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3. D IFENDERE LA COMUNITÀ : CATASTROFI E PROTEZIONE

3.3. Un caso esemplare: Lisbona

Il terremoto di Lisbona costituisce per storici e filosofi una vera e propria cesura nella storia europea. Esso non ha provocato solo danni materiali e fisici a cose e persone bensì ha imposto, o forse solo reso visibile, una ristrutturazione complessiva del modo in cui la società, o quantomeno l’istituzione, pensa se stessa.

I terremoti dice Dickie “creano un caos che esige di essere spiegato, risolto attraverso una storia” e a volte “la tensione narrativa sembra irradiarsi sulla scia delle onde sismiche” (2008: 93). Come vedremo è indubbiamente questo il caso del terremoto lusitano che è stato capace di rendere “reale una paura del collasso culturale che è di per sé uno degli aspetti costituenti

19 Vi sono altri tipi di modelli di giustizia: quella distributiva e quella riconciliativa o riparativa. La prima si

fonda sull’equa divisione delle risorse per il raggiungimento di una giustizia sociale; la seconda è particolarmente interessante come strumento di pacifica risoluzione del conflitto. Si veda l’analisi di Demaria (2006a) su un modello di giustizia riparativa: la Truth e Reconciliation Commission sudafricana. Questi modelli di giustizia spesso coesistono all’interno di uno stesso ordinamento e non sono necessariamente applicati al dominio della giurisdizione: un principio di giustizia distributiva è spesso applicato alla legislazione in materia fiscale e quella retributiva e riconciliativa sono due modelli a volte compresenti all’interno dell’ordinamento giuridico.

della cultura” (ib.). Tale disastro ha prodotto una serie di narrazioni, risultato di visioni apocalittiche, con la funzione di ristabilire l’ordine sociale.

Tuttavia, come dice Dickie, i terremoti non riescono a sedimentarsi nelle forme istituzionalizzate della cultura, come per esempio succede alle epidemie (la peste medioevale è alla base di molte opere narrative a cominciare in Italia dal Decameron) ma, adottando un approccio metanarrativo, l’analisi del modo in cui essi vengono rappresentati può “insegnarci moltissimo sulla forza delle narrazioni degli eventi storici nel momento in cui avvengono” (ib.: 93). Per questo prenderemo in analisi questo evento storico e il modo in cui è stato discusso in particolare da Rousseau.

Walter Benjamin nel 1931 curava alla Berliner Rundfunk un programma in cui raccontava in venti minuti la storia di alcune catastrofi. Il 31 ottobre toccò al terremoto di Lisbona: “dire Lisbona distrutta era, per quell’epoca, un po’ come dire oggi, per noi, Chicago o Londra distrutte” (Benjamin, 1931: 509 trad. it.).

All’epoca in cui Benjamin raccontava di Lisbona, Auschwitz non era ancora “Auschwitz” e Hitler era solo uno dei tanti politici tedeschi. Inoltre la catastrofe lusitana costituisce il centro di alcune discussioni tra Settembrini e Hans Castorp ne La montagna incantata (1924) di Thomas Mann e, ancora nel 1972, viene citata in Potere e sopravvivenza di Elias Canetti. Nella memoria collettiva il ricordo di quella catastrofe si è quindi lentamente spento, non perché essa sia stata dimenticata totalmente, ma perché non ha nel modello di mondo attuale quel posto di “male assoluto” che aveva nel XVIII e XIX secolo.

Come ci ricorda Neiman nell’epoca in cui avvenne, il terremoto di Lisbona assunse la forma del male radicale e contribuì a ridefinire la strutturazione dell’universo morale di una intera epoca. Oggi invece “Lisbon denotes the sort of thing insurance companies call natural disasters, to remove them from the sphere of human action” (Neiman, 2002: 3) e quell’evento rimane importante soprattutto per qualche storico e studioso dell’Illuminismo.

Il giorno di Ognissanti del 1755 Lisbona fu colpita da un terremoto che rase al suolo la città sia per effetto dei movimenti sussultori e ondulatori del sisma, sia soprattutto per lo tsunami che si alzò dall’oceano e che si abbatté sulla capitale del Portogallo già distrutta. Al ritiro del mare il panorama era desolante, migliaia erano i morti e la città praticamente inesistente. Per avere un’idea della forza distruttiva del sisma si deve pensare che esso ha colpito con una magnitudo appena inferiore a quella dello tsunami che il giorno di Santo Stefano del 2004 ha distrutto vaste regioni dell’Asia e dell’Africa. Come quel terremoto fu

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Casanova, colto dal terremoto mentre architetta la fuga dal carcere dei Piombi, a Goethe ancora bambino che lo racconta nella sua autobiografia). Il terremoto di Lisbona fu un fenomeno globale sia per la sua potenza naturale sia per la sua “copertura mediatica”, come diremmo oggi, assoluta.

