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2. P AURA , TERRORE E ORRORE : UNA ANALISI DI SEMIOTICA DELLA CULTURA

2.9. Orrore e biopolitica

Il concetto di biopolitica e biopotere, che in anni recenti è tornato al centro del dibattito politico e filosofico, è stato indagato in particolare da Michel Foucault che nel 1976, nel corso

Il faut defendre la societé, lo definisce come una tecnica di potere non disciplinare che “si applica alla vita degli uomini, o meglio, investe non tanto l’uomo-corpo, quanto l’uomo che vive, l’uomo in quanto essere vivente” (Foucault, 1997: 209 trad. it.).

La nozione di biopotere acquista senso se confrontata per differenza con la definizione di sovranità; la definizione di biopolitica deve essere invece messa a confronto con quella di potere disciplinare. Il biopotere si differenzia dal potere sovrano nell’inversione degli obiettivi: se il potere sovrano consiste essenzialmente nel potere di dare la morte – o meglio di far morire o di lasciare vivere – come abbiamo visto precedentemente, il biopotere è il potere di far vivere o di lasciar morire. Il concetto di biopolitica invece si differenzia da quello di potere disciplinare per la presa e il fine che essi hanno: se il potere disciplinare ha come oggetto l’individuo e si concentra sulle pratiche correttive, cioè di disciplinamento del soggetto, la biopolitica ha come oggetto la popolazione e ha come fine quello di regolare una serie di fenomeni.

• natalità: controllo delle nascite, della longevità, della fecondità e della mortalità, cioè tutto ciò che possiamo generalmente definire gestione demografica;

• morbilità: controllo delle endemie, cioè della diffusione di una serie di malattie non sradicabili e non eccezionali (come le epidemie);

• abilità: gestione di incidenti, infortuni, processi di invecchiamento della popolazione e dell’individuo;

• ambiente: gestione dei processi di urbanizzazione e della città come luogo di produzione economica.

Questa tecnica di potere opera non sull’individuo, come le tecniche disciplinari e come il potere sovrano, ma più generalmente su una massa di individui che è definita popolazione. Costruita con le tecniche statistiche, il sapere proprio dell’economia, la popolazione è il nuovo oggetto del potere, il cui fine è quello di salvaguardare e potenziare la vita e la salute pubblica. Da qui il progressivo privatizzarsi dei rituali di morte e la scomparsa progressiva dei supplizi che erano, secondo il filosofo francese, la manifestazione pubblica del diritto Sovrano esercitato sul corpo e sulla vita dei sudditi.

Tutti questi processi passano dunque per una complessiva medicalizzazione e biologizzazione del corpo sociale e politico: il singolo membro, l’individuo, non è più un “uomo-corpo” ma un “uomo-specie”, cioè viene visto in funzione della sua appartenenza a una categoria naturale.

Secondo Foucault però il Sovrano non ha semplicemente deposto il suo diritto a uccidere, ma lo ha inscritto e giustificato secondo un’altra categoria: da quella teologica del dare la morte per diritto divino, a quella naturale del dare la morte per conservare la purezza della razza. Il razzismo diviene la nuova ragione, non più divina ma naturale, “in base alla quale si può esercitare il diritto di uccidere” (Foucault, 1997: 221 trad. it.).

Non che il razzismo nasca con la biopolitica come già Foucault ha cercato di dimostrare un decennio prima il corso del 1976. L’ideologia razzista infatti matura nel cambiamento epistemologico nel campo della storia naturale che porta a una nuova organizzazione degli esseri. Questo cambiamento, secondo Foucault, si consuma tra il 1755 e il 1795 con un ritorno alla teoria delle segnature e dei contrassegni “i quali presupponevano che gli esseri portassero, nel punto più visibile della loro superficie, il segno di ciò che in essi era più essenziale” (Foucault, 1966: 247 della trad. it.). Così il segno visibile inscritto sul corpo addita alla natura profonda dell’anima:

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su se stessa, riferire il visibile all’invisibile, come alla sua ragione profonda, poi risalire da quest’architettura segreta verso i segni manifesti che ne sono offerti alla superficie dei corpi. [...]

