3. D IFENDERE LA COMUNITÀ : CATASTROFI E PROTEZIONE
3.4. Semantica della catastrofe
Il modo in cui una cultura colloca il male è spesso inscritto nella storia stessa delle parole che lo designano. Il male, sia nel senso morale che naturale, viene etichettato come “catastrofe”, “disastro” o “sciagura”.
Il termine catastrofe ha una storia piuttosto sintomatica del modo in cui il racconto di un disastro sia filtrato da veri e propri modelli narrativi. Il termine infatti deriva dal greco
katastrophè che vuol dire “rivolgimento, soluzione” e dal verbo katastréphein che ha il significato di “rivoltare, rovesciare” nella unione delle parole katá ”giù” e strephéin voltare (DELI: /catastrofe/).
In prima istanza il termine faceva riferimento esclusivamente alla parte della tragedia classica in cui avviene lo scioglimento dell’intreccio, significato che permane fino almeno al 1752 quando nel secondo volume della Encyclopedie, ou dictionnaire raisonné des sciences,
des arts et des metiers, par un societé de gens de lettres alla voce /catastrophe/ si legge “c’est le changement ou la revolution qui arrive à la fin de l’action d’un poeme dramatique, et qui la termine”.
Quattordici anni dopo, nel 1766, alla voce /tremblement de Terre/ contenuta nel sedicesimo volume si può invece leggere: “L’Europe est à peine revenue de la frayeur que lui a causée l’affreuse catastrophe de la capitale du Portugal”22. Il termine passa così dal modello della
21 Per verificare tale ipotesi è molto interessante e utile l’approccio comparativo adottato da Dickie che ha
confrontato la sua analisi del terremoto messinese del 1908 con l’analisi del terremoto che colpì la Calabria nel 1783, dunque pochi anni dopo Lisbona, compiuta da Augusto Placanica in Il filosofo e la catastrofe. Un terremoto del Settecento (1985). Dickie (2008: 145 e ss.) ha dimostrato come l’evento del 1783 sia stato letto alla luce del paradigma che abbiamo definito della teodicea: il terremoto era un evento che Dio aveva mandato sulla Terra per punire gli esseri umani per i loro peccati. Nel 1908 tale paradigma viene superato da un approccio più razionalizzante che definisce anche meglio il rapporto tra Stato e Chiesa. Sia le letture escatologiche compiute dalla Chiesa che le omelie che parlano di pentimento e castigo riportate nel 1783 vengono abbandonate. Il cambiamento è anche da ricondurre a un dato della storia della cultura: la sismologia, come scienza, è stata da subito un dominio di studio del clero. I due più importanti sismologi italiani, Antonio Stoppani e Giuseppe Mercalli (inventore dell’omonima scala) erano l’uno prete e l’altro abate. Al metodo
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tragedia aristotelica a nominare un evento reale che si presenta come una orrenda (affreuse) sciagura che provoca spavento (frayeur).
La catastrofe è dunque un capovolgimento dell’ordine, una sorta di rovesciamento di uno stato precedente causato da una sciagura o da un disastro. Come sottolinea Hayden White la catastrofe
è il momento nell’intreccio in cui le cose si separano (il greco sparagmòs, “strappo”, “lacerazione”), portando al dénuoment della storia e al “riconoscimento” (anagnorisis) del significato “profondo” dell’evento, cioè di ciò che è rivelatore della natura umana e dei misteri di una specifica esistenza sociale. (White, 2000: 151 trad. it.)
Questo modello narrativo traduce il disastro o la disgrazia: entrambe le parole condividono il prefisso privativo dis- con valore negativo e con significato di dispersione o separazione. Il disastro è una cattiva stella e la disgrazia uno stato di disgiunzione dalla grazia cioè dalla fortuna o dalla benevolenza divina. Anche il termine “sciagura” rimanda a un ordine superiore, che lega l’avvenimento alle dimensioni del fato, del destino o del sacro. La sciagura è infatti una disgrazia di estrema gravità che trova la sua origine nel verbo latino
exaugurātu(m) cioè “profanare, sconsacrare”, composto di nuovo dal suffisso privativo ex- e dalla parola augurāre e cioè consacrare con gli auguri. Originariamente lo sciagurato era dunque una persona non consacrata, profanata.
