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Carlo Magno e la rappresentazione della giustizia nei capitolar

Parte I. La giustizia carolingia: il re, Dio e la licenza di uccidere

Capitolo 1. La realtà dei capitolar

1.5 Carlo Magno

1.5.2 Carlo Magno e la rappresentazione della giustizia nei capitolar

La concezione del potere espressa dalle lettere di Alcuino nasceva in un preciso contesto politico e sociale, definito della sinergia tra potere vescovile e potere regio. L’integrazione del potere regio e del potere vescovile era il frutto dell’influenza di un’élites educata, che agiva in modo unitario e manipola una tradizione intellettuale e legale che, sotto i carolingi, divenne la base della rivendicazione regia sull’autorità. Questo contesto non determina solo l’origine delle lettere di Alcuino, ma si riflette direttamente anche nella produzione normativa di Carlo Magno.

L’influenza episcopale sulla legislazione regia è evidente sin dall’inizio del regno del figlio di Pipino il Breve. Nei suoi primi documenti, Carlo si proclama «re per grazia di Dio, rector dei Franchi e devoto difensore della santa chiesa e suoi aiuto in tutte le faccende che la riguardano». Il re agiva come un rector, una guida, «assumendo il controllo della legislazione in risposta alle esortazioni della sede apostolica e di tutti i nostri fedeli, soprattutto dei vescovi e dei preti».403 I vescovi avrebbero beneficiato di 401 Garrison, New Israel, pp. 114-161.

402 MGH Epp. 4, Lettera 174, p. 288: «Tu vindex scelerum, tu rector errantium».

403 MGH Capit. I c. 1, pp. 44: «Karolus, gratia Dei rex regnique Francorum rector et devotus sanctae

ecclesiae defensor atque adiutor in omnibus. Apostolicae sedis hortatu, omniumque fidelium nostrorum, et maxime episcoporum ac reliquorum sacerdotum».

questa potente collaborazione, poiché Carlo confermava le antiche legislazioni sull’obbligo dei fedeli a pagare la decima alla chiesa e rafforzava queste disposizioni con nuova energia.

Sotto il governo di Carlo, la legge scritta divenne l’espressione principali e caratteristica del potere regio su una scala che i re Merovingi non riuscirono mai a ad immaginare. Sebbene anche questi avessero emanato alcuni editti, un incremento senza paragoni sia nella quantità che nella qualità distingue la normativa prodotta dalla cancelleria regia carolingia da quella dei loro predecessori. A differenza dei predecessori, i cui editti si erano concentrati principalemente sulla violazioni e sulle controversie, i capitolari carolingi non riguardavano solamente un particolare ambito dell’azione umana, ma nomavano in diverse sfera della vita sociale, come ad esempio in diritto ereditario e matrimoniale. Inoltre, dal matrimonio sino alla condotta dei chierici, i capitolari imponevano direttive piuttosto che definire dei semplici rimedi. Come ha giustamente sottolineato Micheal Edward Moore, la legislazione carolingia rappresentava dunque una nuova direzione rispetto alla lex salica: era politica e religiosa allo stesso tempo404.

Per avere un’idea del cambiamento basta osservare la collaborazione tra la potestas del potere regio e vescovi. Nel combattere il paganesimo, infatti, i vescovi continuavano a chiedere aiuto al rappresentante regio, il grafio, il quale, a livello locale, era il difensore delle chiese. Con Carlo Magno, però, il potere regio divenne parte integrante di questo obiettivo missionario. A partire dall’VIII secolo i vescovi erano istruiti dal re a viaggiare ogni anno nella loro diocesi per insegnare e investigare il popolo o per proibire le pratiche pagane. In precedenza queste preccupazione erano affrontate nel contesto dei concili vescovili e, solo in modo discontinuo, avevano interessato la legislazione dei re merovingi. Ora, nelle mani della potestas regia, gli imperativi episcopali, acquisivano una nuova qualità coercitiva, mentre il re otteneva una salda forma di legittimazione405.