L’evento assunse una tale importanza per diversi fattori, in primo luogo culturali:

• Lisbona era la capitale di un impero che, seppure in forte difficoltà, costitutiva ancora un importante centro di potere politico ed economico. Questo spiega perché terremoti che dal punto di vista fisico erano stati molto più disastrosi di quello lusitano, come i terremoti cinesi negli anni trenta del XVIII secolo che avevano provocato duecentomila morti, non hanno rappresentato per il sistema di pensiero occidentale dei “danni concettuali”;

• il terremoto avviene in un periodo di forte fermento culturale che vede gli illuministi avanzare una nuova e diversa idea di mondo, di provvidenza e di natura. Il progetto è quello di dividere il mondo in un campo “naturale” e in uno “morale”, dove il primo è regolato dalle leggi della scienza e il secondo invece attiene alle scelte degli esseri umani;

• il terremoto si inserisce in una lotta politica che vede da una parte i sempre più forti stati nazionali e dall’altra il potere religioso. La vicenda lusitana è esemplare nel descrivere la vittoria dei primi sul secondo, con il passaggio dal regime del potere pastorale a quello del potere governamentale20.

L’importanza del terremoto di Lisbona da un punto di vista di storia della cultura è tale quindi non solo per la distruttività dell’evento in sé, ma perché si inserisce in un modello di mondo che già da secoli era in bilico sotto i colpi prima del Rinascimento e poi dell’Illuminismo.

3.3.1. Il modello di Rousseau: male naturale e male morale

Le reazioni al terremoto furono diverse. Le prime rispondevano a un modello di mondo in cui ogni male era in realtà responsabilità degli esseri umani in quanto “massa dannata”.

In particolare di tale punto di vista si fecero portatori i teologi: il terremoto puniva i portoghesi per il loro peccato derivante da comportamenti licenziosi e dalla ricchezza accumulata dai domini coloniali. Dall’altra parte alcuni si chiedevano: perché Lisbona e non Londra o Parigi, che al pari della capitale portoghese vivevano nel peccato?

Si faceva invece largo un diverso modo di interpretare la catastrofe che, sullo sfondo del paradigma ancora dominante della teodicea, delineava un nuovo modello di mondo nato dall’Illuminismo.

Questa nuova semantica, non solo della catastrofe ma di un intero nuovo modo di pensare il mondo, è rinvenibile in particolare nell’opera di Rousseau e in una lettera che questi ha indirizzato a Voltaire il 18 agosto del 1756 come risposta al Poème sur le désastre de

Lisbonne (1756). In quella lettera Rousseau trattò il problema del male come problema filosofico, qualcosa che secondo Neiman in pochi avevano fatto a causa della presenza di due sole opzioni disponibili: “either there is no problem of evil, or there is no answer to it” (Neiman, 2002: 42).

Rousseau invece compie due operazioni: divide il male morale dal male naturale e formula il principio di una provvidenza generale, creando il quadro entro cui tutte le interrogazioni sul male da quel momento in poi prenderanno il via.

Sulla differenza tra male morale e naturale Rousseau scrive:

non credo che si possa cercare l’origine del male morale al di fuori dell’uomo libero, perfetto e ciononostante corrotto; e quanto ai mali naturali, se la materia sensibile e impassibile è, a mio parere, una contraddizione, essi sono inevitabili in qualunque sistema di cui l’uomo faccia parte. (Lettre à François-Marie Arouet de Voltaire [18 aout 1756]) : 24 trad. it.)

Così egli traccia due domini: il male morale è quello derivante dalle scelte dell’essere umano, mentre quello naturale fa capo al funzionamento proprio della materia che, non potendo essere allo stesso tempo sensibile e impassibile, produce inevitabilmente dei mali. Rousseau dice però anche, a proposito di Lisbona:

restando al tema del disastro di Lisbona, converrete che, per esempio, la natura non aveva affatto riunito in quel luogo ventimila case di sei o sette piani, e che se gli abitanti di quella grande città fossero stati distribuiti più equamente sul territorio e alloggiati in edifici di minor imponenza, il disastro sarebbe stato meno violento o, forse, non ci sarebbe stato affatto. (ib.: 25)

Rousseau compie dunque un doppio movimento, all’interno di una inedita riflessione sul male. In primo luogo distingue il male dovuto alle leggi proprie della materia e quello dovuto alle scelte umane, come voleva il paradigma illuminista emergente. Nei disastri naturali, al contrario di ciò che dice la religione, non va cercato alcun senso cioè alcuna intenzione divina: vulcani, terremoti e alluvioni si collocano al di là della cultura e delle sue ragioni e abitano il mondo della natura che è indifferente a colpe e peccati. Questi eventi non

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Allo stesso tempo però Rousseau richiama la colpa dell’umano e le sue scelte azzardate. La colpa però ora non è il peccato ma cattive scelte pratiche: le città sono costruite male, dice Rousseau. Pur permanendo nel filosofo francese un riferimento alla semantica del peccato – alcuni dei lusitani morti si sarebbero ostinati a restare “per voler prendere chi i propri abiti, chi i documenti, chi i soldi” (ib.), meritando la morte – egli fa riferimento a un altro e diverso ordine di ragioni.

