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Le formulae e l’agiografia

Parte I. La giustizia carolingia: il re, Dio e la licenza di uccidere

Capitolo 1. La realtà dei capitolar

2. Oltre la normativa: violenza e società

2.1 Il linguaggio delle font

2.1.1 Le formulae e l’agiografia

Nella disamina sull’influenza della concezione della violenza promossa dall’autorità centrale alcune tipologie documentarie ribadiscono le prescrizioni delle legislazione regia. Questo è il caso delle collezioni di formulae che sono redatte durante il regno di Carlo Magno o nel periodo immediatamente successivo alla sua morte. Le formulae comprendono copie di vari tipi di documenti conservati e raccolti, in gran parte dai membri del clero o di particolari enti monastici, per servire da esempi o testi di riferimento utili nell’educazione degli studenti e degli scribi: il linguaggio e la forma dei differenti testi erano dunque utilizzati dai maestri per insegnare a scrivere in modo appropriato o a produrre atti reali.

Non sappiamo con certezza se le formulae siano effettivamente servite come base per la redazione di documenti ufficiali. Tuttavia è evidente che si tratti di raccolte di testi che erano considerate utili dai loro compilatori per le operazioni di redazione della documentazione “ufficiale”.500 Osservando il loro contenuto in relazione al tema della violenza è interessante notare come gli autori di queste collezioni ritenessero necessario conservare soprattutto documenti legati alla risoluzione dei casi di omicidio. Da questo atteggiamento si potrebbe dedurre, come documentato indirettamente anche dai capitolari, che nelle dispute tra parentele vi fosse ancora la possibilità per i protagonisti di condurre il

conflitto tramite ritorsioni violente. Gli episodi di omicidio riportati dai compilatori, però, seguono perfettamente l’iter predisposto dalla normativa regia: il pagamento del guidrigildo e l’invio del reo al vescovo locale per la somministrazione di una penitenza adeguata.

All’interno di queste collezioni, sono conservate dunque testimonianze che affrontano la questione della violenza e lo fanno in modo consono alle prescrizioni dei capitolari. Alcuni documenti, per esempio, riguardano la conferma scritta del pagamento di un guidrigildo: la parentela o il signore di colui che era stato ucciso rilasciava all’omicida una sorta di ricevuta a conferma del pagamento e lo esentava da futuri reclami.501 Si conserva anche una lettera di un vescovo che sarebbe dovuta essere portata dal criminale, colpevole di omicidio: indirizzata a tutto il mondo, racconta che il portatore aveva ucciso un parente ed era stato mandato al vescovo per fare una giusta penitenza; questi, che aveva imposto al reo di fare un pellegrinaggio, richiede ora a tutti coloro che avrebbero incontrato il penitente di aiutarlo e di offrirgli un riparo durante il viaggio.502

Da queste testimonianze, comunque, è difficile determinare se le formulae contenessero documenti prodotti in risposta o in associazione ai capitolari, riflettendo un’attitudine condivisa rispetto alla gestione della violenza diffusasi attraverso la legislazione regia. O se i compilatori si fossero semplicemente limitati a registrare gli episodi che nella loro convinzione avessero determinato la necessità di produrre documenti specifici, vale a dire i casi di omicidio conclusisi con una rapida pacificazione e con il pagamento del guidrigildo.

Nella ricerca sull’influenza dei capitolari, un’evidente continuità di discorso rispetto alla rappresentazione della giustizia e della violenza promossa dalla normativa regia si trova anche nell’agiografia, in cui si osserva il medesimo valore attribuito alla violenza che abbiamo riscontrato nella legislazione carolingia.

Durante il VI e VII secolo, scrittori delle vite dei santi o dei martiri, come Giona di Bobbio o l’anonimo autore della Passio Leudegarii I503, presentano l’immagine di un

501 Formulae nr. 38, p. 156.

502 Formulae nr. 19, pp. 280-281; Sulla datazione delle collezioni di Lindenbrog e Tours, così come dei loro

manoscritti, si veda Rio, Legal Practice, pp 101-110 e pp. 112-117.