La combinazione del potere regio ed episcopale risultò presto in una precisa connotazione universalista data al regno carolingio e in una nuova fisionomia assunta della regalità. Il ruolo tradizionale di condottiero e di leader guerriero rimase un tratto caratterizzante il re carolingio. Ma, come abbiamo visto nelle lettere di Alcuino, le qualità della regalità tradizionale furono tradotte e riformulate in contesto cristiano. Se le razzie, le competizioni con i popoli vicini continuano ad essere un normale aspetto della potestas

404 Moore, Sacred Kingdom, p. 256.

405 Su questa collaborazione gli studi più recenti sono Patzold, Episcopus, in particolare pp. 65–67 che dà una

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secolare, l’obiettivo di questa potentia è però differente. Secondo la propaganda regia, Carlo Magno detiene la spada per combatter le iniquità ed espandere i confini dell’ecclesia: la diffusione del cristianesimo e la protezione della chiesa erano i principali compiti che connotavano la regalità. La missione del potere regio comportò la revisione della concezione tradizione del potere attraverso l’integrazione di virtù tra loro legate: le virtù marziali e la iustitia del re furono integrate infatti dalla sapientia.406

La sapientia era un prerequisito per poter dirigere le conversione delle popolazioni pagane, ma anche per guidare il proprio popolo alla salvezza. L’amministrazione della giustizia e l’esercizio del potere punitivo non potevano prescindere dalla conoscenza della legge di Dio e dei suoi comandamenti, perché essi costituivano la prima legge del regno carolingio. I precetti biblici e le norme conciliari tratte dalle collezioni canoniche divennero così un elemento integrante dei capitolari programmatici.

Osservando la normativa emanata da Carlo Magno notiamo come questa concezione del potere, promossa anche da Alcuino nel suo epistolario, fu presto tradotta nella produzione normativa del re carolingio dai membri della sua corte. In questo senso uno degli esempi più significativi è costituito dal più importante capitolare programmatico, l’Admonitio generalis del 789 407, emanato per la riforma della chiesa e della società franca. Il prologo introduttivo presenta il re nella vesta di rex et rector regni francorum, l’umile difensore e aiutante dell’ecclesia che, scelto dalla misericordia divina, ammonisce con solerzia i membri del populus Dei, affinché seguissero i corretti precetti cristiani, conservassero la pace, la concordia e l’unità tra tutti i cristiani. In questo suo ruolo, egli domanda ai vescovi di vegliare con cura vigile e ammonizione ferma, «in modo da condurre il popolo di Dio verso il pascolo della vita eterna», e annuncia la venuta dei missi regi che, insieme al clero, dovevano sistemare «ciò che deve essere corretto». Nella svolgimento di tale funzione educativa, il re era responsabile difronte a Dio «della salvezza del popolo e della benevolenza divina».408

406 Sull’idea di missione che sostanzia la nuova forma di regalità si veda Wood, Missionary life; Clay,

Landscapes; Dumont, Alcuin, pp. 417–429; Kamp- Kroker(a cur. di), Schwertmission. Sulla concezione delle

opere missionari e delle sue motodologie si veda Sullivan, Missionary Theories, pp. 273–295; Sullivan,

Christian Missionary; Wood, Ideas of Mission, pp.183–198.

407 Sul contesto dell’Admonitio si veda Mordek, Admonitio; McKitterick, Frankish Kingdoms, p. 145;

McKitterick, Carolingians, p. 20. La centralità dell’idea di riforma e missione espressa nelle lettere di Alcuino si trova nell’Admonitio. A questo proposito si veda Brown, Introduction, pp. 1-51, in particolare 17- 21 in cui sostiene che l’iniziativ fosse stata promosso direttamente da Carlo Magno. Si veda anche Magnou- Nortier, Admonitio generalis, pp. 195–242 che riconsidera la datazione del testo, spingendosi a sostenere che il testo abbia subito interpolazioni successive.

408 MGH Capit. I c. 62, p. 58. Sulla nozione di ammonizione si veda Buck, Admonitio. de Jong, Admonitio,

In questo senso il re afferma di aver scoperto nel libro dei Re l’attitudine esemplare del re Giosia: egli si era impegnato per ripristinare il vero culto nel regno affidatogli da Dio, ammonendo e correggendo il suo popolo. Pur senza volersi alla paragonare alla santità di uno dei re d’Israele, Carlo dichiara di volerne seguire l’esempio e di voler riunire quante più genti possibili «nello sforzo per una vita santa». Dopo questo lungo prologo, il capitolare prosegue con un elenco di prescrizioni, in cui si trovano norme relative a materia religiosa e disposizioni di natura secolare. Senza analizzare qui l’intero contenuto della legge, è interessante citare alcune misure per comprendere il tono e la complessità del capitolare: nella prima sezione, Carlo Magno si occupa della formazione e del reclutamento del clero, del suo intervento in materia di disciplina ecclesiastica, di liturgia, di educazione dei religiosi e del popolo, dell’amministrazione dei sacramenti, e della revisione della Vulgata; nella seconda sezione della legislazione, invece, si affrontano le violazioni, gli omicidi, i furti, proibiti però sempre con il riferimento ai comandamenti della Bibbia e della legislazione canonica. La finalità di questo intervento è chiara: unificare il popolo cristiano in una prospettiva escatologica che il re stesso rivela ai vescovi quando ricorda di voler applicare e fare applicare la legge divina sulla terra.

