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La comunità di fronte alla catastrofe

3. D IFENDERE LA COMUNITÀ : CATASTROFI E PROTEZIONE

3.1. La comunità di fronte alla catastrofe

Il problema del Soggetto e del Destinante non coinvolge solo la struttura attanziale all’interno della narrazione, come abbiamo visto nel precedente capitolo, ma anche la struttura stessa del mondo narrativo.

Per come il problema è stata impostato dallo stesso Greimas spesso la figura del Destinante si inserisce a livello interpretativo per dare un senso e una ragione degli eventi narrati: il lettore deve postulare all’interno del mondo narrativo l’esistenza di un altrove assiologico e la presenza di un’entità anche non figurativa che dia conto degli eventi (sia essa anche la fatalità, come nel caso del racconto di Maupassant).

Ciò che a noi più interessa è come questo livello sia implicato nella rappresentazione di potenziali eventi catastrofici, siano essi già accaduti, e dunque ripetibili, o meno. In questi casi viene rimessa in gioco la costruzione di un modello di mondo che permetta di collocare l’evento, dare a esso un senso e permettere al singolo e alla comunità di affrontarlo.

La costruzione di un modello di mondo rappresenta la costruzione di strutture valoriali che informano gli universi morali. Sulla base di tali modelli vengono giustificati atti politici, costruite identità nazionali e sovranazionali, giustificate guerre o politiche di sicurezza. Come anche sulla base di tali costruzioni e rappresentazioni siamo disposti a riconoscere in un evento un male assoluto da cui difenderci, ponendo attorno alla nostra cultura-comunità le misure difensive o offensive atte a evitarlo o distruggerlo.

Cercare di pervenire a una descrizione della strutturazione degli universi morali ci permette di collocare “noi” rispetto al male e al bene con l’obiettivo di porre noi stessi dalla parte del “bene”. Alexander, parlando a questo proposito, dello status, ontologico o contingente, dell’Olocausto afferma:

Questa rigida opposizione tra sacro e profano, che nella filosofia occidentale è stata tipicamente costruita come conflitto tra normativo e strumentale, non definisce solo ciò che è importante per le persone ma fissa anche forme di protezione vitali intorno al “bene” normativo e condiviso. Allo stesso tempo innalza barriere potenti e spesso aggressive contro tutto ciò che viene percepito come una minaccia nei confronti del bene, forze definite non tanto come fenomeni da evitare ma come fonti di orrore e contaminazione da contenere a tutti i costi. (Alexander, 2003: 35 trad. it.)

La contaminazione, come minaccia al bene; l’orrore che essa causa; la costruzione del male e del bene e delle barriere (quelle che abbiamo chiamato confini) che devono essere poste nel mezzo: ritorniamo così allo studio delle forme di immunizzazione. Possiamo difenderci dal male o distruggerlo prima ancora che esso si realizzi, specie nelle sue forme radicali, prima di tutto definendolo e rappresentandolo come tale.

John Dickie in Una catastrofe patriottica. 1908: il terremoto di Messina (2008) mette in evidenza come tra disastro e nazione, come forma della comunità, vi sia una stretta e importante correlazione, che si può analizzare sotto tre rispetti: l’emozione, la disputa e la cognizione (ib.: 15).

L’aspetto emotivo è legato a tutti i sentimenti d’onore, paura, fratellanza e orgoglio che sono messi in gioco nella rappresentazione della comunità colpita. La manifestazione di queste emozioni diviene ancora più intensa in corrispondenza proprio di questi eventi.

L’aspetto della disputa o del conflitto: spesso ciò che è più interessante sono i conflitti e le contese sulle immagini della nazione e della comunità, e sui valori che uniscono o dividono. Tutti quei valori di cui non possiamo a fare a meno ma su cui non riusciamo a concordare possono essere definiti concetti “essenzialmente contesi” (ib.: 21)14.

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Infine vi è la dimensione cognitiva, che è quella su cui ci siamo già soffermati: “l’identità nazionale ci fornisce un’immagine del mondo utile per definire e spiegare fenomeni naturali e sociali che rappresentano una sfida e sono ragione di ansia, sia per gli individui sia per la società nel suo insieme” (ib.: 23).