503 MGH SS.rer.Merov. 5, Passio Leudegarii episcopi Augustodunensis I, pp.282-322; BHL 4850. Il testo

preso in esame è la prima versione della Passio Leudegarii, composta in epoca merovingia a Autun durante l’episcopato di Eremario, prima che le reliquie di Leudegario fossero sposate a Poitiers nel 680. Per l’edizione del testo, con alcune note sulla sua ricostruzione si veda Kurze, MGH SS.rer.Merov. 5, pp.243– 259 e Kurze, Älteste, pp. 563–596. Della Passio Leudegarii si conservano anche due riscritture dell’opera. La prima, trasmessa nel più antico manoscritto sulla vita di Leudegario conservato a Poitiers, è datata datata tra la fine del VII e la prima metà dell’VIII secolo.Si veda: BHL n. 4851 e MGH SS.rer.Merov. 5 Passio

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mondo in cui la violenza era uno strumento comune e legittimo. In queste opere, la morte dei santi o dei protagonisti delle vite è spesso rappresentata come il compimento di una vita dedicata a Dio. Gli incidenti e la conclusione violenta della vita degli eroi sono infatti inserite in una cornice di significato cristiana, che equiparava la sofferenza del protagonista alla passione del Cristo. Tuttavia a differenza della narrazioni di martirii in epoca romana, nell’agiografia merovingia il contesto in cui tali vicende erano ambientate è molto più complesso, poiché tutti i protagonisti erano parte della medesima comunità cristiana. In ognuna delle vicende narrate, quindi, gli agiografi del periodo merovingio sono dunque interessati a ricostruire il contesto della vicenda, in modo da mostrare il motivo per cui il santo o l’eroe della vicenda era stato attaccato, o il modo in cui aveva reagito, e il proprio giudizio sulla violenza perpetrata dai protagonisti.504 Questa attenzione alle spiegazioni delle azioni violente, particolarmente significativa per via della formazione cristiana degli autori, potrebbe sembrare addirittura sorprendente se consideriamo la natura di una fonte quale l’agiografia.

Gli agiografi merovingi sembrano avere, però, motivazioni precise. In primo luogo, dovevano affrontare vicende comunque delicate, perché i protagonisti, anche quelli negativi, erano membri del mondo ecclesiastico e politico del tempo. Secondariamente, non sempre la violenza aveva connotati negativi. In queste opere si trovano, infatti, numerosi esempi in cui la violenza eseguita dagli uomini è interpretata come espressione del volere di Dio. In altri casi, l’impiego della forza da parte di uomini associati ai santi o dei viri Dei era considerato normale. Così Leudegario è rappresentato come un giudice di cui avere timore quando la Passio Leudegarii descrive il suo insediamento in qualità di vescovo nella città di Autun, sottendendo che egli aveva usato la forza per riportate l’ordine nella città.505 Allo stesso modo, il suo amico, Ettore, signore di Marsiglia, che

Leudegarii II, pp. 323–356. Per una datazione si veda Berschin, Biographie, pp. 67-69, n. 177, 180, 181, e

Heinzelmann, Studia, p. 115 che insieme a Poulin, Léger sostengono l’ipotesi che l’autore, Ursino, avrebbe scritto l’opera sul finire del VII secolo; cfr Kurze, MGH SS.rer.Merov. 5, pp.243–259 e Fouracre- Geberding(a cur. di), Late Merovingian, pp. 193-230 che invece proprendono per una datazione più tarda della riscrittura.

La seconda riscrittura , conservata in un manoscritto di IX secolo, è composta probabilmnet in epoca carolingia, tra la fine dell’VIII e l’inizio del IX secolo. Il testo è edito in AASS, Oct., I, Vita Leodegarii, pp. 463–481. Un’utile recensione sul dossier documentario riguardo a Leudegario si trova in Poulin, Léger. Su come si sviluppa la vita del santo Per una del culto si veda Delehaye, Legends of the Saints, in particolare pp. 101–116. Un approfondimento sulla Passio Leudegarii episcopi Augustodunensis I si trova in Fouracre- Geberding(a cur. di), Late Merovingian, pp. 193-230; Graus, Volk, pp. 377–379.

504 Per un’analisi dell’agiografia merovingia si veda Delehaye, Passions, pp. 273–87.Fouracre, Attitudes, pp.

60-75; Fouracre-Geberding(a cur. di), Late Merovingian. Reynolds, Social mentalities; Fouracre,

Merovingian history, pp. 28–29. Goffart, Narrators, pp. 203–34.

505MGH SS.rer.Merov. 5, Passio Leudegarii episcopi Augustodunensis I c.1, p. 284: «praesertim cum

nella passio Preajecti è dipinto come «violento e malvagio»506, è invece protagonista di un ritratto positivo nell’opera dedicata al vescovo di Autun. Nella passio Leudegarii, infatti, Ettore, «con il sostegno di Dio, si difese con vigore», quando fu arrestato con l’accusa di tradimento. La violenta resistenza del conte di Marsiglia è dunque giustificata.507 D’altronde lo stesso Leudegario è ricordato per aver incitato la popolazione a fortificare la propria anima e le difese della città, quando si preparava all’attacco di Ebroino, e la gente di Autun è celebrata per aver combattuto coraggiosamente contro il nemico del proprio vescovo.508 Per l’autore dell’opera la resistenza violenta alle aggressioni non era dunque

sempre condannabile. Anzi era considerata legittima.