Esiste una distorsione fondamentale tra lo spazio dell’organizzazione e quello della nomenclatura: o piuttosto, invece di sovrapporsi esattamente, essi sono d’ora in avanti perpendicolari l’uno all’altro; e al loro punto di congiunzione si trova il carattere manifesto, il quale indica, in profondità, una funzione, e permette, in superficie di ritrovare un nome. (Foucault, 1966: 248-249 della trad. it.)

È in questo cambiamento epistemologico e nella riorganizzazione concettuale di un modo di rappresentare il mondo, sostenuta e patrocinata da un certo quadro ideologico e politico, che si verifica la nascita del razzismo, il cui dispositivo semiotico principale è appunto la somatizzazione dei caratteri morali delle individualità, cioè il postulare uno spazio invisibile e profondo interiore comune a uno stesso gruppo di individui a partire da un comune e misurabile tratto visibile somatico. A questa costruzione dell’altro, sulla base della corrispondenza tra visibile somatico e invisibile morale, corrisponde la determinazione di una fissità astorica in questo caso data dall’ordine naturale11.

Il razzismo e con esso il problema della guerra e del conflitto viene tradotto però a un certo punto nel campo biopolitico.

In primo luogo il criterio razziale diviene, all’interno dell’esercizio del biopotere, quello che permette una segmentazione all’interno del continuum biologico. In secondo luogo il razzismo permetterà di inscrivere nell’ambito biologico la relazione di inimicizia, in cui la morte dell’altro non fa che rafforzare biologicamente la propria razza, spurgata da ciò che la rende impura. Non più quindi come voleva il Politico, una regolamentazione tra pari e il mutuo riconoscimento del nemico, bensì la visione dell’altro come non-umano:

i nemici che si tratta di sopprimere non sono gli avversari, nel senso politico del termine, ma costituiscono i pericoli, esterni o interni, in rapporto alla popolazione e per la popolazione. In altri termini: la messa a morte, l’imperativo di morte, nel sistema del biopotere è ammissibile solo se tende non alla vittoria sugli avversari politici, ma alla eliminazione del pericolo biologico e al rafforzamento, direttamente collegato a questa eliminazione, della specie stessa o della razza. (Foucault, 1997: 221 trad. it.)

Sappiamo che su questi principi diverse discipline hanno costruito dei veri e propri apparati concettuali, giustificando massacri e genocidi sulla base di un criterio razziale. Molte di queste discipline, passando per l’inscrizione di una differenza morale all’interno di una differenza somatica (gli studi di Lombroso presentano appunto tale strutturazione logica [vedi Burgio, 1999]), hanno così dato al potere il diritto di asservire la vita dell’altro o di porne fine,

11 Vedremo oggi come nel caso londinese è proprio la visibilità del nemico, a partire da tratti caratterizzanti

in ragione della sua non appartenenza all’umano. Il razzismo diviene quindi l’ideologia che permette al potere sovrano di uccidere indiscriminatamente ciò che non viene più percepito come vita umana, bensì come vita animale.

Nel meccanismo del biopotere si consuma così la riduzione del bíos in zoé, categoria divenuta una delle chiavi interpretative più dibattute della contemporaneità a partire dalla riflessione di Giorgio Agamben (1995). Entrambi i lemmi designano la vita ma con una sostanziale differenza: bíos è la vita umana ossia una “vita qualificata” (Agamben, 1995: 3), mentre zoé è la vita presa nella sua tenuta biologica, il semplice fatto di vivere, comune a tutti gli esseri viventi.

La naturalità del zoé, cioè l’iscrizione di un individuo in una determinata categoria razziale, non è come sappiamo la conseguenza sociale di una oggettiva configurazione biologica: a capo vi è piuttosto una preliminare opzione politica che viene poi naturalizzata attraverso una rappresentazione biologica. In questo senso non dobbiamo intendere il livello del zoé come quello delle determinazioni biologiche oggettive dell’individuo, ma come forma di rappresentazione culturale che viene etichettata come naturale.