Il disastro, la disgrazia e la sciagura sono dunque eventi ricondotti a un ordine superiore, a una volontà onnipotente che sovrasta la limitatezza umana producendo come effetto uno stravolgimento catastrofico. Quest’ordine superiore può assumere le fattezze di un dio che punisce gli uomini per una colpa commessa (la massa dannata del peccato originale) oppure le fattezze della natura matrigna.
Il fatto che questi eventi vengano da un “altrove” non prevedibile è messo in luce in particolare dalle strategie di difesa poste dalla società di fronte all’evento luttuoso: riti presieduti da un membro eletto della comunità, lo sciamano, dovevano aiutare il corpo sociale a condividere ed elaborare tali paure e soprattutto a dialogare con quel luogo altro, il divino, da cui arriva l’evento che produce la catastrofe.
Questa una volta accaduta viene poi rielaborata, entrando nella memoria collettiva della comunità e tramandata dai membri più anziani del gruppo o registrata in libri a volte poi canonizzati: è il caso del diluvio universale, un mito che accomuna molti libri sacri. La sciagura in quel caso arriva da un dio che punisce gli esseri umani per il male commesso e in cui l’eroe – Noè (per le religioni del Libro), Utnapištim, Xisouthros, Ziusundra o Atram-hasis per i diversi miti mesopotamici o Tamander in alcuni miti delle popolazioni del Sud America – garantisce la continuità della vita della comunità dopo il disastro. La catastrofe monda il
male umano grazie a un altro male, la punizione divina, finalizzato al raggiungimento del bene (sancito nel racconto biblico dall’arcobaleno, segno della nuova alleanza tra Dio e l’uomo). Come dice De Martino questi miti rappresentano una importante forma di risoluzione della fine, che aiutano a esorcizzare l’angoscia dell’apocalisse possibile, garantendo una vita dopo il disastro.
Nel passaggio dalle culture premoderne a quelle moderne, caratterizzate da un processo di secolarizzazione e di sviluppo tecnologico, si assiste alla ricollocazione dell’evento nefasto, cioè a una diversa costruzione di quella che gli psicologi del disastro chiamano locus of
control23 e che, da un punto di vista narrativo, forse chiameremmo Destinante. La istituzioni sociali hanno abbandonato infatti il ricorso alla stregoneria o alle pratiche magiche, di divinazione e a quelle religiose e hanno dato a disgrazie e disastri soprattutto la forma del rischio.
Le tecnologie del rischio e le strategie poste in essere dalle società per difendersi da questi eventi hanno prodotto una ricollocazione della catastrofe in un diverso spazio della cultura. Questo processo è stato ben descritto da Niklas Luhmann:
le culture antiche avevano sviluppato delle tecniche di elaborazione del tuo differenti e non avevano necessità di un termine per ciò che noi oggi chiamiamo rischio. Certamente il problema dell’incertezza del futuro esiste da sempre, ma allora ci si affidava prevalentemente alla prassi della divinazione che, se non poteva garantire una certezza affidabile, poteva comunque garantire che la propria decisione non suscitasse l’ira degli dei o di altre potenze divine e fosse invece protetta dal contatto con le misteriose forze del destino […] anche il complesso semantico del peccato (cioè del comportamento che contraddice le indicazioni religiose) offre un equivalente funzionale, nella misura in cui può servire a spigare come si giunge alla sventura. (1991: 16 trad. it.)
Il rischio, il pericolo e l’emergenza rappresentano oggi le categorie culturali attraverso le quali comprendiamo il male, lo collochiamo nel mondo e ci relazioniamo a esso.