Il progressivo venir meno della distanza tra il mondano e il divino, sia per quanto riguarda il contenuto delle narrazione sia per ciò che concerne il linguaggio, riflette il grado e il modo in cui la cultura scritta si era ormai cristianizzata alla fine del VII secolo. Le vite dei santi e dei martiri merovingi, che costituivano la principale fonte narrativa del periodo, si focalizzavano quindi sui conflitti locali, sulle lotte politiche che vedevano

esset repletus, extitit clericorum doctor egregius. Erat quoque in disciplina delinquentium vividus, qui carnis luxo numquam extitit resolutus; sagati cura pervigil in ecclesiasticorum offitiis, strinuus in ratiociniis, prudens in consiliis, rutilans in eloquiis». Sulla vita di Leudegario si veda Riché, Leodegar, pp. 841ss. Sul compito civile del vescovo a cui la vita accenna parlando della severità di Leudegario in quanto giudice secolare, si vedano Prinz, Stadtherrschaft e Durliat, Attributions, p. 279, il quale sostiene che queste responsabilità fossero esercitate per l’autorità centrale, e in sua opposizione.

506 Su Ettore la passio Ledegarii eprime un giudizio positivo, MGH SS.rer.Merov. 5, Passio Leudegarii

episcopi Augustodunensis I c.9, p. 291: «Adfuit enim tunc in illis diebus vir quidam nobilis Hector vocatus

nomine, qui tunc regebat in fascibus patriciatum Masiliae, quique generis nobilitate et prudentia saeculari, ut claro stigmate ortus, ita erat prae ceteris praeditus». Cfr. con la Passio Praeiecti, La Passio Preaecti racconta la vita di Praeiecto, vescovo di Clermont, nella regione di Auvergne durante il regno di Childeric II (662–75), e il suo martirio nel gennaio 676. A differenza di Leudegario, non esiste alcun testo che testimoni l’esistenza di Praeiecto, se non la sua biografia. Questo testo descrive il rapporto tra Leudegario e Ettore come uno

scandalum, per via della rivalità tra Praeticto ed Ettore, culminata con un causa: Ettore aveva infatti accusato

il vescovo di essersi impossessato indebitamente di alcuni terreni appartenuti alla sua sposa. Fouracre- Geberding(a cur. di), Late Merovingian, pp. 255-268. MGH SS.rer.Merov. 5, Passio Praejecti c.23, p. 239: «erat quidam infamis vir Hector nomine». Per una breve biografia del vescovo di Clermont si veda: Scheibelreiter, Der Bischof, pp. 107-115; Fouracre-Geberding(a cur. di), Late Merovingian, pp. 255-268. Per il testo si veda BHL 6915 e l’edizione di Kurze, MGH SS.rer.Merov. 5, Passio Praejecti, pp. 212-248. Per la prima discussione sulla composizione dell’opera si veda Kurze, Vita Praejecti, pp. 629–639. Per più recenti discussioni sulla composizione e sul suo autore si veda: Riché, Education, p. 413, suggerisce che fosse un monaco di Volvic a monk of Volvic. Cfr. Wood che invece ritiene che possa essere scritta da un monaco del monastero di San Amarino nelle Vosges, in particolare da qualcuno connsesso con Amarino che fu ucciso insieme a Praeiecto: Wood, Ecclesiastical Politics, p. 35, n. 2.

507MGH SS.rer.Merov. 5, Passio Leudegarii episcopi Augustodunensis I c.11, p. 294 : «Cum igitur ab his,

qui occasionis huius expectabant eventum, persequutio velox fuisset commota post eum, praedictus ibidem est interfectus; et quia viriliter se fuerat defensare conatus, permittente Domino, a multitudine fuit oppressus cum aliquis, qui comitabantur cum eo. Nec enim inpossibile creditur sancti martyris meritis posse apud Deum illis animabus veniam optinere, qui cum eodem innocenter persequutionis procella voluerant declinare». L’autore della passio presenta Ettore quasi nella vesta di un martire, spiegando la restistenza all’aggressione con il rifermento al suo istinto virile. Cfr. MGH SS.rer.Merov. 5, Passio Praejecti c.26, p. 241 in cui l’autore sostiene che Ettore fu catturato e dopo messo a morte su ordine regio.