È in questo contesto che avviene l’estrapolazione biologica del nemico: non più nemico politico ma pericolo biologico. Soltanto questa opzione politica permette da una parte la mobilitazione della popolazione contro un nemico che corrompe la salute del corpo sociale, ne minaccia la purezza e la vita, e dall’altra la possibilità dello sterminio. Quell’inimicizia assoluta postulata da Lenin, e analizzata da Schmitt, viene inscritta nel biologico e resa visibile nei segni somatici. Come abbiamo visto nelle analisi di Douglas e Nussbaum quando viene messo in campo una ideologia contaminante e il desiderio di purezza, si puntella una struttura morale, naturalizzandola e rendendola ineluttabile: se è la natura stessa che iscrive la ripugnanza nel corpo del nemico, allora vuol dire che non si sfugge alla necessità del suo sterminio.

È così che l’inimicizia diviene assoluta, rendendo complicato parlare persino di rapporto amico-nemico, perché in realtà all’avversario non viene riconosciuto uno statuto umano. Così di fronte a “uomini extraconvenzionali” come si esprime Schmitt (1963: 130 della trad. it.) è possibile mettere in campo strumenti distruttivi extraconvenzionali, che ricollocano il diritto del Sovrano a uccidere ciò che non è degno di vivere: gli orrori del colonialismo, Auschwitz e Hiroshima hanno alla loro base tali dinamiche culturali.

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Da una prospettiva storica molte analisi hanno evidenziato come le premesse materiali dell’orrore nazista si trovano nelle tecniche e nei meccanismi di sottomissione messi a punto dal colonialismo imperiale. Secondo Mbembe (2003) è nel mondo coloniale che si manifesta, prima che nei campi di concentramento nazisti, la sintesi tra massacro e burocrazia, che Hannah Arendt ha poi analizzato nella figura di Eichmann. La Seconda Guerra Mondiale non fu altro che “the extension to the ‘civilized’ peoples of Europe of the methods previously reserved for the ‘savages’” (Mbembe, 2003: 23).

L’analisi di Mbembe ci permette di vedere come quel “diritto a uccidere” l’altro che era applicato ai popoli dell’Africa sottomessi, sia stato portato nell’universo concentrazionario e nella costruzione del nemico nell’era atomica, burocratizzando e industrializzando la morte per mezzo di quelle tecniche di cui il biopotere si era dotato:

The colonies are not organized in a state form and have not created a human world. Their armies do not form a distinct entity, and their wars are not wars between regular armies. They do not imply the mobilization of sovereign subjects (citizens) who respect each other as enemies. They do not establish a distinction between combatants and noncombatants, or again between an “enemy” and a “criminal” […] That colonies might be ruled over in absolute lawlessness stems from the racial denial of any common bond between the conqueror and the native. In the eyes of the conqueror, savage life is just another form of animal life […] according to Arendt, what makes the savages different from other human beings is less the colour of their skin than the fear that they behave like a part of nature […] the savages are, as it were, “natural” human beings who lack the specifically human character. (ib: 24)

L’analisi di Mbembe, in linea con quella del totalitarismo di Arendt, mette in evidenza come la reazione immunitaria delle potenze coloniali, come del Nazismo, sia una reazione a un pericolo visto come nemico biologico: questo soggetto, che sembra umano, fa parte della natura. A questa costruzione del soggetto colonizzato risponde la logica coloniale nella forma del commercio di schiavi o nel lavoro nelle piantagioni. Su questi soggetti viene esercitato il diritto di uccidere, dove però la forma di burocratizzazione e la costruzione della vittima, come di un essere non umano, impedisce allo stesso perpetratore la possibilità di concettualizzare il proprio atto come omicidio: la vittima non appartiene infatti alla categoria

homo.

