fideles che avessero violato altri provvedimenti della legge umana e divina. Tra questi Carlo il Calvo cita quanti fossero colpevoli di diserzione, ribellione, di congiure, di sedizioni, del rapimento di donne e di omicidi499.
La prescrizione riprende la disposizione contenuta nel capitolare di Quierzy emanato cinque anni prima. Se però nella normativa dell’857 la procedura e l’associazione del criminale contumacie allo status di nemico di Dio e del regno era limitata al caso delle depredazione delle proprietà ecclesiastiche, in questa nuova legislazione, il re si comporta in modo analogo nei confronti dei peccati pubblici -come il ratto, gli omicidi, le sedizioni e
496 MGH Capit. II c. 1, p. 303: «Sed diabolo satagente supervenientibus perturbationibus tam a paganis,
quam a nominetenus christianis miserabiliter excitatis, incepta bona defecerunt, et in tantum in hoc regno mala horribilia increverunt, ut in nobis videamus et sentiamus completum, quod olim est per prophetam praedictum».
497 MGH Capit. II c.1, p. 304: «Ideo habitatores terrae occisi et fugati sunt, quia nos ipsos peccati gladio
occidimus et omnia bona».
498 MGH Capit. II c.4, p. 308: «Et item sanctus Paulus, per quem locutus est Christus, dicit, quia neque
rapaces neque homicidae neque adulteri regnum Dei possidebunt. Et item: Si quis fornicator est aut adulter aut rapax aut homicida, cum huiusmodi nec cibum sumere Christi discipulo, id est christiano, licet ante satisfactionem, id est correctionem ac emendationem et dignam poenitentiam».
le congiure- che nel capitolo 4 di Pîtres sembrano dunque equiparati alle violazioni della legge divina e sono dunque condannati come un grave sacrilegio.
Nella legislazione di IX secolo La violenza era condannata in modo esplicito come un’offesa a Dio e ai suoi comandamenti. Spettava ancora ai suoi rappresentanti ottenere soddisfazione di questo affronto. Tuttavia rispetto ai regni predecessori, durante il governo di Carlo il Calvo a svolgere questa i re sono affiancati in modo più invasivo dai vescovi,