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protagonisti i santi e sulle strategie impiegate nelle singole dispute, divenendo presto un elemento essenziale nel formare l’attitudine dei lettori nei confronti della violenza. Nel VII secolo il genere agiografico riflette l’elaborazione di un’attitudine pragmatica nei confronti della violenza, adattandosi al particolare contesto politico in cui si trovava a operare la chiesa merovingia. Così come abbiamo visto per i capitolari merovingi, in tutti i principali testi agiografici tra VI e VII secolo, si nota un atteggiamento neutro nei confronti del valore delle azioni violente o delle ritorsioni: in alcune circostanze le aggressioni e gli omicidi erano giustificati, in altre, invece, condannati. Gli agiografi interpretavano infatti gli eventi e i conflitti non solo secondo i principi della religione cristiana, ma anche in relazione al particolare ruolo politico e sociale dei protagonisti delle vicende.

Al contrario, nella seconda metà dell’VIII secolo, l’atteggiamento dell’agiografia nei confronti della violenza sembra essere mutato, probabilmente come risultato delle trasformazioni politiche che avevano accompagnato l’affermazione del potere da parte dei carolingi. Nella prima metà dell’VIII secolo le fonti narrative riducono progressivamente lo spazio dedicato ai conflitti interni al regno dei franchi, e iniziano a presentare le vicende dal punto di vista di un singolo protagonista, quello della famiglia carolingia. Le fonti storiche si concentrano sostanzialmente sui conflitti contro i nemici esterni alla comunità franca. Contemporaneamente, nelle opere agiografiche di epoca carolingia l’interesse nei confronti della ricostruzione degli scontri locali così della violenza contro i religiosi viene meno, e la conflittualità interna non viene registrata. Dalle opere agiografiche non conosciamo nulla, o poco, dei conflitti locali, delle rivalità tra le differenti fazioni aristocratiche o della guerre in cui era impegnata la famiglia carolingia.

Il cambiamento era forse conseguenza del successo della politica carolingia di riforma della giustizia, del successo nella trasformazione reale dell’attitudine della società nei confronti della violenza e della ritorsione? Oppure era semplicemente il riflesso di una nuova prospettiva delle fonti, che a partire dell’VIII secolo erano spesso strumentali nel presentare la legittimità della famiglia carolingia, valorizzandone la capacità nello svolgomento del compito di protettore e di garante della pace della christianitas? Quel fu dunque la portata dell’idea di rinnovamento che Carlo Magno e la sua élites avevano promosso attraverso capitolari?

Probabilmente la risposta si trova nella congiuntura di diversi fattori. Sicuramente le fonti prodotte da personaggi vicini alla corte regia riproducono la medesima concezione della giustizia e della violenza espressa dai capitolari. Tuttavia è altrettanto vero che i documenti non possono essere considerati solo un riflesso del contesto di produzione, ma

devono essere compresi anche come strumenti attraverso i quali si tentava di rimodellare e trasformare la società. La diffusione dell’idea di rinnovamento promossa dai capitolari in altre tipologie di fonte contribuiva a creare modelli di comportamento e a orientare la prassi.

Alcuni esempi ci aiutano a comprendere il livello di questo cambiamento. Il primo si trova in una vita di un santo anglosassone che aveva guidato una missione di conversione in Frisia a inizio dell’VIII secolo: Willibrordo.509 Un secolo dopo la sua morte, la vita fu scritta da un altro anglosassone, la cui carriera, come abbiamo visto, era direttamente legata alla corte e al progetto di riforma operato da Carlo Magno: Alcuino di York. Il passo più interessante racconta un miracolo avvenuto al momento del ritorno in Frisia di Willibrordo, in seguito alla morte di Pipino di Herstal e alla conquista della Frisia da parte di Carlo Martello510. Alcuino ci racconta di un particolare viaggio missionario compiuto da Willibrordo e da alcuni suoi compagni nelle vicinanze del paese di Walcheren. Qui il vescovo distrusse un idolo di un’antica superstizione, di fronte al suo custode, il quale accecato dal furore colpì con una spada il sacerdote di Cristo per vendicare l’insulto subito. Tuttavia Willibrordo, grazie alla protezione di Dio, uscì illeso dallo scontro.511 Alla vista di questa scena, i compagni del vir Dei accorsero per uccidere il custode, ma Willibrordo decise di salvarlo e risparmiargli la vita: «i suoi compagni che avevano assistito all’accaduto, accorsero per vendicare con la morte la pessima audacia dell’uomo empio. Ma il reo fu liberato dalle loro mani e lasciato andare dall’uomo di Dio, con animo pio».512