Così come dice Neiman il riferimento al peccato fu allo stesso tempo superato e preservato: “while Rousseau underlined the modern separation between natural and moral evil, he did so in a way that seemed to blame us for both” (2002: 39). Non ci sarebbe alcuna novità se non fosse che Rousseau ridisegna contestualmente il ruolo della Provvidenza:

per esempio, quando confutate la teoria della catena degli esseri, così ben descritta da Pope, voi affermate che non è vero che se si potesse togliere anche un solo atomo dal mondo quest’ultimo non potrebbe più sussistere. Voi citate, su questo punto, il Signor de Crousaz, e poi aggiungete che la natura non è soggetta a nessuna misura precisa né ad alcuna forma; che nessun pianeta si muove intorno a un’orbita assolutamente regolare; che nessun essere conosciuto possiede una struttura perfettamente matematica […] non abbiamo nessuna ragione per affermare che un atomo di meno sulla terra sarebbe la causa della distruzione della terra stessa. Vi confesso, Signore, che su tutto questo sono più colpito dalla forza dell’asserzione piuttosto che da quella del ragionamento […] tutto deriva da una legge comune e non ci sono eccezioni per nessuno. Bisognerà credere che i singoli eventi individuali non contano nulla agli occhi del Signore dell’Universo e che la sua provvidenza sia solo universale. Il Signore dell’Universo si accontenta di conservare i generi e le specie e di presiedere al tutto senza preoccuparsi del modo in cui ogni individuo trascorre questa breve vita. (Lettre à François-Marie Arouet de Voltaire [18 aout 1756]), 27 trad. it.)

Rousseau si riferisce qui alla teoria della catena degli esseri che verrà criticata da Voltaire nel Dictionnaire Philosophique (1764), di cui appunto curerà la voce /chaîne des êtres créés/. Secondo tale modello ogni parte del creato rimanda continuamente nel suo disegno complessivo alla Provvidenza. Se Voltaire respinge tale disegno, Rousseau lo preserva ma elaborando l’immagine di una Provvidenza che non interviene direttamente nei destini umani, ma si limita a conservare complessivamente il disegno del creato, cioè a preservare la catena dell’essere.

In questo modo l’esistenza di Dio è preservata, come dice Rousseau alla fine della lettera a Voltaire, ma la sua posizione è ridisegnata: l’esistenza di Dio si manifesta nelle leggi immutabili e per tutti valide della natura ed egli non interviene quotidianamente nella vita dei singoli esseri. Le leggi della Provvidenza sono dunque sostituite con quelle della scienza.

Il problema del male naturale diviene così un problema di scienza e non più di religione: non occorre più capire quale peccato è stato commesso né accettare fatalisticamente il male

naturale come conseguenza del peccato originale, occorre piuttosto capire le leggi della natura, perché ogni male naturale è in realtà il risultato scientificamente determinato e determinabile di una cattiva scelta (e dunque di un male morale). Di colpo Rousseau trasforma tutto il male in un male morale, cioè pone la responsabilità della sofferenza tutta sulle spalle degli esseri umani, ma inscrivendo al contempo il male morale in una logica indagabile con i mezzi propri della ragione.

Come ci spiega Neiman:

his [di Rousseau] moral psychology did not abolish distinctions between moral and natural evils but wrote them into nature. Where every sin carries its own punishment naturally, punishment may be viewed not as an evil but as a warning […] cold air teaches wild boys not to break windows without submitting them to human coercion. Indigestion shows Parisian decadents the folly of their banquets without subjecting them to sermons. Pain is as providential as any earlier theodicy could wish. Indeed, it may be more so. Rosseau’s account asserts suffering to be part of a natural order finer and vaster than earlier theologians had dreamed. (2002: 54)

Se prima il problema del male non era un problema filosofico né si poneva in termini di soluzione pratica, ora invece esso può essere risolto, perché entra totalmente nel campo di scelta umano: se la punizione è il risultato naturale di una scelta sbagliata, evitabile attraverso la conoscenza delle leggi che presiedono al funzionamento della natura, allora tutto è riconducibile alla responsabilità umana. Da qui deriva anche una naturalizzazione dei sistemi economici e sociali, come delle filosofie della storia. Se si fa a meno di Dio, non si può fare a meno di un ordine, ora iscritto nelle leggi della ragione, che è “so flawless it could almost run on its own” (ib.: 55). Nasce così un modello di mondo nuovo, pur conservando molte delle logiche medievali, che ha nelle cronache seguenti il terremoto lusitano le sue prime manifestazioni.