Il linguaggio utilizzato e i concetti espressi da Carlo ricordano l’immagine della giustizia che Gontrano aveva cercato di promuovere nel 585. Tuttavia, a differenza dell’editto merovingio, l’admonitio costruisce la regalità e i suoi compiti sul modello dei re biblici veterotestamentari: nel prologo il sovrano franco cita l’esempio di re Giosia (640- 609 a.c.) creando un legame tra il compito a cui si sentiva legato, in virtù della posizione che occupava per volontà divina, e le azioni del diciassettesimo re di Giuda409. Giosia aveva preso coscienza autonomamente del destino del popolo di Israele, si era impegnato a combattere la diffusione del culto degli idoli e aveva concluso davanti a Jaweh, senza intermediari, una nuova alleanza con Dio; a questo patto, aveva fatto aderire tutto il popolo attraverso la promulgazione di un codice legislativo. Per questo motivo, Rabano Mauro lo aveva descritto come un santo predicatore. Proprio questa immagine di ammonitore, di

409 MGH Capit. I, p. 52-62; in particolare p. 54: «Nam legimus in regnorum libris, quomodo sanctus Iosias

regnum sibi a Deo datum circumeundo, corrigendo, ammonendo ad cultum veri Dei studuit revocare: non ut me eius sanctitate aequiparabilem faciam, sed quod nobis sunt ubique sanctorum semper exempla sequenda, et, quoscumque poterimus, ad studium bonae vitae in laudem et in gloriam domini nostri Iesu Christi congregare necesse est. Quapropter, ut praediximus, aliqua capitula notare iussimus, ut simul haec eadem vos ammonere studeatis, et quaecumque vobis alia necessaria esse scitis, ut et ista et illa aequali intentiono praedicetis. Nec aliquid, quod vestrae sanctitati populo Dei utile videatur, omittite ut pio studio non ammoneatis, quatenus ut et vestra sollertia et subiectorum oboedientia aeterna felicitate ab omnipotente Deo remuneretur».

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educatore e correttore del popolo rappresenta il modello a cui Carlo aspira.410 Sull’esempio di Giosia, dunque, il rex et rector regni francorum, scelto dalla misericordia divina, ammoniniva con solerzia i membri del populus Dei, perché seguissero i corretti precetti cristiani, conservassero la pace, la concordia e l’unità tra tutti i cristiani.411

Questa formula di apertura spiega perfettamente il compito regio nel processo di riforma: il termine rector a complemento del titolo rex, rimanda a una concezione del potere in cui la funzione ausiliaria nei confronti dell’ecclesia e l’humilitas nell’esercizio della potestas sono i caratteri chiave di un pio governante. Pur fedele a questo ideale della potestas tipicamente gregoriano, il capitolare traduce la volontà redenere il governo del regno e la difesa della chiesa un unico progetto complementare della stessa medaglia e di affidare al re un ruolo direttivo nel gestione del popolo cristiano.

Per ripristinare la corretta osservanza dei precetti divini Carlo, però, non si avvalse solo della propria autorità, ma si affidò ai testi fondamentali della tradizione normativa cristiana, vale a dire la legislazione canonica e la Bibbia: i canoni e i passi biblici eramo infatti incorporati nella stessa legislazione del regnante. Il messaggio veicolato dall’Admonitio è chiaro: la prima legge dei Franchi era la legge di Dio. Come conseguenza di tale analogia il re carolingio donava ai precetti divini una nuova legittimità: inserendoli in un testo normativo, espressione della volontà del re, Carlo trasformava i comandamenti della Bibbia e dei canoni della collezione Dyonisio-Adriana nella legge del regno412. Contemporaneamente questa complessa operazione normativa gettava quindi un ponte tra passato e presente che rendeva possibile l’utilizzo della memoria cristiana come mezzo di legittimazione. I membri della cancelleria impegnati nella redazione del testo, tra cui probabilmente Alcuino, e lo stesso regnante carolingio, erano consapevoli dell’importanza politica e spirituale che il linguaggio religioso e l’esempio veterotestamentario dovevano