3.4.1. Pericolo, Rischio, Emergenza
L’origine della parola “rischio” è molto dibattuta. Alcuni fanno risalire la nozione a tò
rizikó “sorte, destino”, oppure a ē ríza “scoglio” o ē rŷsis “salvazione, protezione” (DELI: /rischio/).
Sicuramente nel XII secolo la parola kakoríziskos veniva impiegato per indicare la “sfortuna”. La parola è probabilmente d’origine marinara e si è propagata a partire dalla
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Grecia sia verso Occidente che verso Oriente, forse passando attraverso il filtro della cultura araba. Inizialmente essa indicherebbe semplicemente la navigazione in acque ignote, non segnate sulle carte (Brandimarte e altri, 2006: /rischio/) e quindi sarebbe una concezione legata all’attraversamento di uno spazio. Questa nozione è usata nel Medioevo specie nel campo della navigazione, quando le compagnie stipulavano i “contratti di fortuna” (da qui l’ipotesi di alcuni etimologi sull’origine della parola da “scoglio”, che rappresenta l’ostacolo alla navigazione per eccellenza).
Un altro filone indica invece l’origine della parola in altri usi. Nell’ottavo secolo la parola
rouzikon indica il pagamento in natura contrapposto al pagamento in denaro relativamente alla tassa che gli individui pagavano per il mantenimento di truppe d’occupazione (permane dunque la marca spaziale). L’espressione viene tradotta nell’arabo dei conquistatori in seguito alla conquista dell’Egitto con il termine rizq.
Nel XII secolo Eustazio di Salonicco utilizza l’espressione ándres tôu rizikôu, sempre riferendosi a una tassa per il pagamento di truppe d’occupazione, dove l’espressione designa i “soldati di fortuna” o “ventura” (ventura che vuol dire di nuovo destino o sorte). L’espressione ricorreva dunque lì dove si discuteva del pagamento di persone deputate a proteggere una comunità e un territorio: i soldati, persone che esercitavano la professione delle armi ricevendo in cambio appunto dei soldi (il valore economico sarà sostituito dal valore morale con la nascita dello stato nazione e il senso d’appartenenza alla patria che giustifica la leva di massa non retribuita), avevano il compito di proteggere il destino di una comunità. Secondo alcuni etimologi questo spiega il passaggio della parola rizikón al campo semantico della fortuna, della ventura, della sorte e del destino (DELI: /rischio/).
La parola rischio entra però gradatamente nelle società moderne nel campo di una nuova tecnologia di gestione e costruzione del pericolo: l’assicurazione. François Ewald spiega appunto che l’intera teoria assicurativa si fonda sulla nozione stessa di rischio. L’assicurazione è un modo di proteggersi da un evento futuro e incerto detto incidente:
in everyday language the term ‘risk’ is understood as a synonym for danger or peril, for some unhappy event which may happen to someone; it designates an objective threat. In insurance the term designates neither an event nor a general kind of event occurring in reality (the unfortunate kind), but a specific mode of treatment of certain events capable of happening to a group of individuals […] Nothing is a risk in itself; there is no risk in reality. But on the other hand, anything can be a risk; it all depends on how one analyzes the danger, considers the event.
[…] Rather than the notions of danger and peril, the notion of risk goes together with those of chance, hazard, probability, eventuality or randomness on the one hand, and those of loss or damage on the other – the series coming together in the notion of accident. (1991: 198-199)
La transizione semantica è evidente: si passa da una logica spaziale del termine a una logica temporale, da una causalità legata alla fortuna a una legata alle leggi statistiche, da una costruzione del pericolo come ostacolo alla costruzione del rischio come possibilità.
Il rischio non è inoltre esattamente un evento, come il disastro, la catastrofe o la disgrazia, ma il risultato di quella che Ewald chiama insurantial imaginary. Esso consiste nell’immaginare un evento, che chiamiamo pericolo, in termini di probabilità che esso avvenga e ai danni che esso potrebbe provocare irrompendo nella vita individuale o collettiva. Il pericolo viene quindi, a livello di immaginario, portato già all’interno della vita individuale e collettiva attraverso delle tecniche di previsione e inclusione prima che esso accada. Si cerca cioè di evitare il caos che esso potrebbe provocare, e di includerlo nella vita normale, non percependolo più come un accidente esterno che fatalisticamente può accadere.