All’interno della narrazione i personaggi sembrano tutti ritenere la ritorsione una parte integrante delle normali strategie del confronto violento. Tutti eccetto il santo. Il

509 MGH SS.Rer.Merov. 7, Vita Willibrordi auctore Alcuino, pp. 81-141 e BHL 8935–39. Su Willibrordo si

veda soprattutto Wampach, Willibrord, pp. 244–256; Angenendt, Willibrords, pp. 13–34; Wampach, Sankt

Willibrord; Hen, Willibrord, pp. 187–198; Meens, Christentum, pp. 415–428. Per una breve panoramica sulla

storiografia sulla figura di Willibrordo si veda Honée, Willibrord, pp. 16–31; Pettiau, Willibrord, pp. 317– 336. Sulla vita si veda invece Deug-Su, Opera agiografica; Rambridge, Alcuin, pp. 15-31; Alcuinus and Christiane Veyrard-Cosme, Vitae Willibrordi, pp. 34-75; Wood, Missionary, pp. 79–99.

510 Sul contesto della missione di Willibrordo in Frisia si veda Wampach, Willibrord, pp. 244–56.

511 MGH SS.Rer.Merov. 7, Vita Willibrordi auctore Alcuino c. 11, pp. 125-126 : «Quodam igitur tempore,

dum venerabilis vir iter euangelizandi more solito egisset, venit ad quandam villam Walichrum nomine, in qua antiqui erroris idolum remansit. Quod cum vir Dei zelo fervens confringeret praesente eiusdem idoli custode, qui nimio furore succensus, quasi dei sui iniuriam vindicaret, in impetu animi insanientis gladio caput sacerdotis Christi percussit; sed, Deo defendente servum suum, nullam ex ictu ferientis lesuram sustenuit».

512 MGH SS.Rer.Merov. 7, Vita Willibrordi auctore Alcuino c.14-15, pp. 127-128: «Socii vero illius hoc

videntes, pessimam praesumptionem impii hominis morte vindicare concurrerunt. Sed a viro Dei pio animo de manibus illorum liberatus est reus ac dimissus(….)Et quia vir Dei iuxta praeceptum Domini suas iniurias

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Frisone cerca infatti di ottenere vendetta contro il santo, reo di aver insultato lui e la sua divinità. Allo stesso modo, si comportano i compagni del missionario anglosassone, che attaccano il custode per aver aggredito il loro amico.

Contrariamente alle opere di VII secolo, però, la condanna espressa nei confronti della ritorsione è univoca, riguarda tanto il pagano quanto gli accompagnatori del missionario anglosassone. Se l’agiografia di VII secolo era solita considerare la violenza a difesa del santo legittima, Alcuino si discosta da questa tradizione.

L’episodio non sembra servire solamente a enfatizzare la carità di Willibrordo e la sua fedeltà verso i precetti divini, ma rivela una precisa attitudine dell’autore nei confronti della violenza. Non sono più le semplici motivazioni a determinare la validità del ricorso alla forza. La legittimità e l’illegittimità non sono caratteristiche che dipendono da fattori esterni. Sono piuttosto elementi che appartengono a due diverse idee di violenza: una violenza a cui è attribuito un valore “positivo”, sanzionata da Dio, che gioca un ruolo attivo nell’affermazione della giustizia e nella protezione delle fede, ed è associata allo zelo con cui si rispettano i precetti divini; e una violenza “negativa”, il cui corrispettivo emozionale sono l’ira e l’avidità, che è parte di logiche che appartengono alla giustizia privata e alla difesa dell’onore. Alla prima categoria appartiene la distruzione dell’idolo pagano da parte di Willibrbodo, alla seconda invece la reazione del custode e, soprattutto, dei compagni dell’anglosassone.513

Per capire la trasformazione della concezione della violenza basta tornare brevemente al racconto di Alcuino. In particolare concentrandosi su un piccolo particolare, ossia sul breve inciso che accompagna la decisione di risparmiare il custode dell’idolo pagano: «e nonostante l’uomo di Dio non volle vendicare le sue ingiurie secondo i giusti precetti di Dio, in men che non si dica questi furono vedicati da Dio, così come altre ingiurie, che gli empi non avevano temuto di commettere contro i suoi santi: A me spetta la vendetta, io giudico, dice il Signore».514

A differenza dell’agiografia merovingia, nell’opera di Alcuino il differente valore tra l’azione di Willibrordo e quella dei suoi compagni non ha bisogno di essere spiegato, se

ulcisci noluit, citius tamen a Domino vindicata est, sicut ille de iniuriis, quae in sanctos suos impii agere non