410 Rose, Josias, pp. 683-709 che descrive tutte le implicazioni dei differenti ricorsi a questa figura biblica

durante il regno di Carlo Magno. Sul valore dell’exemplum di Giosia piuttosto che sul Typus si veda invece Garrison, New Israel , p. 147. A proposito sulla continuità tra questa concezione del potere e la riflessione di Alcuino si cfr. Savigni, Les laïcs, p. 60. che attribuisce però l’Admonitio a Teodolfo di Orléans.

411 MGH Capit.I, p. 54: «Nam legimus in regnorum libris, quomodo sanctus Iosias regnum sibi a Deo datum

circumeundo, corrigendo, ammonendo ad cultum veri Dei studuit revocare: non ut me eius sanctitate aequiparabilem faciam, sed quod nobis sunt ubique sanctorum semper exempla sequenda, et, quoscumque poterimus, ad studium bonae vitae in laudem et in gloriam domini nostri Iesu Christi congregare necesse est».

412 In merito all’ampia discussione sulle fonti dell’Admonitio si veda Schmitz, Echte Quellen – falsche

Quellen, in particolare. p. 278 n. 13. Sulla collezione Dionysio-Hadriana si veda Mordek, Dionysio- Hadriana, pp. 39–63; Kéry, Canonical collections, pp. 13–20. Wallace-Hadrill, Frankish Church, 212;

avere nel costruire l’ideologia della struttura politica e sociale carolingia, giustificando il fondamento del ruolo del re e delle sua corte.413

Con questo capitolare, come sostengono molti studiosi, l’elaborazione di un progetto congiunto tra il potere regio e quello episcopale mosse il primo primo passo verso una conformazione stabile.414 Grazie al sostegno della potestas secolare, l’episcopato, attraverso i membri impegnati nella redazione del testo dell’Admonitio, aveva raggiunto diversi obiettivi: era riuscito a creare uno standard, definendo i comportamenti, le liturgie, un sistema educativo del clero o del popolo e, persino, la formulazione corretta del credo corretto; aveva chiarito i criteri per condannare le eventuali violazioni dei canoni, stabilendo la proibizione di diverse pratiche liturgiche fino ad allora comuni; inoltre, era riuscito a far valere la difesa dell’ecclesia, dei suoi beni, e delle categorie di popolazione la cui tutela era stata a lungo un dovere dell’episcopato – i poveri, gli orfani e le vedeve-415, sfruttando il potere coercitivo del re.

In questo gioco il re non era però una semplice pedina. La correctio e l’emendatio della dottrina, della liturgia e dei comportamenti dei fedeli costituivano elementi fondamentali per sostenere la funzione di disciplinamento svolta dal re e dai suoi rappresentanti all’interno del regno. I capitolari programmatici sono dunque il luogo in cui si erano affermati gli ideali sociali e politici del nuovo ordinamento politico carolingio e in cui gli interessi del re e dei vescovi si erano fusi definitivamente nei grandi temi della correctio, della difesa dell’ecclesia, della diffusione del cristianesimo e dei suoi principi416. In questa complessa operazione di riforma e rinnovamento del regno la iutistia, che di questo progetto costituiva un elemento cardine, aveva assunto una forte connotazione morale. Nella legislazione il termine indicava il principio del giudizio equo e corretto, definiva la concreta amministrazione che si esprimeva nella tutela dell’ordine del regno, ma soprattutto nella correctio dei comportamenti criminali e peccaminosi del popolo, sia in ambito secolare sia in quello spirituale. Di conseguenza, anche la violenza “privata” assunse una caratterizzazione morale: era rappresentata prima di tutto come un peccato, una violazione della legge di Dio. Come ricordato nella conclusione dell’Admonitio gli atti

413 Sassier, Royauté, pp. 40-56; Hen, Uses, pp. 59-65. Sull’attribuzione ad Alcuino si è a lungo dibattuto si

veda Scheibe, Alcuin, pp. 221–229, il primo a sostenere questa attribuzione e Mordek, Adomonitio. Cfr. Guerreau-Jalabert, La ‘renaissance carolingienne’, pp. 5–35.