I sistemi identitari e culturali forniscono una risposta e una forma di protezione di fronte a dilemmi antropologici quali “la consanguineità, l’identità sessuale e la morte” (ib.: 23). Proprio di fronte a eventi dolorosi, come sono i disastri e le catastrofi, questi sistemi di contenimento, che garantiscono l’esistenza stessa della comunità e il suo immaginarsi come corpo sociale, subiscono tensioni alle quali per la maggior parte delle volte riescono a resistere: il nazionalismo è appunto un sistema culturale e identitario che ha fornito risposte ai dilemmi cognitivi e antropologici su ricordati.

A volte invece gli eventi provocano una lacerazione di tale sistema di contenimento e una rottura dell’ordine sociale: il modello non riesce più a esercitare la propria funzione di regolazione passionale, non riesce a dirimere il conflitto né tantomeno a fornire alla società una struttura di mondo dove si possano collocare gli eventi e che possa indirizzare l’azione.

È questo il caso in cui il contratto si rompe e in qualche modo i singoli e le comunità devono agire per ricostituirlo e quindi rifondare la convivenza. In questo senso leggo i disastri come “situazioni inerentemente politiche e teatrali”, in cui è messa in gioco la stessa legittimità del sistema e dell’autorità che lo governa. Nel caso del nazionalismo oggi “è la

performance dello Stato, sia in senso tecnico che in senso politico, che ne mette a rischio la legittimità nelle emergenze” (ib.: 10).

La tesi che ho qui esposto guarda in particolare a una dimensione simbolica delle catastrofi e si regge ancora su quella visione della cultura come sistema difensivo che ho cercato di valorizzare nel pensiero di Lévi-Strauss. Questa tesi nel campo antropologico è stata sostenuta anche per esempio da Ernesto De Martino in un’opera purtroppo rimasta allo stato di preparazione, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali (1977), in cui l’antropologo afferma:

la fine dell’ordine mondano esistente può essere considerato come rischio antropologico permanente a cui la cultura umana in generale è sempre di nuovo esposta, e cioè come il rischio radicale contro cui appunto la cultura si costituisce nella più specifica qualità di esorcismo solenne da rinnovare incessantemente: il rischio di non poterci essere in nessun mondo culturale possibile. (De Martino, 1977: 220)

In questa prospettiva, seppure all’interno di una analisi storico-filosofica, si pone anche il lavoro della filosofa Susan Neiman che in Evil in Modern Thought (2002) analizza i modi in cui la filosofia ha pensato al male, alla sofferenza nel mondo e alla potenziale fine dell’ordine

mondano. Anche per Neiman di fronte a esperienze collettive catastrofiche o traumatiche “at issue are questions about what the structure of the world must be like for us to think and act within it” (Neiman, 2002: 6).

Secondo Neiman ci sono degli eventi nel corso della storia che non solo si rivelano disastrosi da un punto di vista fisico, ma sono anche la causa di “conceptual damage” a cui seguono delle vere e proprie riorganizzazioni a livello categoriale: l’evento non trova, all’interno di una cultura, un modello narrativo capace di contenerla né un luogo ideale in cui essere classificata. Quando affermiamo che l’inimmaginabile si è realizzato o che ciò che era ritenuto impossibile è divenuto realtà, pensiamo proprio a questo livello: nel modello di mondo che una certa cultura ha costruito, quel dato evento non coincide con alcuna delle esperienze di “male” che una comunità ha esperito nel passato.

Neiman ha analizzato quegli eventi che nel corso della storia hanno rappresentato dei momenti di rottura nella interpretazione del male:

the historical framework shows that the changes in our conceptions of evil were not arbitrary. Through understanding the intellectual developments surrounding particular events we come to see why, for example, the Lisbon earthquake was seen as an evil in one moment, a misfortune in the next. At the same time, it would be mistaken to think historical changes are stable […] when one contemporary French philosopher compares Auschwitz to an earthquake, while another calls terrorism a virus, we must wonder how clear was our understanding of evil and intention after all. (Neiman, 2002: XVI)

Secondo la filosofa tutta la discussione intorno al bene e al male, alla loro rappresentazione e ai modi in cui le società pensano di difendersi, passa attraverso un modello fondamentale nella tradizione occidentale: la teodicea. Neiman ha passato poi in rassegna una serie di posizioni filosofiche che rendono conto delle varie riconcettualizzazioni del problema del male. Tali discussioni sono spesso maturate in contesti particolari. Nella storia moderna sono due gli eventi assurti a rappresentazione del male per eccellenza: il terremoto di Lisbona del 1755 e Auschwitz.