Dall’universo coloniale all’universo concentrazionario il passo è breve: il ripiegamento delle tecniche di sterminio attuato nelle colonie, da una parte, e l’uso delle tecniche del biopotere, dall’altra, hanno prodotto ciò che Roberto Esposito ha chiamato tanatopolitica, cioè non il potere di produrre, creare e potenziare la vita – quello appunto della biopolitica – ma quello di distruggerla: ritorna così il diritto Sovrano di uccidere “in absolute lawlessness” (Mbembe, 2003: 24).

2.9.2. Auschwitz: la costruzione della vittima

L’approccio di una semiotica della cultura ad Auschwitz, al contrario di un approccio ontologico, vede la costruzione dell’orrore iniziare soprattutto lì dove alla vittima viene negata l’umanità: questo non accade nell’applicazione su una massa di persone di tecnologie di sterminio, ma accade prima di tutto nella preventiva spoliazione del soggetto della propria umanità rinvenibile nelle rappresentazioni. L’ideologia razzista con l’intera naturalizzazione dell’universo morale che esso comporta ha reso la soluzione finale un semplice e logico punto d’arrivo.

L’etnicizzazione del popolo tedesco, riconosciuto come razza ariana, e la costruzione degli ebrei corruttori del corpo della Nazione ha prodotto proprio quella reazione immunitaria, per dirla con Esposito, che aveva come scopo ultimo la pulizia e la disinfestazione del territorio nazionale: a un pericolo biologico si risponde con una disinfezione, che dunque non è né strage né omicidio.

Proprio la trasformazione del discorso sugli ebrei da discorso politico a biologico ha condotto a quell’opera di pulizia attuata con le docce dei lager e i forni. In tal senso l’equazione tra ebreo e parassita o batterio non è da leggersi come metafora ma va intesa proprio letteralmente:

quella nazista non è neanche propriamente una biopolitica, ma, in senso assolutamente letterale, una zoopolitica – espressamente rivolta ad animali umani. […] Hitler usava una terminologia immunologica ancora più precisa: “la scoperta del virus ebraico è una delle più grandi rivoluzioni di questo mondo. La battaglia in cui siamo oggigiorno impegnati è uguale a quella combattuta nel secolo scorso da Pasteur e Koch […] Riacquisteremo la nostra salute solo eliminando gli ebrei”. (Esposito, 2004: 124-125)

La costruzione della vittima come pericolo alla purezza biologica, inscrive il soggetto nel dominio dell’animalità: compiuto questo passo il Sovrano può liberamente ritornare a uccidere, essendo questo atto non un atto di omicidio ma una semplice opera di pulizia e disinfezione. Da qui la burocratizzazione della morte e l’industrializzazione dello sterminio: non più strage, nella mente dei perpetratori, ma semplice mattanza di ciò che non è umano.

La costruzione del nemico come germe patogeno contaminante porta anche a delle scelte tecniche precise: le docce, come strumento di morte o la costruzione deliberata del ghetto di Varsavia in una zona della città contaminata (rendendo gli ebrei che vi abitavano veramente contaminati), sono scelte derivanti da una strutturazione degli atti di sterminio in termini

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2.9.3. Hiroshima: a nemici non-convenzionali, armi non-convenzionali

Due giorni dopo la bomba su Nagasaki Harry Truman affermò: “The only language they seem to understand is the one we have been using to bombard them. When you have to deal with a beast you have to treat him as a beast. It is most regrettable but nevertheless true” (cit. in Weingartner, 1992).

La logica che sembra presiedere alla strutturazione del discorso di Truman non sembra, tutto sommato, molto diversa dal discorso di Hitler. Pur non volendo paragonare affatto le due figure storiche, risulta qui evidente che la logica culturale e valoriale che abbiamo chiamato biopotere accomuni, come nella ipotesi foucaultiana, tutti gli stati occidentali (Foucault, 1997: 116 trad. it.).