414 Sulla combinazione di potere regio e potere episcopale si veda Werner, Naissance, pp. 360–78; cfr.

Moore, Sacred Kingdom, pp. 250-275.

415 Sulle nozioni di correctio e emendatio si veda n. 405.

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violenti, gli omicidi, le risse, i rapimenti, gli stupri sono infatti opera del diavolo e in quanto comportamento peccaminoso costituivano un’offesa a Dio417.

Questa concezione del potere e della giustizia si trovava già espressa nei testi normativi dei re merovingi. I capitolari carolingi, la loro concezione della giustizia e della violenza, si distinguono, però, per due aspetti: la differente qualità nel carattere delle prescrizioni e la diversa portata dell’azione congiunta del potere regio ed episcopale. Rispetto al secolo precedente, la iustitia, la violenza e la sua gestione sono contestualizzate e rappresentate in modo erudito: tanto la descrizione dei crimini quanto la loro condanna si fondano infatti su precetti biblici. Così, al capitolo LXVII dell’Admonitio generalis, dedicato agli omicidi, Carlo proibisce questo “crimine”, «come è proibito nella legge del Signore» con un riferimento ai comandamenti dell’Esodo 20,13.418 Lo stesso vale per il

capitolo sul crimine, o meglio sul peccato, di spergiuro: la disposizione cita letteralmente la prescrizione dell’Esodo 20,7, che impone di non nominare il nome di Dio invano, per motivare la sua condanna419.

A differenze dell’esperienza merovingia, il coinvolgimento della regalità nella difesa e nell’imposizione del rispetto dell’ordine del regno non rappresentava un impegno momentaneo, ma il risultato di una riforma strutturata. Il tema della correctio dei comportamenti dei fedeli, sia in ambito secolare sia nel contesto spirituale, così come l’assunzione da parte del potere regio di prerogative di protezione delle sezioni della popolazione più deboli sono trattatati nell’Admonitio generalis e sono al centro della legislazione ancora nel corso del IX secolo. L’esempio più significativo della persistenza di questo progetto è rappresentato dal prologo del capitolare missorum generale del 802, emanato pochi anni dopo aver ottenuto la carica di imperatore. Nel testo Carlo si descrive come la sorgente della giustizia e del diritto. Egli ordina ai propri missi, di recarsi nel regno e correggere le ingiustizie che trovavano, cosicché tutti gli uomini «potessero vivere

417 MGH Capit.I, p. 61: « Item cum omni diligentia cunctis praedicandum est, pro quibus criminibus

deputentur cum diabulo in aeternum supplicium. Legimus enim, apostolo dicente: ' manifesta autem sunt opera carnis, quae sunt fornicatio, inmunditia, luxuria, idolorum servitus, veneficia, inimicitiae, contentiones, aemulationes, animositates, irae, rixae, dissensiones, haereses, sectae, invidiae, homicidia, ebrietates, comessationes et his similia: quae praedico vobis, sicut praedixi, quoniam qui talia agunt regnum Dei non possidebunt».

418 MGH Capit. I c. 67, p. 59: «Item ut homicidia infra patriam, sicut in lege Domini interdictum est, nec

causa ultionis nec avaritiae nec latrocinandi non fiant; et ubicumque inventa fuerint, a iudicibus nostris secundum legem ex nostro mandato vindicentur; et non occidatur homo, nisi lege iubente».

419 MGH Capit. I c. 64, p. 58: «Item habemus in lege, Domino praecipiente: non periurabis in nomine meo ,

una vita buona e giusta secondo i comandamenti di Dio».420 Conti e centenarii, avrebbero dovuto controllare la corretta amministrazione della giustizia, in modo che «il male fosse rimosso dal popolo cristiano».421 Ognuno, laici ed ecclesiastici, potentes e pauperes, avrebbe dovuto obbedire agli ordini e alla giustizia del re, perché «ogni cosa fosse giusta e ordinata a lode di Dio onnipotente, ottenendo così per il proprio impegno la benevolenza del Signore e il premio dell’eterna salvezza».422

Il iudicio e la vindicta- termini utilizzati per definire, la sentenza e la punizione amministrata dall’autorità regia- erano dunque parte dei compiti che caratterizzavano il ruolo del re, in quanto scelto da Dio per governare il suo popolo. Al re spettava infatti il compito di essere vindex scelerum, ossia la condanna e la correzione di quanti con il loro comportamento avessero offeso Dio, causando la sua ira.