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Conflitto e violenza nella società dell’Alto Medioevo: l’interpretazione della storia culturale

Nell’abito degli studi sul conflitto altomedievale le novità introdotte dalla medievistica anglo-americana e francese non riguardano semplicemente la prospettiva storico-sociale. A partire dagli anni ’80 diversi medievisti adottano un approccio storico- culturale per comprendere il significato dei conflitti nel periodo post-carolingio: si dedicano a definire la questione degli strumenti culturali a disposizione dagli attori coinvolti per gestire i conflitti e per dare significato alle proprie dispute. Osservando gli studi pubblicati in questo periodo possiamo distinguere tre aree di interesse emerse nel corso degli anni ’80 e ‘90: la prima è legata all’attenzione posta sui rituali, sui gesti, sulle cerimonie e sulla loro funzione nel conflitto; la seconda, invece, studia il valore delle rappresentazioni scritte nella gestione delle dispute; l’ultimo campo in cui cresce l’interesse per l’analisi della violenza medievale, invece, è quello della storia delle emozioni.

a) Già nel 1978 White pone l’attenzione sul ruolo dei gesti nelle conclusioni extra- giuridiche delle dispute fondiarie.84 La questione della ritualità nella conflittualità 83 Gorecki (a cur. di), Conflict, p. 22.

84 Molti di questi studi sui gesti e sulle azioni dimostrative sono anticipati da Leyser, Rule il quale tuttavia

non adotta un approccio culturalista. Per alcuni esempi più vicini alla prospettiva storico-culturale si veda White, Pactum, p. 297; White, Feuding, pp.256ss.; alcune considerazioni, seppur scarse, sono contenute già nel saggio pubblicato da Henri Platelle del 1971, Platelle, La violence, pp. 133ss.

medievale è affronta sempre tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80 anche da Little e Geary: le loro ricerche sulle dispute monastiche mostrano come tra XI e XII secolo i rituali liturgici quali le maledictiones, i clamores e le humiliatione sanctorum fossero impiegati nei conflitti con gli oppositori laici. Queste pratiche rituali avrebbero avuto la funzione di separare l’avversario dalla protezione di Dio e dalla comunità dei cristiani, isolandolo così dalla società locale e rompendo le normali relazioni di vicinato e parentela.85 Altre azioni dimostrative, constata Geary nel suo lavoro sul culto dei santi pubblicato nel 1986, marcavano e segnalavano pubblicamente l’inizio e la conclusione della controversia, in modo da avvertire la cominità sulla stato della relazione conflittuale, attirare l’attenzione e invitare la società locale all’intervento.86 A partire da queste considerazioni, Rosenwein e Little hanno esaminato la liturgia cluniacense nell’Alto Medioevo, dando una nuova interpretazione dei rituali monastici. I due studiosi trattano le maledizioni come una forma di esercizio della violenza: i monaci si comportavano come in una rituale battaglia spirituale, in cui i confratelli si difendevano dagli attacchi dei loro nemici in modo analogo a quanto era stato osservato per l’aristocrazia laica. Solo le armi a cui si appellavano erano differenti: i monaci combattevano con le maledizioni e miracoli di punizioni, i laci con le spade.87

b) Un'altra tematica approfondita dagli studi che adottano una prospettiva storico- culturale è l’analisi della scrittura come strumento nella gestione dei conflitti, vale a dire lo studio di quella che potremmo definire la violenza retorica. Agli inizi degli anni ’90 analizzando i conflitti tra l’abbazia di Sant’Ambrogio a Milano e i servi del complesso di terreni posseduti dal monastero a Limonta tra IX e X secolo, Ross Balzaretti ha esaminato l’impiego della cultura scritta nel corso della disputa.88 Anche Rosenwein, Head, e Remensnyder esplorano e chiariscono il modo in cui i monaci utilizzavano l’agiografia e le opere di carattere storico per contrastare la violenza dell’aristocrazia laica: i racconti dei

85 Sulla relazione tra clamores e maledictiones e la gestione dei conflitti di veda Little, Formules, p. 385;

Little, Morphologie; Little, Benedectine, in particolare pp. 200-218 e pp. 226-229; cfr. Koziol, Monastic, pp. 70ss.. Sulla funzione delle humiliationes come strumento della conflittualità monastica si veda Geary,

Humiliation, p.123ss. e p. 137.

86 Geary, Vivre, p. 1119 e p. 1124; Geary, Humiliation, p.133; per un confronto con il mondo inglese si veda

Hyms, Feud, p.4ss. Sul della ritualità in epoca carolingia questa prospettiva è da confrontare con i lavori sulla ritualità di Janet Nelson, pubblicati tra gli anni ’80 e la fine degli anni ’90: Nelson, Politics; Nelson, Literacy pp. 258–296; Nelson, Peace, pp. 87–114; Nelson, Violence, pp. 90–107.