Infatti la questione se il terremoto fosse da leggere come un messaggio di Dio oppure come un semplice evento naturale, la cui gravità era dovuta all’incuria umana, ha avuto una diretta conseguenza sulle scelte politiche dei governanti portoghesi e sulla storia di tutta Europa.

Le reazioni all’interno della società portoghese furono essenzialmente due: leggere il terremoto come il primo segno di una Apocalisse vicina che Dio mandava sul Portogallo come punizione per i suoi peccati; leggere il terremoto come un evento naturale che aveva sconvolto la vita collettiva e che doveva essere ora adeguatamente superato trovando soluzioni adatte alle malattie, alla carestia e alla mancanza di edifici per i sudditi.

Il governo portoghese, con a capo il marchese di Plombal, decise per la seconda interpretazione: “the more earthquakes were viewed as normal events, the easier it would be

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to incorporate them into a normal world – or to view the return to normalcy as a merely practical problem” (Neiman, 2002: 248).

La prima interpretazione fu sostenuta dai gesuiti guidati dall’italiano Gabriel Malagrida che, in una serie di sermoni, sfidò lo stesso Plombal e, profetizzando un’altra catastrofe, gettò la città di Lisbona nel panico nel primo anniversario del terremoto. Quello che dovevano fare i lusitani era pregare e pentirsi e non continuare nei loro affari e nell’opera di ricostruzione. Così mentre Plombal cercava di salvare le vite dei cittadini dalla malattia e dalla fame, risollevando le sorti dello Stato, Malagrida cercava di salvare le anime dall’Inferno. Due anni dopo Malagrida fu arrestato e condannato a morte. Nel 1759 i gesuiti furono cacciati dal Portogallo – esempio che sarebbe stato seguito da lì a pochi anni da tutti i paesi europei cattolici, accelerando in Francia e Spagna il processo di secolarizzazione – e nel 1761 lo Stato prese le redini dell’Inquisizione e nell’ultimo auto da fé mise al rogo lo stesso Malagrida. La storia di Malagrida e Plombal è emblematica: il passaggio dal potere pastorale del Cristianesimo a quello governamentale dello Stato si compie.

Questa lunga digressione sul terremoto di Lisbona e l’interpretazione di Rousseau ci fornisce un quadro di riferimento importante che ci aiuterà nel’analisi del caso londinese. Come dice Dupuy (2005) oggi è possibile vedere come all’interno della società, attraverso la stampa e i media, vengano avanzati più modelli d’interpretazione di catastrofi e disastri che spesso sono indifferenti al fatto che ci si trovi davanti a un evento provocato dall’essere umano o a un evento naturale. Si pensi alle diverse discussioni attorno all’11 settembre: alcuni intellettuali avanzarono proprio una interpretazione legata alla giustizia, cioè gli americani ottenevano la giusta punizione per la sofferenza causata a vari popoli nel mondo.

Si pensi a come oggi vengono interpretati i disastri naturali: non più come fenomeno della natura, appunto, ma come conseguenza dell’agire umano (per esempio il surriscaldamento del Pianeta come conseguenza dell’attività economica). Il modello interpretativo di Rousseau, con il collasso tra i due domini, culturale (morale e oggetto di riflessione filosofica) e naturale (attinente alla scienza) sembra oggi ancora utile per inquadrare ciò che avviene nelle nostre società. Il collasso tra i due domini si ritrova a livello testuale nel trattamento unificato dei vari rischi, indifferentemente al loro essere causati direttamente da un agente umano o meno. Per questo pur interessandoci soprattutto al fenomeno terroristico, l’indagine sui modi in cui le società se ne proteggono riceve importanti suggerimenti anche dagli studi sulla elaborazione e l’interpretazione delle catastrofi cosiddette “naturali”.

Come riassume Andrea Tagliapietra, dalle rovine di Lisbona è sorto “un mondo in cui si discuterà sempre meno di peccato e di colpa, e sempre più di catastrofe e di rischio, si

smetterà di risalire ogni volta alle logiche apocalittiche del diluvio universale e si lasceranno parlare i sistemi descrittivi e gli apparati empirici” (2004: XVII). Questa trasformazione costituisce le basi della “società moderna e contemporanea, dove il rischio, e non più il pericolo, viene immaginato come permanente, e dove, quindi, si dà il bisogno di una semantica della catastrofe stabile e atta a indirizzare l’azione” (ib.: XX) 21.