Il processo di deumanizzazione del nemico giapponese in realtà non comincia con la Seconda Guerra Mondiale ma risale a un periodo ancora antecedente:

Prima e dopo Pearl Harbor, si manifesta con nettezza il razzismo anti-“giallo”. Alla fine dell’Ottocento, gli immigrati giapponesi sono il bersaglio di misure discriminatorie, sono esclusi dai diritti politici e costretti a subire violenze e talvolta pogrom. Alcuni decenni più tardi, quanto più divampa il secondo conflitto mondiale, tanto più forte diviene il processo di razzizzazione dei giapponesi, assimilati a scimmie; emerge persino la tentazione dello sterminio e della soluzione finale. (Losurdo, 1999: 360)

Domenico Losurdo legge il processo di razzizzazione nel quadro interpretativo della guerra totale “che supera e cancella il principio della responsabilità individuale e che, per conseguire determinati obiettivi di sicurezza, non esita a colpire gruppi etnici e sociali presi nel loro complesso” (ib.).

Lo storico americano James J. Weingartner ha analizzato in quest’ottica la pratica diffusa e ampiamente documentata dei trofei di guerra americani, cioè l’uso di mutilare i corpi dei soldati giapponesi morti o di portare il loro cranio a casa. Weingartner vede “a kinship between the charred bones of Tokyo, Hiroshima, and Nagasaki and the polished bones of souvernirs gathered on Gaudalcanal, New Guinea, and Iwo Jima” (1992: 67), che va ricercata nel processo di deumanizzazione del nemico giapponese che ha permesso ai soldati americani di perpetrare sul corpo morto del nemico quel processo di sfigurazione che Cavarero e Arendt individuano come la cifra propria dell’orrorismo nazista.

Nelle parole di un veterano della guerra sul Pacifico: “the Japanese made a perfect enemy. They had so many characteristics that an American Marine could hate. Phisically, they were small, a strange color and, by some standards, unattractive… Marines did not consider that they were killing men. They were wiping out dirty animals” (Rooney, 1962: 37). O ancora in una raccolta dei racconti di guerra un veterano afferma “we had been fed tales of these yellow

thugs, subhumans, with teeth that resembled fangs. If a hundred thousand Japs were killed, so much the better” (Terkel, 1984: 64).

Sulla stampa ai giapponesi si applicavano terminologie diverse: mad dogs, yellow vermin, living snarling rats, apes, monkeys, insects, reptiles and bats. I giapponesi potevano essere riconosciuti dal loro odore orribile “the gamey smell of animals”. Il fatto che essi fossero dei subumani o degli animali aveva delle dirette conseguenze sul campo di battaglia, in primo luogo nel trattamento di ciò che, in una guerra regolare basata sul riconoscimento della pari umanità del nemico, viene comunque tutelato: il cadavere.

Charles Lindbergh, noto eroe americano e trasvolatore oceanico scrive:

our boys cut them off to show their friends in fun, or to dry and take back to the States when they go. We found one Marine with a Japanese head. He was trying to get the ants to clean the flesh off the skull, but the odor got so bad we had to take it away from him. It is the same story where I go. (Lindbergh, 1970: 919)

Secondo Weingartner “these acts vividly symbolized the racist attitudes which informed the U.S. war against Japan” (Weindgartner, 1992: 66). Secondo Weindgartner, tesi che analizzeremo in seguito, ciò che sembra assurdo e orrendo in tempo di pace viene normalizzato se inserito in una narrazione di guerra totale “the widespread image of the Japanese as subhuman constituted an emotional context which provided another justification for decisions which resulted in the deaths of hundreds of thousands” (ib.: 67).

Al frame interpretativo della guerra totale va aggiunta un altro tipo di narrazione, derivante da una certa strutturazione dell’universo morale: l’aereo americano che dopo Enola gay ha sorvolato la città di Hiroshima carico di scienziati per studiare gli effetti distruttivi di “little boy” si chiamava necessary evil. La bomba atomica venne così inserita nel contesto di una guerra totale in cui essa era l’ultima arma, “il male minore”, che ponesse fine a quello assoluto: la guerra.