Il modello della teodicea costituisce secondo Esposito (2002: 89 e ss.) uno dei più importanti meccanismi immunitari di cui le società si sono dotate. Storici e filosofi15 hanno individuato nel XVIII secolo16 il periodo del graduale crollo di tale modello religioso. Il terremoto di Lisbona del 1755 ha costituito per molti lo spartiacque che ha segnato il declino del modello religioso e l’ascesa del modello secolare fondato sullo Stato.

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Ciò che faremo è analizzare brevemente questi momenti, sulla scorta sia dell’analisi di Neiman che alla luce dell’approccio simbolico alle catastrofi su esposto.

3.2. Teodicea

Il termine teodicea, seppure a volte riferito a testi dell’antichità, è stato coniato da Leibniz nel 1705 nell’opera Essais de Théodicée sur la bonté de Dieu, la liberté de l'homme et

l'origine du mal, pubblicata poi cinque anni dopo ad Amsterdam. La parola deriva dal greco e dall’unione di due lemmi théos (Dio) e díke (giustizia) e indica un genere discorsivo, afferente alla teologia, che ha come oggetto il rapporto tra il male del mondo e l’esistenza di Dio.

Ciò che qui mi interessa non è discutere dell’aspetto filosofico, bensì il fatto che le teodicee collocano la sofferenza entro delle strutture di intelligibilità, riconciliandoci con il male passato e insegnandoci a prevenirlo per il futuro (Neiman, 2002: 239).

Il modello della teodicea è per eccellenza il Libro di Giobbe, uno dei tredici libri sapienziali della Bibbia. Giobbe era un uomo giusto e retto e fedele a Dio che a un certo punto della sua vita viene sconvolto dalle disgrazie: perde le proprie ricchezze, i figli muoiono e lui si ammala. Da qui nasce l’interrogazione sul perché del male. Vengono avanzate varie ipotesi e l’unica argomentazione che sembra reggere la sofferenza di Giobbe consiste nel renderla funzionale alla salvezza ultraterrena: le sofferenze sono cioè una prova finalizzata al raggiungimento di Dio.

Questa ultima spiegazione, frutto del dialogo tra Giobbe e Eliuh, apre quello che nella filosofia moderna si definisce teodicea, come spiegazione razionale del male e giustificazione di Dio.

Il punto più alto nella tradizione della teodicea nel mondo moderno è appunto quello raggiunto da Leibniz: paradossalmente il testo che assegna un nome a una intera tradizione filosofica ne segna anche il declino. Leibniz porta la fede davanti al tribunale della ragione (si parla in questo senso di una tribunalizzazione del problema della vita): applicando il principio di non contraddizione e quello di ragione sufficiente il filosofo tedesco giunge alla conclusione che “quello in cui viviamo è il migliore dei mondi possibili” e che non c’è male assoluto, in quanto “tutto ciò che sembra male dal punto vista finito della monade individuale, dal punto di vista della Totalità è un sacrificio necessario per il bene superiore di quest’ultima” (Dupuy, 2005: 41 trad. it.).

Ciò che più ci interessa è che la ricerca di una causa alla sofferenza e al male è in realtà una ricerca dei valori. La sua funzione è rendere intelligibile i fatti dolorosi del mondo, dandovi un senso, e legittimare un ordine sociale: “since unexplained suffering threatens to

explode established order, those interested in maintaining the order had better find explanation fast […] Theodicy thereby preserves each group in the place it’s accostumed to occupy” (Neiman, 2002: 105). La teodicea costruisce dunque quello che abbiamo definito una struttura di contenimento che, spiegando la sofferenza e dandole un senso, permette di preservare l’ordine sociale che, di fronte a eventi disastrosi, minaccia di esplodere.