La tecnologia del rischio ha come suo problema principale quello “dell’irruzione dell’avvenimento” (Foucault 2004a: 33 trad. it.) e di tutti gli “eventi possibili”, temporanei e aleatori, “che bisogna inscrivere in uno spazio dato” (ib.: 29 trad. it.). Ciò che si fa è prevedere attraverso tutti gli strumenti di calcolo statistico il grado di rischio di ogni atto, cioè quanto è probabile che un avvenimento accada o meno.
La differenza tra pericolo e rischio tracciata da Niklas Luhmann mi pare a tal proposito illuminante per capire il salto logico, narrativo e culturale che si compie passando dall’uno all’altro:
o l’eventuale danno viene visto come conseguenza della decisione, cioè viene attribuito ad essa, e parliamo allora di rischio, per la precisione di rischio della decisione; oppure si pensa che l’eventuale danno sia dovuto a fattori esterni e viene quindi attribuito all’ambiente: parliamo allora di pericolo. (Luhmann, 1991: 31 trad. it.)
Luhmann collega dunque la differenza tra rischio e pericolo in una collocazione della fonte di potenziale catastrofe all’interno o all’esterno del campo decisionale, che come abbiamo visto concerne il rapporto tra natura e cultura o comunque tra uno spazio interno, controllato dagli esseri umani, e uno spazio esterno appartenente ad altre forze, divine o naturali.
Le tecniche di prevenzione, previsione e precauzione trasformano in tal senso tutti i pericoli in rischi portando ogni evento nel campo dell’azione umana: anche la non-decisione a quel punto diviene una azione. Così la società moderna inquadra il male non dal lato del pericolo – e quindi della impossibilità della previsione con l’assunzione di un atteggiamento fatalista come accadeva nelle società pre-moderne – bensì dal lato del rischio, con l’assunzione di responsabilità rispetto all’utilizzo di tutti quegli strumenti per evitare o
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La graduale formazione di una “cultura del rischio” è probabilmente funzionale al meccanismo economico capitalistico, in cui appunto il profitto o utile è la ricompensa che viene data a chi corre un rischio particolare, quello d’impresa. Infatti, come ci ricorda Luhmann:
marcare i rischi fa dimenticare dunque i pericoli; marcare i pericoli, invece, fa dimenticare i profitti ai quali si potrebbe mirare con delle decisioni rischiose. Nelle società più antiche viene quindi marcato piuttosto il pericolo, in quella moderna fino a poco fa piuttosto il rischio, poiché in tal caso si tratta di un migliore sfruttamento delle opportunità. (1991: 34-35 trad. it.)
Il pericolo di perdere tutto produrrebbe la paralisi completa dell’agire economico così come pensato da alcuni secoli. Il rischio di perdere tutto invece permette di graduare e quantificare il pericolo garantendo anche la possibilità di essere remunerati per il fatto di correrlo.
Il rischio è però, dal punto di vista strettamente assicurativo, il calcolo delle probabilità rispetto a un pericolo che si mantiene al di qua della soglia di catastrofe, cioè di quella potenza distruttiva che interagendo con il sistema ecologico e socio-politico di una comunità lo trasforma radicalmente, facendolo diventare altro: un forte terremoto in una zona densamente popolata, uno tsunami, un disastro nucleare o un attentato terroristico di proporzioni catastrofiche sono avvenimenti che avvengono di rado e che quindi hanno teoricamente un basso rischio, ma la loro portata distruttiva è tale da non consentire un calcolo. La radicale incalcolabilità di questi rischi porta a utilizzare altre tecnologie, in particolare quelle dello scenario e della simulazione.