87 Little-Rosenwein (a cur. di), Meaning, pp. 10-13, in particolare pp. 13, e p. 32. Cfr. Rosenwein, War. 88 Balzaretti, Monastery, pp. 1-18.

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miracoli di punizione erano regolarmente impiagati per intimidire l’avversario e per attaccarlo attraverso messaggi critici veicolati nelle loro storie.89

c) Un altro campo che ha prodotto interessanti novità nel campo dell’analisi della violenza medievale è quello della storia delle emozioni. Per molto tempo, la storiografia classica, influenzata nel XX secolo grazie alla teoria della civilizzazione di Norbert Elias, ha interpretato la violenza come la conseguenza dell’incapacità barbarica di frenare e controllare le proprie pulsioni istintuali. A partire dalla fine degli anni ’80 diversi studi in campo internazionale, hanno cercato di rivedere l’interpretazione di Elias, influenzati dalle teorie elaborate nel campo del costruttivismo sociale. In questo ambito, le emozioni sono considerate degli artefatti culturali, costruiti socialmente. La premessa dei lavori sulle emonizione nel Medioevo è medesima: il linguaggio è il mezzo attraverso cui si esprimono le interazioni emotive. Proprio per la loro natura le parole e le dichiarazioni che definiscono le emozioni violente fungevano in larga misura da giudizio su comportamenti in contesti sociali specifici.90 Osservando queste narrazioni, secondo Rosenwein, così come altri studiosi che dopo di lei hanno seguito questo filone di studi, è dunque possibile ricostruire le norme sociali e le credenze che in una determinata comunità provocavano una particolare risposta emotiva.

Nel corso degli anni ’90 e del secolo successivo, gli studi sulla conflittualità si confrontano in maniera specifica con la rappresentazione delle emozioni aggressive proprie dei comportamenti violenti descritti nelle fonti medievali. In The politics of Anger, Stephen White investiga le manifestazioni pubbliche di ira da parte di re e dei nobili nel corso del Medioevo; egli osserva che la rabbia non era un’esplosione incotrollata di sentimenti, ma uno strumento comunicativo, utilizzato consciamente per specifici scopi politici. In connessione con la competizione politica e le dispute legali, la publicizzazione dell’ira segnalava un’alterazione dei rapporti tra i contendenti provocato da un’offesa subita ed esprimeva la prontezza alla ritorsione violente di una delle parti. La violenza non era dunque «una risposta psicologica generata da stimoli esterni che la cultura medievale

89 Per il significato dei testi agiografici come strumento dei monaci di Cluny e Fleury nel X secolo si veda

Rosenwein-Head (a cur. di), Monks, pp. 769ss. e 785 ss.. Per l’area a sud della Francia si veda invece Remensyder, Remembering, pp. 215-288.

90 Un’utile introduzione sui presupposti teorici della storia delle emozioni, sul costruttismo sociale e il suo

sviluppo è contenuta in Misch, A History, in particolare pp. 526-537 che enfatizza i fattori che concorrono nel formare l’espessione sociale delle emozioni e Dumont, Christian, pp. 23-59. Per una valutazione sull’applicazione di queste teorie in ambito storico si veda Rosenwein, Emotional Communities e Rosenwein (a cur. di), Angers’Past, in cui si critica l’impostazione classica sull’emotività del Medioevo promossa dagli studi di Elias; Airlie, History, pp. 235-241; Garrison, Study, pp. 243-250.

non era in grado di reprimere adeguatamente»91. Daniel Lord Smail conferma questa conclusione negli studi sull’odio nella Marsiglia di XIII secolo. Egli mostra che le dichiarazioni di odio contenute negli atti notarili e nei registri delle corti di giustizia non erano espressioni dei sentimenti dei protagonisti. Nella maggior parte dei casi si trattava infatti di esibizioni pubbliche convenzionali- l’insulto o il mancato saluto- finalizzate a dichiarare formalmente lo stato di inimicizia. Anche nei documenti giudiziari marsigliesi, come nelle fonti storico-narrative analizzate da White, l’odio corrispondeva a un idioma delle relazioni ostili piuttosto che a uno stato psicologico92. Il contesto medievale sembra dunque confermare quanto sostenuto dal costruttivismo sociale, ossia che le emozioni siano in gran parte degli artefatti culturali. Proprio per la loro natura le parole e le dichiarazioni che definiscono le emozioni violente fungevano in larga misura da giudizio sui comportamenti in contesti sociali specifici.93

2.4 Conflitto e violenza nella società dell’Alto Medioevo: il modello di Gerd