In generale, come abbiamo visto anche negli studi antropologici di Douglas, il modello della teodicea implica che la sofferenza che si realizza negli esseri umani è provocata da una colpa fondamentale: peccato originale, peccato commesso da ogni singolo essere umano nella sua vita o peccato di un’intera comunità, il male è il castigo che ne consegue. Ma tale castigo è male solo dal punto di vista contingente dell’essere umano o della comunità: in realtà il fine ultimo è la salvezza, quindi ogni male è apparente e comunque necessario al raggiungimento di un bene superiore.

Abbiamo in precedenza visto quanto il concetto stesso di giustizia implichi, da un punto di vista narrativo, la presenza di un Destinante sociale che riesca a difendere i valori, stabilire un ordine e fissare anche le punizioni. Il modello della teodicea è la matrice culturale di quello che in ambito giuridico si definisce appunto giustizia retributiva17:

secondo la giustizia retributiva, il male richiama il male, il bene, il bene; il delitto merita una pena equivalente, la buona azione, il premio corrispondente. È una proiezione dell'idea del contrappasso o del contraccambio: la giustizia come vendetta o come riconoscenza. La funzione della giustizia è distribuire sanzioni e ricompense. Non è detto però che cosa sia bene e che cosa male; che cosa sia pena e premio. Per questo, siamo ancora una volta di fronte solo a una formula. Ma non c'è dubbio che essa indica una concezione etica dei rapporti interpersonali: la giustizia non ci impone nulla, fino a che non si sia colpiti da qualcosa. Non ha a che vedere con la costruzione di una società giusta, ma solo con il ripianamento di uno squilibrio particolare (nel bene o nel male) determinatosi tra due soggetti.

Non è una virtù attiva che porta a fare del bene, ad agire spontaneamente da giusto. È una virtù reattiva che ha come fine la soddisfazione del torto subito o il ricambiamento del bene ricevuto, perché tutto torni a restare come prima. Riportate le cose com'erano e, spenta la sete di vendetta o pagato il debito di riconoscenza, si può andare di nuovo ciascuno per la propria strada e, magari, non incontrarsi mai più. (Zagrebelsky, 2007: 6)18

Come si vede dalla definizione che ne dà il giurista italiano la giustizia retributiva mette in campo un Destinante sociale che si pone tra due soggetti, infliggendo una sanzione ad uno e una ricompensa all’altro, al fine di ristabilire un ordine che è stato in qualche modo rotto. La

giustizia retributiva è dunque un modello possibile di ristabilimento dell’ordine e risoluzione

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del conflitto, fondato sempre sulla presenza e la costruzione di un Destinante sociale che tutela il contratto assiologico19.

La teodicea, come genere, si affranca dal campo religioso proprio nel XVIII secolo, cioè nel Secolo dei Lumi che, nella definizione di Lotman, rappresenta un momento esplosivo nella storia della cultura dell’Europa. La teodicea, in senso stretto, rimane quella modellata da Leibniz, ma in senso più allargato penetra nel campo filosofico divenendo un genere di discorso in cui si cerca di dare significato al male e ad affrontare la disperazione che esso causa, al di là della giustificazione di Dio (Neiman, 2002: 239).

Il progetto illuminista cerca di operare sul modello della teodicea rimettendolo in discussione: fare a meno di Dio vuol dire dividere il mondo in due domini, quello naturale, regolato dalle leggi della fisica e della biologia, e quello culturale legato alle scelte degli esseri umani. Da ciò discendono due tipi di male: il male naturale, che non dipende dall’azione dell’essere umano ma è un problema di scienza, e il male morale, che invece discende dalle azioni e dalla libertà dell’essere umano.

Questo nuovo modello di mondo proposto dall’Illuminismo e che opera sempre all’interno del lessico e della struttura logica della teodicea troverà la sua nascita, e verrà messo in crisi, nel disastroso terremoto di Lisbona del 1755. Di quell’evento discuteranno tutte le massime intelligenze del continente e ne uscirà un nuovo modo di concepire il male e il bene che avrà ripercussioni per i secoli a venire.