In tali casi la categoria di rischio si affianca a quella di emergenza latente. Per emergenza latente si intende “il bilancio complessivo della vulnerabilità di ciascun territorio [quando] i sistemi potenzialmente pericolosi non hanno ancora sviluppato la propria azione distruttiva” (Castelli e Sbattella, 2003: 28-29). Il calcolo delle vulnerabilità viene di solito fatto passando a un diverso tipo di immaginario, quello appunto della simulazione o dello scenario.
Per vulnerabilità socio-sistemica si intende l’insieme di “debolezze” che il sistema naturale (vulnerabilità geofisica e ambientale), il sistema sociale (vulnerabilità sociale) e politico- economico (vulnerabilità gestionale ed economica) hanno rispetto alla possibilità che un evento pericoloso diventi concreto. Il rischio dell’emergenza è quindi la somma delle vulnerabilità che un sistema esibisce di fronte a una situazione di pericolo, che si presenta come una fonte di rischio, cioè appunto una fonte di emergenza latente (vedremo nella seconda parte come questo concetto è stato applicato alle politiche di sicurezza a Londra dopo il 7/7).
Non esiste rischio lì dove non esiste vulnerabilità né esiste rischio lì dove non vi è qualcosa suscettibile di distruzione dal punto di vista della vita: un terremoto sui fondali oceanici o nel mezzo di un deserto non è né un pericolo né un rischio, ma semplicemente un evento naturale. C’è rischio e pericolo lì dove c’è un sistema antropico suscettibile di essere danneggiato o distrutto dall’impatto di un evento disastroso.
La definizione ufficiale di emergenza è invece quella fornita nel Internationally agreed
Glossary of Basic Terms Related to Disaster Management stilato dal Department of
Humanitarian Affair delle Nazioni Unite in occasione del Decade for Natural Disaster
Reduction (1990-99): si tratta di “un evento determinato da un agente fisico che produce un impatto distruttivo sul territorio in cui si manifesta, la cui entità dipende sia da caratteristiche fisiche e fenomenologiche dell’evento, sia dalla struttura socio-politica preesistente sul territorio di riferimento”.
La differenza tra rischio, nel senso assicurativo, ed emergenza sta nel modo di esistenza del pericolo: virtuale nel caso del rischio, realizzato nel caso dell’emergenza (che si avvicina dunque più al campo semantico del pericolo); inoltre se il rischio prende in carico un evento collettivo che però colpisce in maniera puntuale un elemento della comunità (agendo quindi sul lato delle unità partitive), l’emergenza è un evento collettivo che colpisce una collettività nella sua totalità. Ma ritroviamo qui nuovamente il medesimo schema del rischio: da una parte abbiamo l’evento, che abbiamo chiamato pericolo, dall’altro un altro sistema preso in uno stato normale, cioè il territorio e la struttura socio-politica della comunità. Il rapporto tra le caratteristiche fenomenologiche dell’evento e la struttura socio-politica della comunità può produrre l’emergenza. Se nel rischio però la categoria che traduce il pericolo è la probabilità, nel caso dell’emergenza è la vulnerabilità.
Ma questo non basta: il rischio e l’emergenza sono funzione della situazione omeostatica di un sistema. La rivolta del pane in Egitto del 2008 è il risultato di una situazione di scarsità che è stata definita di emergenza. Tale situazione in alcuni paesi in cui la scarsità purtroppo è un problema sistemico, non è considerata una emergenza bensì la vita normale del sistema sociale, politico ed economico di quei paesi.
L’emergenza e il rischio, al contrario del pericolo, non sono inoltre due concetti che designano un evento puntuale bensì le conseguenze durative di un evento pericoloso. Inoltre sono il risultato di operazioni che potremmo chiamare “immaginative” e governate da alcune tecnologie del sapere che sono le tecniche statistiche (la probabilità) e tutte le tecniche
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la sua potenza distruttiva, e la comunità nei vari aspetti ecologici, sociali, politici ed economici. Sono queste operazioni di previsione che fanno entrare l’evento pericoloso in una modalità di esistenza latente, che potremmo definire in termini semiotici, virtuale: l’emergenza, come somma di vulnerabilità è già presente.